Steve McCurry va in posti tremendi e torna con foto incredibili


Giacimenti di petrolio di Ahmadi, Kuwait, 1991

La foto scattata da Steve McCurry a Sharbat Gula, nota come “Ragazza afghana“, è apparsa sulla copertina di National Geographic nel 1985, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Nel giro di pochissimo è diventata una delle più famose al mondo. Il lavoro di McCurry nella guerra dei mujaheddin contro la potente macchina bellica sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta ha ulteriormente cementato la sua posizione di fotoreporter di primo piano. Da allora si è occupato di documentare l’impatto sull’uomo delle guerre di tutto il mondo, collezionando numerosi premi. L’ho chiamato per scoprire come sia rimanere quasi secco sul lavoro e quali ripercussioni abbia avuto su di lui la visione di cotanti orrori.

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Mujaheddin, Afghanistan

VICE: Ciao Steve. Il ritratto della ragazza afghana è probabilmente una delle immagini più rappresentative del Ventesimo secolo. Non ti infastidisce che, con tutte le foto e i progetti a cui hai lavorato, a rappresentare la tua intera carriera sia una sola foto?
Steve McCurry: Per nulla, anzi è il contrario. Non credo mi sia mai venuto in mente.

Hai lavorato in Afghanistan per molto tempo. Come ti sembra sia cambiata la situazione del Paese dai tempi della guerra russo-afghana?
È sempre un luogo pericoloso e ci sono sempre battaglie in corso. Ritrovarsi in una situazione di instabilità è sempre pericoloso. Penso che all’inizio ci fosse tanta buona volontà nell’accogliere gli stranieri, insomma chiunque fosse disponibile ad aiutare il popolo—in pratica gli occidentali, o comunque, praticamente tutti tranne l’Unione Sovietica. Indiani, europei, cinesi e americani erano i benvenuti. Ora, invece, c’è ostilità, i talebani vedono l’Occidente e la NATO come nemici, quindi anch’io sono un nemico. Prima prendevano ostaggi e chiedevano il riscatto, ora uccidono per ragioni politiche. 

L’Afghanistan è il posto più pericoloso in cui hai lavorato?
Ogni zona di guerra presenta problemi diversi. L’Afghanistan, l’Iraq durante la Guerra del Golfo, Beirut o la Cambogia. Ma sì, forse l’Afghanistan è stato il più pericoloso. Quando sono stato lì nel 1979-1980 con i mujaheddin, mi trovavo spesso a giorni e giorni di distanza da ogni tipo di assistenza, a magari due giorni dalla strada più vicina, spesso in compagnia di uomini che non erano stati ben addestrati e con cui avevo grossi problemi di comunicazione. Ci bombardavano con mortai e con colpi di mitragliatrice e anche dagli aerei, e mi trovavo con un gruppo di combattenti messi insieme alla buona, certamente coraggiosi, ma senza un addestramento valido.

C’è stato qualche posto in cui hai trovato pochissima collaborazione?
Sì, l’Iraq ai tempi… Be’ in realtà l’Iraq è sempre stato un luogo impossibile, in particolare ai tempi di Saddam Hussein. La collaborazione era scarsa, o assente. I rapporti con la stampa erano davvero molto tesi. Anche a Baghdad potevi a malapena lavorare.


Afghanistan, provincia di Kunar, 1980. Un giovane combattente

Hanno mai cercato di sabotare il tuo lavoro?
Sì, nel senso che non mi era permesso lasciare l’albergo o fare quello che dovevo. Non direi che sono stato preso in ostaggio, ma ero prigioniero.

Trascorrendo così tanto tempo nelle zone di guerra, hai accumulato una grande esperienza di quali siano le conseguenze sul campo degli affari politici e internazionali. Come ha influenzato tutto ciò il tuo rapporto con la politica?
I problemi sono i più diversi, alla fine penso che i popoli vogliano essere rispettati, e i Paesi in guerra sono spesso quelli in cui è in corso una lotta per il potere: nel caso del Libano, tra cristiani, siriani, o musulmani o palestinesi. Nel caso dell’Afghanistan, c’erano i talebani contro qualche altra divisione etnica. Nei Paesi come il Kashmir, sono i musulmani contro gli indù. Solitamente tutto si riduce a un gioco di potere. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma la realtà è che penso che a volte qualcuno voglia solo impadronirsi del potere, e non gli importi di come ci riesce.

Ti sei ritrovato in situazioni di serio pericolo ben più di altri fotografi. Sei stato vittima di un incidente aereo, ti hanno sparato, sei stato sotto le bombe e via dicendo. Fino a che punto sei consapevole delle situazioni in cui ti vai a mettere e come prendi la decisione di scattare una foto anche se devi correre un grosso rischio?
Penso che tutti vorremmo sempre lavorare in sicurezza. Chi fa il fotoreporter o il giornalista ha bisogno di lavorare con gente capace, traduttori e guide, assistenti che capiscano la situazione. Vuoi essere cauto. Penso di aver sempre cercato di lavorare in questo modo, non puoi improvvisare. Ovviamente i posti come la Siria e la Libia sono rischiosi, ma cerchi comunque di lavorare nella maniera più sicura possibile.


Ragazza con uno scialle verde, Peshawar, Pakistan, 2002

Hai mai sottovalutato una situazione che improvvisamente si è rivelata molto più spiacevole di quanto pensassi?
Una volta ho valutato male una situazione con un piccolo aereo in Jugoslavia, che il pilota ha fatto schiantare in un lago. È stato… be’, non saprei. Quando sei in questi luoghi, c’è sempre un equilibrio da mantenere. Da una parte devi farti carico dei rischi, non puoi essere troppo timido. Ma è necessario valutare il rischio, soppesare gli elementi e ogni tanto lasciar fare al caso, non sei mai sicuro al 100 percento. Non è una scienza esatta, perché tutto continua a cambiare. Ma fai del tuo meglio e speri che le cose vadano per il verso giusto. Puoi essere ucciso anche camminando per strada a Londra o New York, no?

Pensi di essere diventato insensibile al pericolo?
Penso che con l’esperienza impari anche il senso di precarietà del lavorare in luoghi pericolosi e, forse, all’inizio sei un po’ ingenuo e non comprendi tutti gli aspetti o le reali dimensioni di quello con cui hai a che fare. Non credo che ci si abitui mai, che si impari a essere del tutto a proprio agio. Il modo in cui ti rapporti al pericolo cambia, ma non credo che si possa desensibilizzarsi del tutto. Non è mai una routine. Se stai raccontando una storia o documentando una situazione, devi gestire il lavoro e devi farlo nel miglior modo possibile. Ma no, non credo che ci si possa abituare. Penso che la violenza e la guerra siano sempre orribili. 

Grazie, Steve.

Trovate altre foto di Steve McCurry nelle pagine successive.


Un minatore fuma una sigaretta, Pol-e-Khomri, Afghanistan, 2002


Monaci shaolin in addestramento, Zhengzhou, Cina, 2004


L’Avana, Cuba, 2010


Tribù Hamer, Omo Valley, Etiopia


Ragazzo in fuga, Jodhpur, India, 2007


Rajasthan, India, 2009


Pozzo e uccelli, India


Donna che legge alla luce del sole, Thailandia, 2012

Altri fotografi Magnum:

Il mondo visto da Christopher Anderson