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Quando Roma era la capitale della techno grazie al ‘Virus’

rave roma

C’era un periodo in cui il virus era tutto il contrario di quello che è oggi, e la sua spinta portava a muoversi freneticamente.

Che il 2020 sia l’anno del virus è indubbio, difficilmente ci dimenticheremo di questi lunghi giorni passati in casa ad aspettare. La questione non è tanto cosa succeda tra le mura domestiche, le problematiche sociali, economiche, la qualità della salute mentale in queste circostanze: la questione è che nessuno sa come agire e l’inazione è la regola. E invece c’era un periodo in cui il virus era tutto il contrario e la sua spinta portava a muoversi freneticamente.

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Siamo a Roma, negli anni novanta. “Più di ogni altra cosa però, era uno stile di vita legato alla musica techno. Sensazioni uniche, ricordi ed esperienze che potrei elencarti e raccontarti per ore e giorni”: queste le parole di Freddy K, personaggio che si inventò il Virus, il nuovo suono di Roma nel lontano 1993, portando alle orecchie della capitale una musica improvvisamente fredda, robotica, ignorantissima: l’hardcore techno gabberoide.

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Freddy K in una recente fotografia promozionale

Stiamo parlando di una roba che quando cominciò a diffondersi non capivi bene se avessero improvvisamente aperto le gabbie agli skinhead o semplicemente a una generazione che ne aveva abbastanza di tutto—soprattutto di essere costretta a pensare e soffrire. Anzi, potremmo dire a essere umana in un periodo di sviluppo in senso tecnologico delle nostre vite.

Quello alla tecnologia e alla sua asetticità fu quindi un passaggio sofferto, soprattutto in borgata, il luogo in cui questi suoni attecchivano con maggiore facilità: nessun’altra musica poteva raggiungere un tale livello di lirismo in quelle lande. Schiacciati dalla pressione psicologica ed economica delle generazioni precedenti, i paladini del Virus indossavano infatti magliette con scritto “Siamo profeti di santa follia, templari del delirio, interessati a tutto quello che è caos, disordine, degenerazione”.

“Siamo profeti di santa follia, templari del delirio, interessati a tutto quello che è caos, disordine, degenerazione”.

La canzone manifesto, suo malgrado giacché il suo autore ha sempre affermato di averla scritta per gioco, era proprio di Freddy K, e recitava “Devo andare / Devo andare / Io non posso più aspettare / Devo andare / Devo andare / Io non posso sopportare”: era un vitalismo che non andava da nessuna parte, una corsa contro il muro, un tentativo di eccedere se stessi per negarsi e raggiungere un iperboreo senza scopo, roba da curare con il ritalin.

Altro che stare a casa, il virus era l’opposto: contagiava tutti a buttarsi i giorni alle spalle e ballare per ore l’hardcore techno a volumi elevatissimi, inebetendosi tra sequenze sovente tutte uguali e completamente decerebrate, che già una nota sola era troppo e se dovevano essere tante dovevano letteralmente “accartocciare” le sinapsi.

Approfondiamo quindi le origini di questo suono: Il tutto nasce dalla trasmissione radiofonica di Freddy K in una piccola emittente romana locale e dalla sensazione, parafrasando lo stesso Freddy, che mancasse qualcosa alla “generazione elettronica”—per dirla alla Alberto Camerini—soprattutto a livello di programma radiofonico. Sì perché Freddy era uno che faceva parte di quella scena rave romana, capitanata dai pesi massimi Lory D e Leo Anibaldi: una scena fiorente che per la prima volta decide di importare a Roma la second summer of love londinese sdoganando quindi la techno come fenomeno di massa. È sempre ricordata la comparsata dei nostri eroi all’Istruttoria di Luciano Ferrara e la leggenda della “pompa inaudita”.

Ma forse “di massa” non è esatto: meglio usare il termine “popolare”. Perché ecco che dai primi Novanta si sperimentano situazioni e feste semi legali, partendo prima da grosse discoteche per poi arrivare ai capannoni industriali, ai campeggi. A un certo punto Roma diventa un punto nevralgico della techno mondiale, con feste che spuntano come i funghi, dal nulla. Questo fino al 1993, anno cruciale poiché improvvisamente la situazione prende una piega diversa.

Alle feste cominciano ad arrivare non solo i borgatari, ma proprio i coatti seri, che delle good vibrations non gliene fregava un cazzo, forse anche giustamente. Le prime risse, i primi “pelatini” e l’immaginario industriale travisato in salsa marziale portarono gli stessi Lory D e Anibaldi a dissociarsi in maniera netta e preoccupata dalla stessa creatura che avevano messo al mondo, ma la questione è che la nascita del rave romano forse non teneva conto dei reali pesi in gioco sulla bilancia.

Da una parte c’era il centro delle possibilità, dal quale partiva la rivoluzione. Dall’altra c’era la periferia coatta della disperazione con niente da perdere, che di questa rivoluzione si nutriva senza mai forse entrare realmente in gioco. E soprattutto che tanta gente alle feste = tanti soldi, e quindi inevitabilmente tutto cominciò a diventare una commercialata, fatta da alleanze strumentali al quattrino facile e di slogan qualunquisti.

Da una parte c’era il centro delle possibilità, dal quale partiva la rivoluzione. Dall’altra c’era la periferia coatta della disperazione con niente da perdere.

Lo stesso Lory D nel 1993 con Antisystem esce su BMG, la super major che oramai fiutava l’affare rave: il disco, nonostante sia una grande prova incompromissoria fatta di rumore e bordate di pistole laser e tubi metallici rimane comunque un qualcosa che ha perso la “genuinità” originaria, nonostante il suo scarso appeal per il mercato. Ma soprattutto, oramai è diventata musica più raffinata, si è evoluta in qualcosa che può anche fare a meno del ballo.

Lo dimostra lo splendido Muta di Leo Anibaldi, uscito nello stesso anno: sta diventando quasi “musica classica”. È qui che Freddy K, rimasto sempre in retroguardia rispetto ai due mostri sacri della techno, improvvisamente prende il testimone e diventa il paladino di una nuova era. Quella della macchina musicale che parte da se, non serve essere programmatori o avere intelligenza musicale sopraffina, affatto.

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La copertina di Muta di Leo Anibaldi, cliccaci sopra per ascoltarlo su Bandcamp

Si va dritti al sodo; anzi, alle Sodoma e Gomorra dell’elettronica. I bpm sono scariche di testate sul naso, della cultura techno e della sua tradizione acid, si prendono le scorie ridotte a marcette di calcestruzzo. Alla fine nel calderone Virus ci finiva tutto: anche la trance bombardona tipo quella dei Low Pass, in alcune compilation d’epoca ci finivano persino i Datura, l’importante è che “scoattassero”. Diventava quindi un’ attitudine al suono elettronico grezzo e zoro, ma anche a vivere la vita in uno stile “live fast, die young”—anzi, “die fast, live young” forse è più appropriato.

L’importante era sentire roba sintetica e a manetta e farsi di roba sintetica a manetta, e anche chi non si faceva stava lo stesso a manetta come i boosterini che tanto andavano di moda. La fascinazione di questa musica quindi non è da vedersi solo nell’ossessività e nella ripetizione di pochi elementi, ma nel fatto che fosse una specie di saetta cybergnoropunk in cui tutto quello che una volta ti piaceva del suono elettronico—i Tangerine Dream, l’acid house, le melodie digitali dei Depeche Mode, le contaminazioni della scena rave, le pulsazioni marziali dei Throbbing Gristle—tornava qui in una versione “maleducata”, a volte inascoltabile.

L’importante era sentire roba sintetica e a manetta e farsi di roba sintetica a manetta, e anche chi non si faceva stava lo stesso a manetta come i boosterini che tanto andavano di moda.

Per fare un paragone, la Viruz era come quei film horror di serie B che all’inizio ti lasciano perplesso perché sembrano una versione triturata e malsana di quelli d’autore, e poi invece diventano culto. Lo stesso nome di battaglia di Freddy K era mutuato dal protagonista di Nightmare, tanto per sottolineare quest’apparentamento col grottesco e col “mettere paura” a prescindere. Lo slogan simbolo di tutta questa storia potrebbe essere concentrato nel brano di Freddy K, “Roma“, contenuto su Rage of Age, il suo primo long playing pubblicato nel 1995 sulla mitica etichetta di riferimento della techno romana, l’AVC ovvero Alternative Current.

Una voce monotonale ripete “È Roma,” con la strana sensazione che quel ma finale suggerisca un dubbio, come a dire è davvero ancora QUELLA città? Sotto ci sono un acidone ossessivo compulsivo della serie “le prime due note che ho messo in sequenza sulla 303 buona la prima,” fumi industriali e melodie fuori sync. Insieme, dipingono uno scenario apocalittico ma nello stesso tempo “confortevole”.

https://www.youtube.com/watch?v=FCv4o5XBY0Y

Perché di certo la Viruz non te faceva pia a male—o meglio, i suoi fan la ascoltavano pure sotto la doccia come farebbe un qualsiasi patito dell’harsh noise con la sua musica preferita: se sei fatto di silicio, il silicio è la tua culla. Non è un caso quindi che il disco si chiami Rage of Age e non viceversa, come sarebbe stato normale: non è una questione di rabbia quanto di “era”. Ed effettivamente si sente un’evoluzione in avanti in quel disco rispetto all’ esordio di Control EP del 1994 o alle stesse tracce di Soundz EP, con la lobotomizzante ed esplicita “Noi non ci fermiamo mai”, dove la tendenza era al contrario quella di una techno acid acefala, ripetitiva, quasi orgogliosamente “imbecille”.

Esempio di questo è il pezzo “Winners“, che già dal titolo evoca bande di gladiatori/picchiatori caricati a pile contro un nemico che probabilmente non esiste, ed è bello per quello. A questo proposito e con tutte le correlazioni ambigue del caso, il logo del Virus, con la sua stilizzazione della V e della Z, sembrava una versione riveduta e corretta dei martelli di The Wall dei Pink Floyd—fine della psichedelia in primis.

“Il marchio di fabbrica che distingue la techno romana da quella di qualsiasi altro posto era una devozione totale e sincera al caos”

Tornando a Rage of Age, al contrario, ascoltando una traccia-omaggio come l’oscura “Dario Argento” non solo si sente quel filo conduttore con le atmosfere cupe/oniriche/misteriose della romanità tanto care a Lory D e Anibaldi, ma soprattutto una tendenza pre-HD, pre bubblegum bass, con le sue vocette digitali campionate senza pietà e le sue sgommate imprevedibili. E ovviamente il marchio di fabbrica che distingue la techno romana da quella di qualsiasi altro posto: una devozione totale e sincera al caos, tanto che sembra tutto programmato fuori tempo. Anzi, lo è, tanto che la parola “programmazione” è praticamente accessoria se non inutile.

Il Virus Team aveva come quartier generale il Makumba a San Giovanni, e il Gasoline/Qube a Portonaccio. Nel 1997 Freddy K, con i suoi accoliti Manolo Bad Boy, Alex Coma, Daniele Mattioli, Fabio Marafino e Marco Angeli, teneva testa a 2000 invasati alla serata Virus. Facevano grandi numeri, ma sicuramente meno rispetto ai primi storici rave: da una parte questo fu paradossalmente un presentarsi come una forza piuttosto “underground”, dall’altra invece la loro popolarità e il loro credo si diffuse in maniera molto più serpeggiante, proprio come un vero virus. Arrivava a chi avrebbe voluto aderire ma non poteva, e anche a chi era terrorizzato all’idea.

Insomma, il virus te lo prendevi comunque, volente o nolente: raggiungeva chi andava alle feste ma soprattutto chi non ci andava. Questo era il concetto base poi sviluppato, molto efficacemente, nella pratica. Se una nota musicale una era appunto già esagerare—parlano chiaro gli spot Virus dell’epoca, in cui l’encefalogramma è totalmente piatto—così era anche per la s finale della parola, che venne subitamente storpiata in z.

Il Viruz—detta poi anche al femminile, “la Viruz”, sempre per insofferenza alle questioni di genere, terrestre ovviamente—era già nella pronuncia una cosa diversa da una pandemia letale. La Z era l’onomatopea fumettistica della scossa elettrica, della sveja: ma anche dell’intercalare coatto, borgataro, sottoproletario in cui la fluidità della vita a forma di s (sapienza) si tramutava nell’incertezza e nella confusione quotidiana a forma di z (zoraggine), come dei protagonisti di storie scellerate di Citti sparati nellìetà spaziale.

“Ce lo saiz, io c’ho il viruz mica l’aiz” era il motto preferito degli adepti, che in questa frase mettevano quasi al loro posto l’epidemia dell’AIDS che limitava i contatti intimi tra esseri umani.

“Ce lo saiz, io c’ho il viruz mica l’aiz” era il motto preferito degli adepti, che in questa frase mettevano quasi al loro posto l’epidemia in voga nei novanta—quella dell’AIDS appunto—che limitava i contatti intimi, sessuali, tra esseri umani. No, il viruz vedeva oltre la carne, l’AIDS gli rimbalzava: non perché fosse un movimento spirituale, anzi. Semplicemente la carne era di troppo. Non tanto la musica, quanto il suono era la vera cura, faceva come scudo tra la mortalità e l’essere mortale stesso, o meglio come filtro da aprire e chiudere a piacimento.

Era come se il concetto fosse “contagiare il contagio”. Era una forma musicale aliena scesa in terra atta a “rimbambire la morte”, come in tante forme di danze medioevali, e che avesse preso piede a Roma non era certamente un caso. Da un lato ci sono i chiari ed evidenti punti di contatto con l’opera di Stefano Tamburini, egregiamente descritti nel libro Remoria del socio Valerio Mattioli. Dall’altro c’è la figura di un coatto alienato futuribile proprio perché baraccato e in simbiosi con le lamiere nelle discariche—che poi alienato forse non è la parola giusta considerato che è semplicemente figlio del suo tempo.

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Totò, Silvana Mangano e Ninetto Davoli durante le riprese di La terra vista dalla luna di Pier Paolo Pasolini (1967)

Questo coatto è descritto forse per la prima volta nella figura di Baciù, figlio di Ciancicato Miao/Totò ne La terra vista dalla luna, l’episodio di Pasolini contenuto nel film Le Streghe, anno 1967. Il personaggio, interpretato da Ninetto Davoli, ha i capelli rosso rame e dei vistosi pantaloni arancioni abbinati a curiose scarpe bianche. In qualche modo scavalla il punk ancora da venire arrivando subito alla chiassosa estetica rave, ma nello stesso tempo indossa un maglione con la scritta New York City che sembra quasi un bomberino ante litteram.

È il coatto che, perennemente ai margini della storia, recupera simboli che non gli sono propri—come appunto il mito della “big apple”—e li rimastica a sua immagine e somiglianza: in questo caso la techno di Detroit per la musica, che da nera diventa una deviazione pericolosamente fatta di candeggina.

Pantaloni aderentissimi fino a piallare i testicoli, bomberini ghiaccio con l’interno arancione “e se annava”. Dove non si sa, ma “se annava”.

Ma non era solo la musica, era anche il look a fare i virusini: una rivisitazione dell’immagine revarola colorata a vestiti larghi e cappellini, rovesciata in pantaloni aderentissimi fino a piallare i testicoli, in bomberini ghiaccio con l’interno arancione “e se annava”. Dove non si sa, ma “se annava”. A sfoggiare teste rasate, ma più che citare un discorso politico cosciente era più che altro una specie di THX 1138 di George Lucas gettato in un comprensorio di case popolari opprimenti. Skinhead non vuol dire per forza fascista.

La questione musicale era la stessa: tutto quello che di musicalmente buono era arrivato dai rave, nel senso proprio di “bontà”, sparì. La second summer of love condita con l’MDMA; l’elettronica smarmellata figlia delle atmosfere elusive dei Goblin, di Aphex Twin e delle tendenze industrialoidi che la capitale, prima su tutti, sdoganò con il regno della coppia Lory D Leo Anibaldi, creatori del suono di Roma; tutto questo si sgretolò. O meglio, si trasformò in una “spremuta de sangue”, per citare il proto-coatto Mario Brega.

L’etichetta di Lory D Sounds Never Seen si poneva come fautrice di musica internazionale che in qualche modo guardava a una complessità di linguaggi atta a immaginare un futuro diverso, se non radioso sicuramente reattivo e aperto, in cui anche le droghe erano empatiche e i suoni profondi e psichedelici. l seguaci del virus invece, a colpi di anfetamine, speed e spray, taggavano VIRUS in ogni centimetro quadrato della città.

Le loro sequenze contorte e al chewing gum mettevano il loro sigillo di gommalacca sulla storia, ribaltando tutto il concetto di rave in una celebrazione compiaciuta di un autismo collettivo senza ritorno, di una periferia dell’impero che in un solo momento diventava la stessa periferia in tutto il mondo, rassegnata ma in maniera strafottente, nella quale il cervello va spento per non impazzire ed è l’unico modo per prendere a cazzotti la vita senza cadere al tappeto. “Rispondere alla violenza con la violenza” però non è il modo giusto di interpretare questo movimento: anzi. E qui entro in gioco io con un aneddoto personale.

Una periferia dell’impero che in un solo momento diventava la stessa periferia in tutto il mondo, rassegnata ma in maniera strafottente.

Nei primi albori della Viruz io facevo il liceo, e l’arrivo di questo movimento fu abbastanza straniante: la loro musica era una “non musica”, cassa dritta e pedalare, ipnotismo completamente gratuito e deumanizzante. I loro valori erano chiaramente dei disvalori nati per spirito di contraddizione ma più immaginati/anelati che realmente messi in atto. Il loro look faceva pensare subito a dei fascisti a piede libero, e in parte era pure vero—non era raro vedere alle feste virus bandiere con celtiche e braccia tese. Ma appunto, in parte.

Ci trovavi anche dei figli del proletariato che passavano le giornate non a scuola ma a lavorare, e quindi cercavano una valvola di sfogo che annullasse definitivamente il senso di oppressione di un bucio di culo così. Ci trovavi quelli stufi delle velleità intellettuali che finalmente ascoltavano qualcosa di semplice ma massiccio, che colpiva sicuramente il basso ventre anziché la testa che già conteneva troppe informazioni discordanti e contraddittorie.

La Viruz era la manifestazione in musica di una situazione esistenziale, prendere o lasciare. Io in quel periodo attraversavo il mio momento Sonic Youth, ragion per cui il Viruz non era propriamente la roba che mi interessava, soprattutto per la sua ambiguità di fondo e non tanto per l’abuso di elettronica. Musicalmente aveva sicuramente il suo fascino proibito, ma era spesso roba per chi di musica non capiva un cazzo e non ne voleva capire, quindi non era difficile pensare alla truffa dietro l’angolo, e molta di quella suddetta roba era davvero monnezza senza senso.

Ma posso dire che il viruz per me è stato lo specchio di Alice: vivevo il momento noise rock grungettaro e io in qualche modo, di riflesso, stavo dentro anche a quell’altra realtà perché ero innamorato di quella che poi divenne la mia ragazza, e lei indossava appunto quella stupenda maglietta “Siamo profeti”. Stupenda perché il suo significato estremo era chiaramente, nella sua ingenuità, forse la cosa più fica di tutto il movimento.

Molto presto le sottoculture giovanili si diedero all’hip-hop, e quindi arrivarono le posse, e tornarono i rave fricchettoidi stavolta illegalissimi, nei quali era quasi sempre più importante la location che la musica che si ascoltava.

Lei andava principalmente alle feste pomeridiane, piene di minorenni, con quello che all’epoca era il suo tipo, un benzinaio simile a un armadio a due ante. Non era nazi per niente lei, anzi, il contrario. E lui alla fine era un tipo ok, nonostante tutti i luoghi comuni di borgata che prevedono anche la rissa, la difesa della ragazza come proprietà/ragione di vita, e chiaramente il fatto “de esse duro fuori e morbido dentro”.

Alla fine in amore la spuntai io, ma fu un braccio di ferro tostissimo, tanto che una volta dovetti nascondermi al pianerottolo sopra mentre lei affrontava lui nel dirgli che la loro storia era finita. Musicalmente invece probabilmente non la spuntò nessuno. Molto presto le sottoculture giovanili si diedero all’hip-hop, e quindi arrivarono le posse, e tornarono i rave fricchettoidi stavolta illegalissimi, nei quali era quasi sempre più importante la location che la musica che si ascoltava.

https://www.youtube.com/watch?v=VYqnrKYT0Oo

Avvenne quindi un cambiamento radicale di gusti che comunque non era meno massificante del fenomeno viruz—a dimostrazione che alla fine se ti vogliono rifilare la monnezza, lo fanno ovunque. A questo si aggiunse un cambio di rotta per quello che era il ballo. A questo proposito scrive in Remoria un illuminante Valerio Mattioli rispetto al “linguaggio del corpo” dei virusini:

“Ballare ai ritmi dell’hardcore significava abdicare alle forme libere, sciolte, estroverse dei primi saturnali rave, e costringere il corpo a una serie di mosse contratte, celeri, nervose. Nelle forme di danza che il turboproletariato coatto inaugurò al Virus, i muscoli si ingrossavano e i nervi si tendevano in figure che sembravano parodiare un’isterica degenerazione del passo dell’oca. Al contrario dell’hakken, lo stile atletico che in Olanda aveva accompagnato l’ascesa della gabber, le danze coatte erano una rigida successione di mosse che sovrapponevano le movenze dell’automa a quelle di una parata militare: le braccia si levavano in aria in saluti sospettosamente simili al riflesso pavloviano del Dottor Stranamore, i piedi puntavano ad angolo all’interno, i talloni scattavano in fuori, il busto si impettiva, le mani battevano aggressive a tempo o disegnavano in aria le rigide geometrie di un Tetris immaginario. «Passo del pinocchietto» lo chiamavamo noi pischelli di borgata che dai coatti volevamo tenerci a distanza, e che dei coatti segretamente subivamo tutto il fascino, tutta la potenza che ci arrivava da una forma di vita così massiccia, così poderosa, così nuova.“

Il mio aneddoto conferma questa sensazione: impossibile sfuggire al Viruz, nel bene o nel male. Anche perché poi si trasformò in un negozio di dischi, dove talvolta a fine anni Novanta andavo ad acquistare vinili e a far sentire le mie demo elettroniche. Ma vigeva sempre una situazione per cui ai “bravo, belle cose” non seguiva nessun interesse a prendere sotto l’ala il novellino. Forse perché i party techno a Roma erano diventati una questione di “predominio”, e così anche riguardo l’ultima deriva dei rave, in cui riuscire a suonare era difficilissimo se non avevi qualche santo al tuo fianco.

Ma a volte non era utile neppure avercelo: se il DJ di turno era strafatto e entro cinque minuti toccava a te, stai sicuro che quello suonava ancora anche se lo cacciavano a calci. Tant’è che alla fine Freddy K se ne andò via da Roma per la mitica Berlino, come allo stesso modo Lory D a una certa era fuggito per andare in Veneto: entrambi vittime di un’implosione.

Alla fine Freddy K se ne andò via da Roma per la mitica Berlino, come allo stesso modo Lory D a una certa era fuggito per andare in Veneto: entrambi vittime di un’implosione.

Queste le motivazioni di Freddy K: “in tutto il mondo la scena si era evoluta, continuava, invece Roma si era completamente fermata lì. Roma è una città molto tradizionale, anche chiusa per certi versi. Io mi sono vissuto i suoi anni più belli, per quelli che erano i miei interessi ovviamente: la scena musicale, la techno, i rave… Poi tutto si è fermato e mi sono sentito vecchio, anzi, Roma mi faceva sentire vecchio, bloccato, senza una via di uscita in un vortice di mentalità chiusa”.

“Quando il virus diventa malattia voi ne pagate le conseguenze”, diceva un vecchio motto del movimento, e in effetti così è stato. Ma è stato anche un periodo di grande gioia per quelli lo vissero, in una condivisione nella quale forse lo scontro/incontro era più importante di un semplice e ipocrita viaggione chimico “peace and love” da neo-frikkettoni. Adesso, nella situazione in cui ci troviamo, non avremmo mai pensato che un detto d’epoca ci sarebbe apparso così saggio: “Esci dal coma, beccati il virus”. E allora, auguriamo buon risveglio a tutti, “de core”.

Un grazie a Sdio Canato (e lo saiz). Dedicato alla memoria di Valeria V.

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