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La canzone di Sufjan Stevens su Tonya Harding è bella come il film

Gli statunitensi adorano adorare chi è passato dalle stalle alle stelle. In fondo si sono costruiti un’identità nazionale convincendosi di stare vivendo un sogno di infinite possibilità, come se approdare nella baia di Hudson implicasse automaticamente un nuovo inizio, chiunque tu fossi. Fu lo scrittore James Truslow Adams a definirlo nel 1930, sostenendo che una sua parte fondamentale fosse “la possibilità di avere un’opportunità per chiunque, in base alle sue abilità o ai suoi risultati”. Specificò, inoltre, che non si trattava di un sogno materialista, basato su “automobili e alti stipendi”, ma della possibilità che il proprio talento innato venisse riconosciuto dai propri pari.

Secondo questa retorica, la pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding—di cui si è parlato molto recentemente per il film biografico che la vede protagonista, I, Tonya, nei cinema italiani dal 29 marzo—incarna alla perfezione il sogno americano. Nacque a Portland, in Oregon, una città ai tempi ancora lontana dall’essere il sogno bagnato hip super figo che Carrie Brownstein e Fred Armisen hanno raccontato nella loro serie TV Portlandia. Veniva da una famiglia operaia, viveva in un quartiere impoverito, sua madre la picchiava e insultava costantemente. Il pattinaggio artistico su ghiaccio fu “un modo per andarsene dalla fogna”, come disse il suo allenatore, intervistato dal network televisivo ESPN per il documentario The Price of Gold.

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Era una redneck, la Harding, e lo esplicitava nella sua persona. Abbassava la testa quando veniva insultata, ma continuava a tenere duro. Sulla pista si presentava trasandata, indossando abiti cuciti da sua madre. Le sue compagne, agghindate seguendo le regole non scritte di uno sport avvolto da un’aura di nobiltà, la odiavano per questo. Ma lei, da brava americana, teneva i denti stretti. E li digrignò così tanto che nel 1991 diventò la prima statunitense della storia a eseguire un triplo axel, cioè probabilmente il gesto più difficile della storia del pattinaggio di figura (qua raccontato dall’Ultimo Uomo). Era diventata un’eroina.

Una foto d’epoca di Tonya Harding.

Poi, nel 1994, lo scandalo. Harding assoldò delle persone per aggredire con un martello Nancy Kerrigan, sua rivale alle Olimpiadi. La sua vicenda affascinò l’intera nazione: era diventata un’eroina caduta, una bella maledetta. Solo il processo a O.J. Simpson distolse l’attenzione dei media dalla sua vita, che però continuò a essere piuttosto interessante: girò un sex tape con suo marito e lo vendette a Penthouse per 200.000 dollari, si diede alla boxe, partecipò a gare automobilistiche e suonò anche in uno sfortunato gruppo che venne fischiato alla sua unica esibizione, i Golden Blades. E qua andrei a citare delle parole scritte da Sufjan Stevens nel testo di accompagnamento alla sua canzone “Tonya Harding”, pubblicata qualche mese fa:

“Tonya risplende nel pantheon della storia americana perché non ha mai smesso di mettere tutta se stessa in ciò che faceva. Ha combattuto il classismo, il sessismo, gli abusi fisici e i rimproveri pubblici per diventare un’incomparabile leggenda americana.”

Sufjan adora la storia della sua nazione. Lo ha dimostrato scrivendo del Michigan e dell’Illinois, sviluppando un’idea cantautoriale in cui tradizione e religione convivono tranquillamente con sperimentalismi e progressismo. Ha raccontato le storie di eroi e anti-eroi: per lui parlare di un serial killer come John Wayne Gacy Jr. o di uno sfortunato ma fiero uomo politico come Adlai Stevenson è la stessa cosa. L’importante è raccontare la loro umanità, uscire dalla retorica dominante che li circonda e svelarceli al crocicchio che collega le loro insicurezze e la loro forza di spirito. Gacy è raccontato come un bambino dai genitori violenti, colpito alla testa da un’altalena, e i suoi omicidi sono solo suggeriti nei corpi nascosti, come tesori, sotto il pavimento della sua casa. “Nel 1952 il cuore non è stato tuo padrone”, dice Sufjan di Stevenson, raccontando la sua fallita corsa alla presidenza; e poi ricorda la sua fierezza nella gestione della crisi dei missili cubani del 1962, anche qua lasciandocela leggere tra le righe: “Prove, prove / Ne ho sentito parlare / E qual è la risposta?”

“Tonya Harding”, pubblicata in due versioni, è un documento preziosissimo. Distilla in cinque minuti l’assurdità della sua vita creando un’immaginaria, nitidissima fotografia della sua esperienza. “Tonya Harding, mia stella / Questo mondo è freddo / Ma tra simili ci si intende / E solo Dio sa che cosa rappresenti”, comincia. “Eri solo spazzatura bianca da Portland / Hai affrontato il tuo dolore / Come se non ci fosse stato un domani / Mentre il resto del mondo rideva, e basta”.

La canzone di Sufjan prova a evocare, attraverso una serie di domande, ciò che è passato dentro alla Harding lungo il corso della sua vita. “Hai le scarpe slacciate? Perché tieni il broncio?”, le chiede, con una tenerezza disarmante; “A che cosa ti servono, ora, i pattini? Dimmi, qual è la tua bontà?” Lavora a posteriori, Sufjan, rappresentandola al centro della pista che le ha dato fortuna e non di quella del circo mediatico che le è stato costruito attorno: “Il mondo si è divertito? / Tireranno su un casino / Ti costruiranno un castello / E lo distruggeranno quando avranno finito”.

È un brano essenziale, “Tonya Harding”, fatto di percussioni elettroniche minimali, pochi accordi di pianoforte e qualche intervento di sintetizzatore che scende a cascata sul quieto rivolo musicale che ne rappresenta la spina dorsale. Rappresenta la Harding nella sua forza (“Sei sopravvissuta a tutti gli schianti / E hai lavato via il sangue dalle tue cosce bianche”) ma la ritiene responsabile delle sue fragilità (“Anche tu imbrogli / Come puoi biasimarla per avere pianto?”). Il linguaggio di Sufjan ha storicamente prediletto la punta di fioretto rispetto alle bombe a mano, ma è ben felice di adattarsi alla schiettezza genuina che caratterizza la sua musa ispiratrice:

“Tonya Harding, amica mia / Questo mondo è una puttana / Non finire in un fosso / Ti starò vicino fino alla fine”.

E ancora, per concludere: “Continua a combattere come stai facendo / Mia principessa americana / Che Dio ti benedica d’incenso / Sei la mia splendente stella americana”. Misericordioso ma non impietosito, affascinato ma non accecato, Sufjan Stevens ha saputo cogliere la figura della Harding in tutta la sua ambivalenza. Potete non avere un’ora e passa da dedicare al film di Craig Gillespie, ci può stare. Ma cinque minuti per ascoltare “Tonya Harding”, e commuovervi allo stesso modo, li potete sicuramente trovare.

Elia è su Instagram: @lvslei

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