Il nuovo album di Aphex Twin si intitola Syro, arriva tredici anni dopo il precedente Drukqs, e questo immagino lo sappiate. È un buon disco, mi pare. Cioè, non so voi, ma io l’ho ascoltato con un certo piacere distratto, battendo il piedino qui e là e dondolando la testa quando mi ricordavo che c’era musica che usciva dagli speaker. Solo che ecco, l’ho trovato un po’ deprimente. Triste, anche, di una tristezza a tratti insopportabile, antipatica. Non tanto per le tipiche melodie in minore e gli eterei, nostalgici svolazzi di synth: è proprio la sua stessa esistenza che mi immalinconisce. “È Aphex che fa Aphex”, è stato detto di Syro: il che mi sembra legittimo, anche se è facile interpretarla come “È la solita roba sua, ci siamo capiti”. O anche come: “Vi piaceva, chessò, Selected Ambient Works Vol. II? Vi piacerà anche questo, tra i due dischi sono intercorsi vent’anni ma Aphex è un classico e i classici non hanno età”. E qui uno comincia a sentire puzza di bruciato, diciamo.
Su Pitchfork, Mark Richardson la riassume così: “Syro scans as ’90s in terms of form but is quite modern in its particulars. Music sounded like this in 1996, but it didn’t sound quite this good”; in pratica: è un disco che poteva uscire nel 1996, ma nel 1996 non esisteva la tecnologia che permette a Syro di suonare… boh, di suonare tanto bene. E questa è un’argomentazione trovo capziosa, un modo un po’ goffo di aggirare quello che mi sembra il vero tema ricorrente nelle recensioni del disco (quasi tutte più che positive, tra l’altro): e cioè, Syro sarà pure targato 2014, ma, tecnologia a parte, appartiene spiritualmente a un’altra epoca. “Quite a lot has happened in dance music since Drukqs, and this album is wholly ignorant of it all”, nota Resident Advisor, e in effetti è proprio così: a voler dissotterrare etichette cadute fortunatamente in disuso, Syro è pura, vetusta ideologia IDM, la famigeratissima Intelligent Dance Music – o a seconda dei casi “techno intelligente”—che riempì in lungo e in largo i Novanta; solo che dai tempi di Drukqs, la “techno intelligente” era come silenziosamente scomparsa dai radar, sostituita dall’impetuoso crescendo dell’altra dance music: quella non intelligente. Perché diciamolo pure: se c’è una musica genericamente “dance” che per tutti i Duemila ha tenuto alta la barra della (uh) modernità, questa è stata proprio quella erede dei movimenti che nel decennio precedente si trovarono dall’altra parte della barricata rispetto alle finezze futuribili di Aphex e soci. Paradossi della storia, ma anche no.
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Va bene, mi rendo conto che stiamo camminando su un crinale scivoloso, quindi proviamo a fare un salto indietro e andiamo coi ricordi al tempo in cui la sigletta IDM atterrò nel panorama musicale anni Novanta. Mi fa strano riesumare un’epoca in cui il “pubblico elettronico” e quello “rock” erano due entità in larga misura distinte e separate, ma vi assicuro che era così, e figuriamoci se i sudatissimi fan del rude suono di un ampli surriscaldato avevano tempo da perdere appresso a una musica “fatta da macchine”, “buona solo per ballare”, e per giunta “tutta uguale”. Se comunque dovessi pensare a una data simbolo in cui la musica elettronica di fine secolo venne non solo sdoganata presso il pubblico alternativo-generalista, ma addirittura investita di una sua precisa dignità artistica, questo coinciderebbe con l’uscita di Artificial Intelligence, la raccolta Warp del 1992 che se non sbaglio si apriva tra le altre cose proprio con un brano di Aphex/Richard D. James, il che se vogliamo ha un che di simbolico.
Io ero molto piccolo quando Artificial Intelligence uscì; la recuperai un paio di anni dopo e la usavo come sottofondo per farmi le canne in camera, con mio padre che faceva finta di niente e le folate finali di “Loving You Live” che, se proprio dovessi recuperare il lessico dell’epoca, provvedevano puntualmente a “scoperchiarmi il cervello” (diosanto). Da un certo punto di vista, era praticamente musica da fricchettoni pensosi, e lo stesso Steve Beckett della Warp ebbe buon gioco nell’azzardare paragoni coi Pink Floyd, il cui Dark Side of the Moon compariva pure in copertina. Ma soprattutto, notava sempre Beckett, quella musica “non eri obbligato a ballarla!”. Ecco la vera conquista. Basta con la techno buona solo in discoteca: questa era roba che potevi gustarti comodamente seduto in poltrona, come d’altronde suggeriva la copertina del disco. Era pure musica che poteva piacere ai nostalgici del vecchio rock psichedelico (vedi il riferimento ai Pink Floyd), e soprattutto ostentava un certo gusto artistoide, da studente smanettone, che inevitabilmente finiva per appiccicargli addosso un’etichetta di… ma sì, di musica intelligente, ecco.
Quando la sigla IDM prese a diffondersi presso pubblico e critica specializzati, l’assunto implicito divenne chiaro: se questa era la “musica dance intelligente”, da qualche altra parte doveva necessariamente esserci una “musica dance stupida”. È una questione di logica, no? Per esempio, musica “stupida” era la dance commerciale, figuriamoci. O anche quella roba clandestina e reietta che in Inghilterra andava sotto il nome di hardcore [da non confondere con quella che nel resto di Europa andava sotto il nome di hardcore, ndr]. E insomma, da una parte c’era questa specie di techno astratta per intenditori, intellettualmente accettabile e analizzabile secondo i classici criteri della critica d’arte; dall’altra, una roba ottusa e martellante che tuttalpiù poteva andare bene per impasticcarsi e agitare il culo in una discoteca zeppa di coatti. Questo proprio per tagliarla con l’accetta, eh?
A scanso di equivoci: quando si trattava di parlare coi musicisti anziché coi giornalisti, la sigla IDM non piaceva a nessuno. Aphex per primo ebbe modo di rigettarla e, di nuovo a scanso di equivoci, alla stragrande maggioranza dei musicisti elettronici “intelligenti”, la techno “stupida” piaceva, e pure tanto. Dopotutto, col dum-dum-dum di quella roba “tutta uguale” ci erano cresciuti. La dicotomia IDM vs. techno-unz fu una forzatura, persino un’aberrazione, in cui tanto peso lo giocò la cattivissima critica, specie quella di derivazione rock, finalmente libera di sentirsi al passo coi tempi e contemporaneamente rispolverare le collezioni in trentatre giri di Pink Floyd e Hawkwind messi in cantina ai tempi del punk. Ma sarebbe ipocrita non ricordare che anche una fetta non trascurabile del pubblico che quei dischi alla fine li comprava, tale dicotomia l’aveva infine introiettata e in qualche caso pure rivendicata. Lo stesso atteggiamento di etichette come la Warp tradiva una certa supponenza nei confronti della roba tamarra che i sottoproletari inglesi si ostinavano a ballare il sabato sera. E poi solo un sordo non sarebbe stato in grado di percepire la differenza in primo luogo attitudinale tra, che ne so, Autechre da una parte e Nasty Habits dall’altra. Al limite quello che poteva succedere era che qualche musicista “intelligente” prendesse qualche intuizione “stupida” e la rivestisse della consueta patina artsy, magari spappolando il più classico break jungle per farlo diventare una roba contorta e rigorosamente non ballabile, un po’ così, drillando.
Detto questo, credo sia superfluo ribadire come la cosiddetta IDM ci abbia lasciato in eredità una cospicua dose di dischi bellissimi e pure qualche (diciamolo) capolavoro. Ovviamente, l’IDM ha prodotto anche tantissimi dischi ignobili e una quantità di monnezza non indifferente: lavori che di anno in anno si facevano vieppiù pretenziosi, tronfi, sterili e ottusamente contorti, artisti che scadevano direttamente nella barzelletta tipo Squarepusher che imbraccia il basso e slappa alla Jaco Pastorius, e voglio dire, era veramente diventato una specie di autunno prog coi sequencer al posto dei mellotron.
Di quella scuola però Aphex fu il fuoriclasse riconosciuto: uno che, ci crediate o meno, la stampa aveva ribattezzato “il Mozart della techno” (!). Il paradosso Aphex Twin è che, per tutti gli anni Novanta, riuscì a incarnare tanto la quintessenza “ideologica” della dance music intelligente, quanto la sua negazione: ridurre Aphex alla voce “IDM” suona riduttivo e forse pure sbagliato; eppure, se arrivasse un quattordicenne a chiedermi “qual è il musicista IDM più rappresentativo degli anni Novanta”, non avrei esitazioni a rispondere Richard D. James. Della techno autoproclamatasi intelligente, Aphex ha rappresentato uno degli esiti più creativi e anche elusivi, particolari, a volte contraddittori e volentieri sorprendenti: è per capirci uno che ha chiuso il decennio con un ufo chiamato Windowlicker e insomma, anche qui è difficile restare immuni dalla tentazione del “disco simbolico”. Però proprio quel brano conserva in filigrana tutti gli ingredienti che alla fine del giro trasformarono IDM e derivati in una grottesca presuntuosa parodia: la tendenza ridondante alla complessità, il virtuosismo esibito nell’utilizzo delle tecnologie a disposizione, il breakbeat martoriato che frustra qualsivoglia appiglio corporeo, la patina traslucida dei timbri che fa tanto interior design… Considero “Windowlicker” un capolavoro e uno dei brani che veramente hanno segnato un’era, però a riascoltarlo adesso vengo preso come da un senso di asfissia, di soffocamento. Non avrei mai pensato di arrivare a un paragone del genere, ma mi fa venire in mente gli assoli di Steve Howe in Tales from Topographic Oceans degli Yes: tanta, troppa roba, che arriva da tutte le parti, con tutte le virgole e i punti messi nei posti dove meno te li aspetti e che stanno lì a dirti “ehi, senti che tipo sveglio che sono. Non sei stupito? Ci ho lavorato un mese su questo passaggio”.
Mi viene da pensare che nel suo classico Energy Flash Simon Reynolds dichiara apertamente un certo sospetto nei confronti della cerebrale autoreferenzialità IDM, e in più di un’occasione azzarda paragoni proprio col vecchio progressive rock; magari non sarà d’accordo sul mio parallelo tra Aphex e Yes, che mi rendo conto suonerà blasfemo a praticamente il novantanove percento di chi sta leggendo queste righe (il restante uno percento lo riservo a chi non sa chi è Aphex, o non sa chi sono gli Yes, o entrambi); però ecco, più o meno siamo lì. Al contrario, sempre Reynolds si premura di dipingere l’hardcore come la vera esperienza di rottura dei Novanta inglesi: di quella musica “stupida” e proletaria, il critico inglese mapperà le evoluzioni secondo la fortunata formula dell’hardcore continuum, nelle sue parole “a musical tradition/subcultural tribe that’s managed to hold it together for nearly 20 years now, negotiating drastic stylistic shifts and significant changes in technology, drugs, and the social/racial composition of its own population.” Dell’hardcore continuum, negli ultimi quindici anni si è parlato a scadenza praticamente settimanale. Già a inizi Duemila, mentre la techno intelligente rimaneva impantanata nel cliché della ritmica plurispezzata e dell’arpeggio bleep-blap, il sottobosco hardcore scatenò una serie di agenti mutageni che in ultima analisi avrebbero partorito le più radicali musiche elettroniche del nuovo millennio, grime e dubstep su tutte. Mi rendo conto che i confini sono sfumati e che stabilire confini in maniera tanto netta più che arbitrario sia proprio stupido, ma da tanti punti di vista gli anni Duemila sono veramente stati la rivincita degli “stupidi” contro gli “intelligenti”. Ed è stato, almeno per qualche tempo, sinceramente liberatorio.
E adesso, nel settembre 2014, arriva Syro. Che riporta le lancette indietro a quando la techno intelligente aspirava a catturare lo zeitgeist dell’evo digitale, e contemporaneamente afferma “è un suono ormai classico; è Aphex che fa Aphex”. Mentre cercavo di capire cosa non mi convincesse in questa narrazione, mi è venuto spontaneo mettere a confronto il nuovo Richard D. James col ritorno datato 2013 di altri vecchi campioni della golden age IDM, i Boards of Canada: anche il loro Tomorrow’s Harvest suona come “i Boards of Canada che fanno i Boards of Canada”, e però riesce nell’impresa di comunicare un senso di immanenza, di dolorosa testimonianza del tempo che tutto corrode, che riporta direttamente al qui e ora. Se non è il loro disco più bello (e per me lo è), Tomorrow’s Harvest è probabilmente il loro disco più emotivamente intenso. Syro invece è… soltanto musica, il compitino fatto benissimo del primo della classe che copia gli appunti di vent’anni prima. “Quite a lot has happened in dance music since Drukqs, and this album is wholly ignorant of it all”, si diceva su Resident Advisor: vuole essere un complimento, invece a me sembra la certificazione di un fallimento. Storico, musicale, e perché no anche politico: perché sì, i virtuosismi digitali di Syro a questo punto mi sanno di reazione, e pazienza se “fanno tanto Aphex”.
Il fatto è questo: sappiamo tutti quanto conti un disco di Aphex Twin per la comunità di appassionati e musicisti sparsi ai quattro angoli del globo, e quanto ogni sua nota venga mandata a memoria, interpretata come termine di paragone e modello su cui costruire ipotetici percorsi in divenire. Ecco, pensare che in futuro ci sarà gente che ispira a Syro: è questo che mi ha messo tristezza. È, per dirla con toni un pizzico militanti, come se quindici anni di conquiste andassero in fumo. È tornare a studiare da “intelligenti” quando avevamo capito che era più bello, sano e divertente ruzzolare nella sporcizia con gli stupidi. È ritrovarsi di nuovo dalla parte dei primi della classe facendo finta di non sapere che alla lunga i primi della classe sono quasi sempre noiosi: se non altro perché ci tengono a farti notare che sono bravi. Possono pure metterci tredici anni ma alla fine eccoli lì, al primo banco, la manina alzata, e quel dirigibile verde che tanto ricorda il maiale rosa che i Pink Floyd facevano svolazzare sui cieli di Londra ai tempi di Animals. Tutto torna.
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