Ho superato i 30 anni, e attorno a me sono circondato da persone di tutte le età, ma soprattutto da 30enni che dicono “eh ormai sono vecchio per fare questo o quest’altro” e che mi mettono un’angoscia dentro indicibile. Ma “vecchio” in relazione a cosa?
Mio cugino di anni ne ha 18, e mi vede tipo come una divinità di coolness e autonomia, insieme parliamo di Twitch e ci lamentiamo o meravigliamo dei nuovi Pokémon che sembrano motociclette. A lui non piace tanto andare a ballare, io vorrei fare sempre l’alba. Questo vorrebbe dire che lui è “più vecchio di me”? O il fatto che TikTok non sia proprio il suo lo rende “più vecchio” dei Tiktoker anziani con mega seguito?
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Intanto, sui social, ogni giorno qualche millennial se la prende con i “vecchi di mer*da” in tv, nella politica, alle fermate dei bus o a intasare le code in posta negli orari di punta; e su qualche altro social la gen z accusa me e i miei coetanei, i “vecchi”, di tenere più alle nostre piante che al futuro del pianeta o attendere troppo prima di parlare in un video.
In pratica, “i vecchi” sono ovunque (e mai in un’accezione positiva). Ma da dove nasce questo scontro?
Cos’è l’ageismo e perché può riguardare tutti
Ageismo è una parola coniata nel 1969 dal gerontologo e psichiatra statunitense Robert Neil Butler per indicare la discriminazione verso le persone più anziane. L’ageismo è molto sottile: non riguarda solo questa alquanto propinata lotta generazionale, ma più in generale “quell’insieme di pregiudizi e stereotipi che una persona attribuisce a una persona più adulta o un’intera fascia d’età o gruppo più adulto,” mi conferma Gianluca Franciosi, psicologo e psicoterapeuta, specializzato in relazioni tra persone. “Questo può avvenire quindi con il giudizio di un ventenne sui trentenni, con un trentenne sui quarantenni e così via…”
Come scrive Nicola Palmarini in Immortali: Economia per nuovi highlander, “Include tutti gli esseri umani, di qualsiasi razza, sesso, religione, orientamento sessuale, magri o grassi, alti o bassi, di qualsiasi nazionalità o lingua. […] Al tempo stesso l’ageismo è anche l’unica discriminazione che colpisce una specie mai interessata da questi fenomeni nella storia dell’umanità: l’uomo bianco, medio, occidentale,” anche se non vuol dire che intacchi tutti allo stesso modo e con la stessa intensità. Colpisce per esempio molto di più le donne, il cui invecchiamento è più stigmatizzato.
In ogni caso l’ageismo, come tutti gli -ismi, cerca di creare distanza e differenze, ma trattiene intrinsecamente più degli altri un paradosso: non esclude in realtà nemmeno chi lo perpetua. D’altronde, saremo, prima o poi, il/la “vecchio di merd*” di qualcun altro.
Ma perché allora ci si casca dentro? È come se fossimo sotto il maleficio di una sorta di bias della distanza d’età? Secondo Franciosi, è innanzitutto per paura: “È una sorta di desiderio di allontanare da me la vecchiaia, gli acciacchi che arriveranno, e di conseguenza la mortalità.” Che da un punto di vista biologico parte da fenomeni fattuali indubbi, e riguarderà—dato che le aspettative di vita continuano ad aumentare—sempre più individui. Secondo il Report IPSOS Mori Perennials del 2019, la popolazione over 60 dal 2017 al 2050 passerà in Italia dal 30 al 40 percento, in Germania dal 28 al 38, in Spagna dal 25 al 42, in Inghilterra dal 24 al 32, in India dal 9 al 19 e in generale nel mondo dal 13 al 21.
Oltre alla paura però ci sono altre motivazioni, per esempio come vengono descritte persone di età diverse nella società, con indubbie conseguenze psicologiche e sociali. Ci arriviamo tra poco.
Un boomer può dire “ok boomer”?
Per dire: avete presente l’espressione “Ok boomer”? Quella inizialmente usata per criticare uscite e atteggiamenti paternalistici o anacronistici dei baby boomer (i nati tra il 1946 e 1964)? Adesso “Ok boomer” lo dicono un po’ tutti: un millennial a un coetaneo che dice “ma questi nuovi giovani come si conciano,” e persino mia madre, classe 1956, che per criticare le sue amiche l’altro giorno mi fa “quelle ormai sono delle boomer.”
Ora, le lotte generazionali possono essere utili e costruttive, soprattutto in periodi in cui i giovani non hanno le stesse possibilità di chi sta in certi scranni a dargli degli scansafatiche. La questione qui piuttosto è: può essere che, daje e ridaje, la semplificazione di certi concetti abbia acuito la stereotipizzazione nei confronti delle persone appartenenti alle “generazioni”? C’è davvero gente che crede che i boomer ora siano tutti dei buongiornisti cringe e che i gen z siano usciti da Euphoria? Che i Gen Z siano tutti progressisti nel voto e che i boomer siano stati tutti investiti dalla fortuna del boom economico? È più complesso di così.
Sul New Yorker, il critico e il vincitore del premio Pulitzer nel 2002 per il miglior libro di storia Louis Menand spiega che nel secondo dopoguerra si è rubato alla biologia il concetto di generazione “che permette di ridefinire ciclicamente la ‘cultura giovanile,’” nata quando nella metà del secolo scorso la percentuale di ragazzi che si iscriveva alle superiori—in Italia anche grazie all’introduzione della scuola dell’obbligo—è aumentata esponenzialmente e il mercato delle consulenze e delle pubblicità ci ha visto del potenziale per raccontare qualcosa di inedito ai clienti.
In biologia una “nuova/vecchia generazione” sta a indicare genitori, nonni, figli etc, mentre nel mondo del marketing e della comunicazione indica persone nate in un periodo circoscritto di circa quindici anni. È una generalizzazione: del resto, un millennial del ‘96 sarebbe così diverso da un gen Z del ‘97?
Le generalizzazioni, però, si basano su delle fondamenta e su larga scala possono tornare utili. Lorenzo Ferrari, CEO & Founder di smarTalks, azienda che si occupa di consulenza digital marketing, mi spiega al telefono che quella delle generazioni nella comunicazione è “una classificazione che è utile a spiegare diverse fasce d’età che sono suddivise in base a diversi fattori.”
Per lui questi fattori sono comportamento, forma mentis e soprattutto, di fondamentale importanza, il linguaggio parlato. “Per una buona campagna, si dovrebbe iniziare dal linguaggio che parla il pubblico a cui ti riferisci, mettendo in conto che le nuove generazioni sono quelle più attente alle parole.”
A tal proposito sempre Menand cita il saggio The Generation Myth, in cui il sociologo inglese Bobby Duffy, direttore del Policy Institute presso il King’s College, sostiene che chi siamo e come ci comportiamo nel presente dipenda da tre fattori. Non solo dalla generazione di appartenenza, ma anche dagli eventi storici che viviamo (pensate al cambiamento climatico e alle statistiche che smentiscono che sia un problema sentito solo dai più giovani) e dagli accadimenti nella nostra vita personale.
Ma come si cambia, in un mondo in cui la vecchiaia è ancora rappresentata in un certo modo?
Eteroageismo e autoageismo
“È la pressione sociale che a un certo punto, anche se non specifica bene quale, ci vuole adulti in un certo modo, anziani in un certo modo, ci dice ‘ah non puoi più andare a fare questa cosa o quest’altra’,” afferma Franciosi, “e che in un certo senso stabilisce quali abitudini e attività siano più consone a un’età rispetto che a un’altra, come nel caso dell’abbigliamento o dei tatuaggi.”
“Ma questo a 50 anni che segue il corso del primo anno che ci sta a fare qui in mezzo a noi?,” “Ma guarda quella, c’avrà settanta anni ed è piena di tatuaggi!,” “Mio Dio, si è messo con lui e potrebbe essere letteralmente suo padre.” Se avete sentito frasi del genere: sono forme espresse di ageismo (o ancora meglio eteroageismo), secondo cui a ogni età dovrebbero corrispondere certi comportamenti, attività e dress code, quando quest’ultimi dovrebbero basarsi molto più sui contesti, il proprio stato di salute, indole e predisposizioni di ognuno.
“Fino a quando una persona riesce a svolgere delle attività e quindi non ha delle implicazioni per la sua salute fisica o mentale non ci sono controindicazioni. Il mettersi da soli in una posizione di vulnerabilità, in cui si dice a priori ‘Eh ma io ormai a questa età non posso più farlo’, è una forma di autoageismo,” continua Franciosi.
C’è da aggiungere anche che col tempo si cambia. Cambiano gli interessi, le priorità, gli impegni. Ma la questione qui è: “Non ho più voglia di fare qualcosa, non ho più tempo, mi sentirei inadeguato oppure realmente mi sento affaticato e per me diventa difficile?” chiede. “Le cose si possono fare con meno intensità e meno frequenza, se ci piacciono e ci va di farle ancora. Il problema è decidere di precludersele solo per l’età che si ha—può influire in negativo sull’umore.”
In ogni caso, a prescindere dall’età, ho conosciuto gente di tutti i tipi. Ma non parlerei in certi casi di “giovani vecchi” o “vecchi giovani”, come si suole dire, perché semplicemente: “così si rafforza l’idea che esistano in maniera netta e definita ‘cose da vecchi’ o ‘cose da giovani’,” afferma Franciosi. “Esiste una individualità.”
Cos’è il Reverse Ageism
Ovviamente esiste anche il fenomeno opposto, fatto di pregiudizi su persone ritenute non abbastanza capaci perché giovani: si chiama Reverse ageism. Quando chiedo a Ferrari, che di anni ne ha 23, se qualcuno ha mai messo in dubbio le sue capacità e competenze sulla base dell’età, mi risponde in modo affermativo. “Non mi è mai capitato che mi dicessero di no, però è capitato che mi guardassero [a primo impatto] dall’alto in basso.”
“A mio avviso, la chiave di volta e di svolta è sempre trovare un connubio: le generazioni dovrebbero collaborare per arricchirsi l’un l’altra,” aggiunge, soprattutto per quanto riguarda la costruzione di campagne di comunicazione corrette, come quelle beauty che si sono allontanate da formule come “ringiovanente” o “anti-invecchiamento,” anche su richiesta di istituzioni o movimenti pro-age.
Come uscirne?
“La giovinezza è da sempre considerata un valore, ma anche ciò che si impara con l’età, l’esperienza,” conferma Franciosi. “Del resto a qualsiasi età possiamo commettere errori di valutazione—vuoi perché ci stiamo formando, vuoi perché pensiamo di essere già arrivati—ed è opportuno chiedere consiglio sempre.”
In ogni caso, a me sinceramente la questione delle “generazioni” sta un po’ stretta. Voglio dire: perché un sessantenne che legge un manga dovrebbe essere diverso da un ventenne che fa lo stesso?
A tal proposito, recentemente è spuntata una nuova categoria generazionale, coniata dall’imprenditrice Gina Pell: i Perennials. Sarebbero “persone curiose e sempre in fiore, di tutte le età, e che sono consapevoli di cosa sta accadendo nel mondo. Sono al passo con la tecnologia e hanno amici di ogni età.”
È una definizione molto meglio di altre, ma non mi ci ritrovo totalmente: non voglio essere sempre sul pezzo, voglio esserlo piuttosto sulle cose che mi interessano.
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