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Nevermind Nirvana (Ovvero: sticazzi dei Nirvana)

In questi giorni ristampano In Utero dei Nirvana e quindi tocca parlarne. Da quel che capisco però, per parlare dei Nirvana nel 2013 bisogna per forza partire dalla propria esperienza personale col gruppo di Kurt Cobain & co. Per qualche strano motivo è come se esordire con un classico, forse banale ma filologicamente corretto “i Nirvana si formarono nel 1987 ad Aberdeen” sia diventato sconveniente; al contrario, in giro troverete tantissimi incipit del genere “la prima volta che ascoltai ‘Smells Like Teen Spirit’ avevo X anni ed ero in cucina/in cameretta/sull’autostrada/in galera” o che so io. È un po’ un modo di ribadire per vie laterali la portata epocale di quella musica, l’impatto dirompente del fatale incontro, una cosa del tipo che dopo quella volta niente fu più lo stesso: i Nirvana significarono talmente tanto che restituirne a parole lo sconvolgimento che generarono diventa faccenda improba, quindi tanto vale rifugiarsi nella testimonianza privata, nel personale che diventa pubblico, nella minuscola storia di provincia, nel memoir adolescenziale; tutte prove in piccolo di un sommovimento oggettivamente grande.

Bene, mi adeguo anch’io alla tendenza (non sia mai) e vi dico che la prima volta che mi imbattei in “Smells Like Teen Spirit” frequentavo se non sbaglio la classe III F della Scuola Media Statale Luigi Capuana di via del Rugantino 91, quartiere Torre Spaccata, Roma. Non avevo ancora compiuto tredici anni, su VideoMusic i Nirvana erano in heavy rotation, e a me tutto sommato piacevano (anche se mi erano piaciuti di più i R.E.M. di “Losing My Religion”). C’era un’altra tipa nella classe accanto, si chiamava credo Ilaria (o forse Irene), e questi Nirvana piacevano anche a lei. Decidemmo un giorno di andare a comprare il cd di Nevermind al Centro Commerciale Cinecittà Due di viale Palmiro Togliatti, prendemmo l’autobus 558, arrivammo a destinazione, poi per qualche motivo che non ricordo lei lo comprò e io no. Ora che ripenso a quell’episodio confesso di provare un moto di sorpresa al pensiero di due dodicenni di borgata che per una volta, invece di buttare il tempo in piazzetta, decidono di andare a recuperare il disco di una alternative band americana: ma che diavolo, la televisione ce l’avevamo pure noi. Mica eravamo così fuori dal mondo: stavamo ancora dentro il Raccordo Anulare.

Passano un paio d’anni ed ecco che esce In Utero. A quel punto ero già al liceo e devo dire la verità: non è che me ne fregò granché. Il fatto è che trovavo i Nirvana piuttosto… non so, diciamo noiosi, mi facevano pensare ai diari con lucchetto delle mie compagne di classe e alle toppe metallare degli omologhi maschi (continuate a leggere e vedrete che non ero poi così lontano dalla realtà), e non trovavo differenza tra Kurt Cobain e una qualsiasi rockstar a caso del periodo. Avevo quasi quindici anni e per i Nirvana non provavo né fastidio né altro: è che proprio non mi interessavano. Suonerà forse sgradevole, ma quando Kurt Cobain morì la notizia mi appassionò tanto quanto un pareggio della Lodigiani in C1. Era morto un tizio che suonava: e allora? Insomma, mica era la prima volta. Sui diari delle mie compagne di classe, il suo volto stava appiccicato a fianco di quello di Jim Morrison. C’era tutta una tradizione dietro. Sono cose che succedono, cose degli americani, cose del ruock: perlomeno così la vedevo io.

Non ho praticamente nessun ricordo di quell’evento: quando morì Cobain? D’estate, d’inverno? Come venni a sapere del fattaccio? La televisione, qualche amico, il giornale? Boh. La mia pressoché totale estraneità a quello che negli anni a venire è stato dipinto come il momento di svolta di un decennio intero farebbe di me una specie di emarginato, uno che quegli anni lì non se li è vissuti veramente, o se non altro uno rimasto tagliato fuori dai riti e dai totem della generazione d’appartenenza. Ohibò, a me non sembra. A me pare al contrario non solo di aver vissuto quegli anni per intero, ma di essere stato addirittura un tipico esponente di quella generazione lì. Tutto senza che dei Nirvana mi fregasse niente. Tutto senza il santino di Cobain cucito da mamma sull’Invicta Jolly. Mi sono perso qualcosa?

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L’altro giorno a una cena in cui per via di questo articolo ho posto la questione, il mio amico Grip Casino mi ha detto: “ma che scherzi? I Nirvana sono un mito. Kurt Cobain è un mito. È come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin”. Gli ho fatto notare che mi aveva tirato fuori tre nomi tutti rispondenti a una certa idea di rock, tutti americani, e tutti morti entro il 1971. E che negli stessi anni in cui i Nirvana impazzavano, altri sommovimenti avevano già provveduto a mandare all’aria quell’idea lì di “musica giovane”. Per dire, nel film 24 Hour Party People, c’è un punto in cui Steve Coogan/Tony Wilson si rivolge allo spettatore indicando il pubblico della Hacienda di Manchester che si dimena al suono di una traccia house, presumibilmente attorno al 1989-1990: “lo vedete?”, dice più o meno Coogan/Wilson, “è qui che la storia cambia: il pubblico non applaude più il gruppo sul palco… applaude il dj!”.

Nel film è un cambiamento che viene paragonato alla nascita delle ferrovie e del computer, “il momento in cui anche i bianchi cominciano a ballare”. Ma è solo metà della storia: quando per esempio iniziai ad andare ai rave, alla gente del dj nemmeno fregava più niente. Era giusto una figurina anonima sullo sfondo, una specie di tecnico audio nascosto dietro la consolle mentre migliaia di persone inneggiavano, più che al suono in sé, al semplice fatto di esserci. Il parallelo col mondo di cui—loro malgrado—furono espressione i Nirvana del dopo-Nevermind è stridente: da una parte il rocker-icona a cui le folle attribuiscono qualità sostanzialmente cristologiche, salvifiche, missionarie; dall’altra un’esperienza altrettanto “religiosa” e comunitaria, che per sua stessa natura prevede l’assenza totale di qualsiasi punto di riferimento fisico e/o icona. Il che solleva il dubbio: non sarà che il mito-Nirvana pertiene non dico ad altre generazioni, ma a una concezione di stampo generazional-identitario che a pensarci bene nel 1994 del suicidio di Cobain già era implicitamente nostalgica, agiografica, diciamo pure (perdonatemi) passatista?

Ora, vi dico subito che non ho nessuna intenzione di mettere in discussione l’impatto che i Nirvana esercitarono sull’industria musicale dei primi anni Novanta: bisognava essere sordi per non capire che erano il gruppo più chiacchierato, discusso e ascoltato del periodo. Stavano sempre in mezzo, li trovavi persino su Tunnel con Corrado Guzzanti/Lorenzo che andava a rompergli le scatole. Però sì, per vari motivi proprio non riesco a considerarli quel Macigno su cui fonda la cultura pop degli ultimi vent’anni. A differenza a quanto pare del 98% dei commentatori da social network, non li trovo un gruppo particolarmente rivoluzionario né tantomeno gli apripista di un genere (cosa che però, almeno suppongo, nessuno che abbia un minimo di conoscenza dell’epopea indie-rock sosterrebbe mai). E dovrebbe a questo punto essere chiaro che non li trovo nemmeno un gruppo particolarmente aderente alla propria era, e anzi: perché mai negli stessi anni in cui la musica pop viveva un cataclisma dopo l’altro, a essere considerato quintessenziale di un’epoca sia un gruppo che si limitava a suonare del sano vecchio rock anni Settanta, continua a sembrarmi un paradosso.

Capiamoci: io non ho nessun problema coi revisionisti retrò e con chi, negli stessi anni in cui le vendite dei campionatori superavano quelle delle chitarre, si ostinava a surriscaldare gli amplificatori valvolari a furia di power chords. E a dirla proprio tutta, i miei gruppi preferiti del periodo erano persino più retrò dei Nirvana: insomma, per usare un eufemismo non è che i Gories fossero questi campioni di avvenirismo; oddio, col senno di poi magari gli Antioch Arrow e tutto quel giro lì facevano già cose più particolari, ma era veramente roba minuscola e la ascoltavamo in quattro stronzi. Agli stessi rave ho cominciato ad andarci solo più tardi, quando secondo i “vecchi” il periodo d’oro era già finito (chissà cosa pensano di quello che è successo poi, poveracci) e come dire, non era esattamente la musica il motivo per cui li frequentavo. Però ecco, nel 1994 proprio non mi riusciva di identificarmi col faccione in TV di questo rocker maledetto chiamato Kurt Cobain, che indossava camice di flanella come i Creedence Clearwater Revival e che viveva a 9120 chilometri in linea d’aria dal sottoscritto.

Ho quindi deciso di chiedere a un po’ di tizi che per motivi generazionali il ciclone-Cobain se lo beccarono in pieno, perché i Nirvana furono tanto importanti. Non per loro: diciamo per (ahem…) la Storia. Sono tutti nomi che dovrebbero suonare familiari ai lettori di VICE e Noisey; cominciamo da Francesco Farabegoli, che sul suo riverito blog Bastonate ha definito In Utero “il disco più bello di sempre“:

“Io di mio posso dirti che tutto il discorso di portare l’indie nel mainstream e tutto il resto, per uno nato nel ’77, è venuto dopo. Un punto fu l’estetica: un giorno vestivamo coi jeans a vita alta e la maglietta dentro, il giorno dopo sembravamo tutti in fila alla mensa dei poveri. E poi ci fu l’estetica del suono, che non era inedita ma non lo si sapeva e sembrava comunque più sanguigna di cose anche violente tipo Metallica, ma secondo me non fu così influente o lo fu nel modo sbagliato. Però la dimensione dei Nirvana era più che altro una dimensione narrativa. Sembravano davvero essere scontenti di tutta quell’attenzione, hanno fatto svariate mosse pubbliche che sembravano volte ad auto-sabotarsi e tutta la cosa ha definito molto un modo di essere che in qualche modo ha reso il ROACK delle arene un posto bruttissimo in cui essere costretti a stare (…). I Nirvana (non furono i soli, ci metto assieme almeno un Phil Anselmo per il metal) ri-introdussero su larga scala l’idea di alzarsi al mattino, mettersi una maglietta che hai in casa e attaccare la chitarra a un amplificatore. Che secondo me è molto meglio di, non so, avere i pantaloni di pelle attillati e i cannoni che sparano i fuochi d’artificio sul palco.”

So che sembrerà un controsenso a Farabegoli per primo, ma al di là del discorso estetico (che meriterebbe una trattazione a sé), mi sembra che le sue parole tradiscano un sottotesto diciamo pure reazionario: i Nirvana non avevano i pantaloni di pelle attillati, d’accordo, ma questa interpretazione di Cobain e compagni quali baluardi di una implicita sincerità dell’essere rock (ti alzi, ti metti la maglietta e suoni) conserva un retrogusto idealizzante che conduce diritto all’apoteosi lumpenproletariat di Joe Carducci e del suo pseudofascista Rock and the Pop Narcotic; lo stesso Carducci fu un grande sponsor del grunge e dei Nirvana in particolare, ultima ancora di salvataggio contro i “froci” (parole sue) che ancora utilizzavano sintetizzatori & co, o gente tipo i R.E.M. che si limitava a strimpellare arpeggi intimisti buoni tuttalpiù per piacere alle ragazze: perché per Carducci il rock, oltre che essere AMERICANO, è anche molto MASCHIO. Questa idea della musica giovane tutta sangue e sudore non è meno testosteronica e ROACK (per dirla di nuovo con Francesco) dei “cannoni che sparano fuochi d’artificio sul palco”. Ne è se vogliamo l’ingrediente-base, e in fondo non è un caso che da quel clima siano venuti futuri beniamini del rock da stadio tipo Smashing Pumpkins e Pearl Jam. E anche le “mosse pubbliche volte ad auto-sabotarsi” e l’immagine scazzata del gruppo, cos’era se non una variazione sul tema della nausea maudit dei vari (di nuovo) Jim Morrison e via ruockeggiando? Ma stiamo andando oltre.

Marco Pecorari sorvola anche lui sul contributo strettamente musicale del gruppo per soffermarsi proprio sull’aspetto che Farabegoli considera secondario, e cioè “l’indie che penetra il mainstream”. Per Marco i Nirvana furono in primo luogo dei divulgatori:

“Sono stati una sorta di ‘motore di ricerca’ musicale prima dei motori di ricerca, prima della banda larga, hanno smesso di far rendere fruibile la musica ‘di culto’ solo ai ‘cultori’. Certo, si potrebbe dire che ora trovi tutto e subito ma dall’esplosione di Nevermind in poi grazie ai Nirvana potevi sapere che esistevano certi gruppi e certe sottoculture anche se vivevi nella periferia dell’impero. Sono stati coloro che hanno aperto definitivamente la breccia che poi di seguito, con la rivoluzione del 2.0 avrebbe annullato e reso obsoleti la differenza culturale, subculturale, controculturale etc etc fra ‘mainstream’ e ‘underground’. (…) Pensiamo anche ad un fatto apparentemente più superficiale come indossare magliette come quelle dei Sonic Youth, dei Flipper o quelle di Daniel Johnston.”

Questo è un altro aspetto molto importante nelle agiografie nirvaniane. Però ci ho pensato e devo dire che a me non risulta che Cobain e soci abbiano “smesso di far rendere fruibile la musica di culto solo ai cultori”: nomi come i Flipper continuano ad avere un seguito… be’, di culto, diamine. Alla (relativa) fama tutta contemporanea di Daniel Johnston ha contribuito più un disco fatto assieme a Sparklehorse che la maglietta con l’alieno indossata da Cobain. In America al mainstream (o quantomeno alla firma su major) erano già arrivati Husker Du, Replacements, R.E.M., Sonic Youth, a cui a questo punto spetterebbe il dubbio primato di aver mescolato le carte tra MTV e underground. E poi se guardiamo le classifiche anche dell’epoca, della sedicente rivincita indie troviamo pochissime tracce: i Novanta saranno pure stati gli anni della cosiddetta alternative revolution, ma se guardiamo bene restano prima di tutto il decennio di Whitney Houston, Backstreet Boys e Spice Girls, coi Pearl Jam a occupare la stessa posizione che un decennio prima toccò allo Springsteen di Born in the USA. Non sono nemmeno così sicuro che i Nirvana abbiano anticipato la “rivoluzione 2.0”: anzi, a me tutto quel mondo—il rocker-icona, l’accento cristologico, la coincidenza tra biografia e personaggio sul palco—sembra drammaticamente (e perché no orgogliosamente) 1.0. E però ho come l’impressione che ci stiamo avvicinando al cuore del problema (se problema è, beninteso).

Veniamo adesso a Demented Burrocacao, l’unico che si degna di spendere due parole anche sulla musica di Cobain e compagni:

“Finalmente c’era una musica che metteva in qualche modo d’accordo i metallari, i punk, i dark, i wavers e la gente che ascoltava pop. Insomma era una specie di crossover che però—a differenza che ne so dei Faith No More—non era ‘cazzone’. Le influenze nere apparentemente non c’erano, in realtà erano blues allo stato puro, come dimostrano alcune tracce acustiche su With the Lights Out. Era qualcosa di nuovo fatto con pezzi di roba vecchia, come toppe su dei bei pantaloni.”

Demented insomma conferma – con un briciolo di argomentazioni in più – quanto già accennato da Farabegoli, e cioè che la musica dei Nirvana “non era inedita ma non lo si sapeva”: “qualcosa di nuovo fatto con pezzi di roba vecchia”, appunto. Ma dovrebbe ormai essere chiaro come il puro dato musicale quando si parla di Nirvana conta poco. Lo stesso Demented esordisce sottolineando l’impatto in primo luogo ecumenico degli autori di Nevermind, tre tizi che con la sola forza delle loro canzoni erano capaci di mettere d’accordo soggetti e tribù in apparenza differenti, restaurando così quello che è uno dei miti di fondazione del rock: quello cioè di una specie di linguaggio che è al tempo stesso in codice e universale, un apparente paradosso facilmente spiegabile se con la memoria andiamo all’era aurea della musica giovane, quando intere generazioni si formarono letteralmente all’unisono trascinate dalle note dei (inserire nomi a scelta di gruppi storici nel periodo che va dal 1954 [1963 se pensate che il rock sia nato coi Beatles] a un anno qualsiasi di metà anni Settanta in cui ascoltare un disco dei Led Zeppelin aveva ancora senso]. Sentite un po’ cos’altro dice Demented, anche lui giocoforza attratto dagli aspetti più quintessenzialmente generazionali dell’affare-Nirvana: “(…) finalmente si tornava a parlare di anarchia su MTV. Poi purtroppo quando sembrava che le cose a livello di music business prendessero un volto umano, Cobain s’è sparato e in quel momento ci sono rimasto di merda perché per una volta che i Melvins erano su major speravo in un futuro migliore.”

Il che mi ha fatto tornare alla mente questo passaggio dell’autobiografia di Frank Zappa in cui il musicista baffuto descriveva a parole sue l’irripetibile e a lungo rimpianto connubio tra musica giovane (persino la più oltraggiosa) e industria, ovviamente sempre nei fantomatici anni d’oro dell’altrettanto fantomatica “cultura rock”:

“Tra le poche cose buone successe negli anni 60 ci fu il fatto che finalmente un po’ di musica di natura sperimentale e insolita venne registrata e pubblicata. Orbene, chi furono quei discografici tanto saggi e incredibilmente creativi da rendere possibile l’esistenza di questa Età Dorata? Gente giovane e figa con l’alito che sapeva di Perrier? No, solo matusa mastica-sigari che, ascoltati i nastri, sentenziavano: che ne so io, chi cazzo sa dire che roba è questa? Cristo santo, stampatelo! Che ne sappiamo? Che ne so”.

Bisogna dirlo, pare veramente la descrizione dei boss della Capitol mentre ascoltano un nastro dei Butthole Surfers.

Ora, lasciate perdere il tono colorito delle affermazioni (è pur sempre Zappa), quello che conta è che una volta era possibile, in quella Età Dorata che furono gli anni 60 (e per estensione primi 70) accendevi la radio e c’era la tua musica, o anzi – che dico! – la nostra musica, perché sì, a quei tempi la prima persona plurale (aggiungete pure generazionale) aveva ancora senso. E adesso sentite cosa mi dice Federico Tixi a proposito dell’incontro coi soliti Nirvana:

“All’epoca ascoltavamo tutti metal, o quasi, che era la musica più caciarona che potessimo trovare senza troppa fatica, quindi è arrivato quel video nella palestra e sono arrivati ‘sti qui che erano caciaroni ma non erano metallari. E considera che quel video passava IN CONTINUAZIONE. (…) Erano più o meno i primi che ascoltavamo che facevano bordello senza parlare di draghi e mortacci vari.”

Magari Tixi sta veramente parlando di lui e del gruppo di amici suoi in quel lontano millenovecentonovantaqualcosa, ma quel tutti noi sembra veramente chiamare in causa un moto generalizzato che ha il sapore della vera e propria epifania collettiva. C’è anche un’altra informazione che non trascurerei, anche perché echeggia nella primissima testimonianza di Farabegoli, e cioè il passaggio metal→grunge. Ovviamente non voglio discettare della qualità o meno del metal in tutte le sue forme e varianti, quanto sottolineare come proprio il metal ancora a inizi Novanta fosse il più appariscente surrogato di quell’originario “spirito ruock” andato perso in qualche punto imprecisato a cavallo tra fine 70 e inizi 80 (per colpa di, a seconda di chi hai di fronte: punk, discomusic, drum machines, hip hop, più quello che volete voi): in sostanza un esasperante concentrato di machismo esibito, maledettismo droghereccio, volumi assordanti e temi perlopiù sconvenienti. Togliete a tutti questi ingredienti la patina cartoonesca dei “draghi e dei mortacci vari”, spogliateli degli orpelli più parodistici, riportateli a una dimensione più terra-terra e a conti fatti “umana” e be’, in effetti più o meno avrete il grunge. Ma questo testimonia solo della naturale evoluzione dei gusti di una generazione che credeva di aver intravisto il demone del rock nelle pose fallocratiche del capellone di turno, e che poi ha scoperto che non era necessario vestirsi da Circo Togni per riacciuffare il brivido comunitario che i nostri genitori e zii ebbero la fortuna di provare nel—mettiamo—1971. Un momento: ho usato mica la prima persona plurale? Ho detto mica generazione? E ho detto per caso anche millenovecentosettantuno?

Ho compilato una lista ultratendenziosa di dischi usciti nello stesso 1991 di Nevermind, quantomeno per capire cosa ci aspettava all’alba di quei Novanta che secondo la storiografia ufficiale furono battezzati dalla alternative revolution. L’ho messa in ordine alfabetico in modo da evitare favoritismi di sorta, e proviamo a vederla assieme:

  1. 808 State – Ex:el
  2. A Tribe Called Quest – The Low End Theory
  3. Ice-T – Original Gangster
  4. LFO – Frequencies
  5. Massive Attack – Blue Lines
  6. My Bloody Valentine – Loveless
  7. Primal Scream – Screamadelica
  8. Sebadoh – Sebadoh III
  9. Slint – Spiderland
  10. Talk Talk – Laughing Stock
  11. The Jesus Lizard – Goat
  12. The Orb – Adventures Beyond the Ultraworld
  13. Underground Resistance – The Final Frontier 12″

Ok fermiamoci qui; ho omesso una valanga di roba ma non è importante: questa non è una lista dei migliori dischi del 1991 né tantomeno dei miei titoli preferiti di quell’anno (anzi: almeno metà di questi non li tollero). È più una specie di test-campione per capire che aria tirava negli stessi mesi di “Smells Like Teen Spirit”. E sarà anche una lista tendenziosa, ma ammetterete che il panorama che ne viene fuori è se non altro frastagliato, irregolare, caotico, confuso. Se parliamo di musica e basta, di mezzo c’è di tutto: roba elettronica e dream pop, post-rock e hip hop, techno e noise, trip hop e indie lo-fi. E mi sono ovviamente tenuto ai generi “principali”, senza dire delle sottotrame più o meno underground che pure mi stanno più a cuore. Quello che insomma voglio dire è che, lista tendenziosa alla mano, faticherei non poco a indicare il suono di quegli anni. Anche perché non si tratta di musiche che sono durate lo spazio di una stagione, ma letteralmente del vocabolario-base su cui si sarebbe declinato il decennio Novanta.

Ma ancora più significativo è ragionare su quali sono gli immaginari alla base dei dischi in questione, diciamo i codici identitari a cui fanno riferimento: troviamo occhialuti nerd che probabilmente uscivano due volte all’anno dalla cameretta e misteriosi personaggi senza volto piovuti da un sistema solare parallelo chiamato MDMA, introversi intimisti con pretese intellettuali e viziosi apologeti del degrado, uomini-macchina con lo sguardo fisso al futuro e nostalgici dei Sessanta sotto le mentite spoglie del muro di feedback, e poi bianchi e neri, inglesi e americani, slackers e tecnogeeks, gente che suonava con le chitarre e gente che le chitarre le abiurava, gente che faceva i tour negli stadi e gente che dal vivo manco si faceva vedere, c’è il ruock e l’anti-ruock, senza dire dei due dischi hip hop che evocano abitudini e comportamenti agli antipodi pur restando interni allo stesso genere. E siamo solo al 1991: appena tre anni dopo la faccenda si sarebbe fatta ancora più incasinata. A quale noi avrebbe dovuto fare riferimento quella generazione lì? Poteva ancora esistere, nel 1991, una cosa come il caro vecchio e sanguigno ROCK che tutti coinvolgeva e tutto trascinava, aizzando alla rivoluzione a suon di riff manco fossimo in un film di Jack Black?

Certo che esisteva: si chiamava Nirvana. Però ecco, la sensazione è che più che un assaggio di futuro, la vicenda di Cobain e soci sia stato l’ultimo sussulto di un passato i cui giorni non solo erano contati, ma erano proprio finiti da un pezzo. Un po’ è per questo che, pur non avendo sentito il mito-Nirvana, mi sembra comunque di non aver perso nulla di quel decennio: molto semplicemente, oltre e al di là ai Nirvana c’era anche tanto altro, e parlo proprio di mera varietà & quantità. Al tempo stesso, un po’ mi viene il sospetto che inconsciamente, per i miei coetanei sopra interpellati, i Nirvana questo siano stati: un assaggio fuori tempo massimo di quello che fu, l’illusione di rivivere sulla propria pelle il tanto vagheggiato brivido della Grande Mitologia Rock, uno slancio presto tradito che forse celava la nostalgia per un passato che nessuno aveva potuto sperimentare sia per ovvi motivi anagrafici, sia perché nel frattempo il quadro (sociologico, antropologico, e ovviamente anche musicale) era drasticamente mutato.

Non voglio dire che il futuro apparteneva più agli LFO che ai rocchettari che andavano in pellegrinaggio a Seattle, anche perché proprio non lo penso: credo semmai che se una cosa gli anni Novanta l’hanno veramente anticipata, è stata proprio l’emersione di macronicchie parallele ciascuna delle quali rivendicava una sua precisa attualità, senza che un singolo linguaggio riuscisse veramente a prendere il sopravvento sugli altri. Poi certo, i vecchi e quelli che hanno letto Azerrad vi diranno che sì, più che l’inizio i Nirvana furono effettivamente la chiusura di un percorso iniziato circa un decennio prima nei puzzolenti scantinati dell’underground rock a stelle e strisce, ma quella è un’epica che – come dopotutto ricordava Farabegoli – a uno nato a fine 70 proprio non poteva appartenere: per pochissimi i Nirvana furono i fratellini minori di Black Flag e Husker Du; per quasi tutti furono semmai quelli visti in TV. E insomma, la rivoluzione per via catodica—insegnano sempre gli esegeti del Grande Libro del Rock—avrà pure funzionato ai tempi di Elvis che muove il bacino e i Beatles che si esibiscono all’Ed Sullivan Show. “Noi” invece c’avremmo avuto un video girato in palestra e Corrado Guzzanti che faceva “a lazzziale!” a un incolpevole Carcobbèi. RUOCK.

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