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Salvini ha ufficialmente scoperto che il Parlamento non è il Papeete

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Se in questi ultimi giorni non riuscite a stare dietro all’evoluzione della situazione politica italiana, non preoccupatevi: è assolutamente normale. Anzi, direi che è salutare—perché questa crisi di governo è una delle più ingarbugliate, caotiche e incoerenti di sempre.

Una delle poche certezze è l’antefatto. L’8 agosto Matteo Salvini straccia il “contratto di governo” con il M5S, chiede “pieni poteri” agli italiani e dice che non c’è tempo da perdere. Perché? Perché “gli italiani”—tutti, nessuno escluso—chiedono disperatamente di tornare a votare, e non stanno nella pelle.

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Solo che, lo si capisce in fretta, non sono “gli italiani” a voler capitalizzare il consenso che emerge dai sondaggi: è solo ed esclusivamente Salvini, che non esita a rimangiarsi tutte le rassicurazioni sulla “lealtà” e la lunga durata del governo. In più, confondendo i propri ruoli istituzionali, intima ai parlamentari di “alzare il culo” per indire elezioni in date improbabili—come il 13 ottobre 2019. Il tutto senza però ritirare i ministri, e affidandosi a una semplice mozione di sfiducia.

L’apertura ufficiosa della crisi, comunque, mette in moto una serie di ribaltoni e colpi di scena degni di Lost—e dunque sconclusionati per definizione—riportando in auge personaggi che sembravano definitivamente usciti di scena.

Il primo è Matteo Renzi. Non troppo tempo fa, l’ex segretario del Partito Democratico e presidente del consiglio aveva garantito che lui avrebbe fatto il “senatore semplice”: sarebbe quindi stato zitto, avrebbe lavorato per il suo collegio, e soprattutto avrebbe seguito la linea del partito.

Ma naturalmente, non è stato così. Ha bloccato ogni trattativa con i Cinque Stelle dopo il 4 marzo 2018, ha fatto incetta di popcorn, e si è messo a impallinare i colleghi di partito che volevano parlare con il M5S. Solo la settimana scorsa, di fronte ai retroscena che parlavano di una trattativa tra M5S e PD, tuonava cose di questo tipo: “Qualcuno dice che io voterò la fiducia a Fico. E perché non Toninelli premier allora? O Di Battista? Sono ragazzi così preparati e competenti. Dai ragazzi, non scherziamo.”

Alla fine, però, è venuto fuori che a scherzare era lui: l’11 agosto, in un’intervista al Corriere della Sera, arriva a caldeggiare un “governo istituzionale” con i Cinque Stelle per fermare Salvini, aprendo l’ennesimo psicodramma in casa PD. Il segretario Nicola Zingaretti è favorevole alle elezioni anticipate, altri (come Dario Franceschini e Goffredo Bettini) sono orientati per un nuovo esecutivo.

Il secondo personaggio è Beppe Grillo—che avevamo lasciato a parlare di vermi come “infermieri della natura” ed “edifici viventi” sul suo blog. Mentre Luigi Di Maio, scombussolato e ferito, si aggrappa all’unico argomento rimasto in mano ai Cinque Stelle (ossia il taglio dei parlamentari: ma su questo tornerò più avanti), Grillo invoca un governo di “responsabili” per fermare i “nuovi barbari” leghisti. Non si sa bene con chi; basta che non sia con Renzi, definito un “avvoltoio.”

Il terzo è Silvio Berlusconi, che come al solito cerca di stare con il piede in più scarpe. Nonostante Forza Italia sia lacerata e ridotta ai minimi termini, in una fase così convulsa i suoi 166 parlamentari sono essenziali sia per far cadere il governo, sia per crearne uno di nuovo. In pratica, FI potrebbe alternativamente bloccare i piani di Salvini o far parte di un “nuovo” centrodestra.

Tuttavia, secondo un retroscena del Corriere della Sera, c’è parecchia diffidenza tra Salvini e l’ex Cavaliere. Il leader leghista è preoccupato di un tradimento con PD e M5S; Berlusconi non vuole che i suoi vengano “trattati da paria.” Per Repubblica, l’offerta leghista è quella di una lista elettorale unica: una proposta che però FI ha respinto, visto che “non è disposta a rinunciare alla propria storia, al proprio simbolo e alle proprie liste.”

Ed è in questo clima daBattle Royale—con i vari contendenti che si scannano dentro e fuori i social in una feroce lotta per la sopravvivenza—che ieri si è tenuto il voto in Senato: da una parte Lega, FdI e Forza Italia hanno chiesto che Conte vada a riferire in aula il 14 agosto; dall’altra PD, M5S, LeU e altri gruppi hanno proposto il 20 agosto, come peraltro già stabilito dalla conferenza dei capigruppo.

Non si trattava però di un semplice voto sul calendario, ma del primo passaggio parlamentare della crisi: un modo dunque di verificare i rapporti di forza tra le varie forze politiche e registrare eventuali maggioranze alternative. Il risultato è che Salvini, uscito dall’aula al momento del voto, ha incassato la prima sconfitta: la mozione della Lega è stata bocciata e Conte sarà in aula il 20.

La discussione a palazzo Madama ha comunque restituito molto bene l’atmosfera di assoluta tensione politica: urla, interruzioni e battute sulle reciproche abbronzature. L’intervento più atteso è stato quello del Ministro dell’Interno, che ancora una volta ha provato a sparigliare le carte aderendo alla proposta dei Cinque Stelle di votare il taglio dei parlamentari—che solo 24 ore prima era un “SALVA-RENZI”—e di andare a votare subito alle elezioni.

Peccato che tecnicamente sia pressoché impossibile tagliare i parlamentari e andare subito al voto. I motivi li ha spiegati Francesco Clementi, professore di diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, sul Sole24Ore: in base all’iter previsto dall’articolo 138 della Costituzione (che disciplina le modifiche costituzionali), non si andrebbe al voto prima di aprile-giugno 2020.

Inoltre, continua Clementi, tale voto deve avvenire “con le Camere pienamente funzionanti lungo l’asse del rapporto fiduciario Governo-Parlamento. È evidente, dunque, che se cade il governo non si può votare il taglio dei parlamentari; e tra l’altro, stando al calendario della crisi, si discuterà prima la mozione di sfiducia a Conte (il 20 o il 21 agosto), e poi la riduzione dei parlamentari (il 22 agosto alla Camera).

Più che fare un’abile mossa strategica, Salvini ha provato a rifilare un bidone ai Cinque Stelle. Di questo se n’è accorto persino Luigi Di Maio, che in un post su Facebook ha scritto: “Se la Lega sfiducia Conte il 20 agosto lo fa solo per non tagliare i parlamentari due giorni dopo. E avrà preso in giro ancora una volta gli italiani. E niente, stavolta gli è riuscita male…Vediamo che faranno davanti a Conte. Noi li aspettiamo al varco.”

In sostanza, a quasi una settimana dalla decisione di staccare la spina al governo gialloverde, Salvini è già costretto ad ammettere che il Parlamento non è il Papeete—non è, cioè, un luogo di cui lui può disporre a piacimento. E con una pattuglia di deputati che vale il 17 percento (ricordiamoci che i suoi status alla “gli italiani vogliono…” sono un conto, i sondaggi che vedono in crescita la Lega un altro, e i numeri alle camere stabiliti dalle elezioni un altro ancora) la gestione della crisi non è in mano sua.

Il blitzkrieg salviniano per il voto “istantaneo” è dunque fallito. E non lo diciamo noi; lo dice Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Interpellato dai giornalisti, il numero due della Lega ha ammesso che sarebbe stato più facile andare a votare se si fosse aperta prima la crisi, ma che alla fine “sono le decisioni di un capo, e un capo sempre decide lui da solo e alla fine sono responsabilità personali.” Segno che forse, ma forse, non sta andando proprio tutto per il verso giusto.

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