Tutte le foto sono di Camille Blake, per gentile concessione di Berlin Atonal.
Atonal 2015 è iniziato mercoledì 19 agosto e finito domenica 23, e questo report appare sulle pagine di Noisey con un ritardo di… uhmmm… quasi una settimana, direi. Ho la giustificazione. Non che ne serva una, perché dal canto mio non mi accontenterei di roba scritta a freddo stile compitino delle elementari, ma la verità è che me ne sono andato in ferie, dopo tre anni in cui mi sono preso una settimana in meno dei miei colleghi a causa della mia mera incompetenza a vivere. Non che me ne freghi qualcosa, ma quest’anno ne avevo bisogno. Importanasega, vero? Immagino. Taglierei quindi coi cazzi miei e passerei direttamente al report.
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Era, strano ma vero, il mio primo Atonal, ragione per cui ho dovuto nascondere la mia provinciale meraviglia nel vedere per la prima volta l’enorme ex-centrale elettrica che occupa i locali sovrastanti il Tresor/Globus/OHM, o meglio la porzione che è stata rivelata per il festival e rinomata Kraftwerk. Spacca, è un casermone INDUSTRIAL (pronunciato come si scrive) che più INDUSTRIAL non si può, lo scenario perfetto per la musica che ascolteremo durante il festival, animato da un set di luci che muterà varie volte a seconda dei set, e per come è fatto lo spazio, il telo su cui vengono proiettati i visual che accompagnano i vari live è da sempre in una bizzarra risoluzione verticale che a occhio direi 3/4, o qualcosa del genere. L’unica roba veramente scoglionante è che la platea in prossimità del palco si restringe a mo’ di imbuto, causa due enormi fessure nel pavimento. Questo rende un po’ scomodo arrivare avanti e crea situazioni di pressa una volta che ci sei arrrivato, ma tutto entro il tollerabilissimo.
Da quest’anno, comunque, c’è anche un palco al piano terra, battezzato NULL, leggermente meno figo e leggermente meno INDUSTRIAL, che fa da passaggio intermedio tra i piatti forte del piano di sopra e gli aftershow party che si tengono dalle 00:00 a (per lo più) tarda mattina tra Tresor, Globus e OHM. Le serate cominciano quindi tutte nel main stage per poi proseguire nel Null e, mentre questo è ancora attivo, si iniziano a scaldare le piste dei club. Teoricamente, in questo modo, le sovrapposizioni rilevanti non sono troppe. Teoricamente, dico, perché ritardi vari ne hanno invece causate alcune che hanno sprigionato oceani di bestemmie, ma è roba che a un festival va infine accettata stoicamente. Ho anche fatto pace da un sacco di tempo con l’altra banalissima ma incrollabile verità da festival: l’idea che per quanta roba figa si possa vedere a un festival, altrettanta se ne perde, spesso per motivi abbastanza mondani e stupidi. Fa niente, non ho più l’età per il completismo totale.
Io sono un catorcio e in più mi drogo, ragion per cui sono arrivato il primo giorno come se fossi già sbriciolato da cinque giorni di festival, e non ha contribuito al godimento il fatto che la line-up del primo giorno sia stata particolarmente monolitica e fatta al novantanove percento di set drone-ambient—devo dire—nessuno dei quali particolarmente ispirato. Vabé, il primo giorno si usa per salutare la gente, per beccare di persona chi hai frequentato solo sull’internet, per . Il clima è familiare e rimarrà abbastanza disteso per tutto il festival nonostante, col passare delle ore e dei giorni, la gente (me compreso, ovviamente) inizierà a spaccarsi ammerda nella miglior tradizione berlinese con la variabile della presenza massiccia di italiani.
Insomma, i set del Mother Mallard Ensemble, di Max Loderbauer con Jacek Sienkewitz e di Alessandro Cortini accompagnato da Lawrence English me la fanno scendere un po’. In particolare il terzo: English non mi ha mai detto un cazzo, mentre Cortini farà altri due set durante il festival, quindi questo se lo poteva pure risparmiare. In nessuno dei tre casi si tratta di brutti set, solo di idee un po’ trite eseguite in maniera buona ma standard. Di sotto si tiene invece uno showcase di Subtext, la label di James Ginzburg degli Emptyset, Roly Porter e Paul Jebanesam. Mi piaciucchia Ellen Arkbro mentre Yair Elazar Glotman in versione contrabbassista mi pialla completamente i coglioni: un’ora di ZWAAMM ZWAMM elettronificato e trasformato in droni bruttini. Probabilmente avrebbe reso meglio in un contesto più intimo, ma non saprei… Di certo lo preferisco di gran lunga quando si fa chiamare Ketev.
Poi c’è John Bence, che sinceramente fino a quel punto non avevo granché ascoltato e che, per quanto non si allontani troppo dalle coordinate seguite da tutti gli altri set, suona però più rumoroso e abrasivo che su disco, e risulta un po’ meno interessante. Mi sono andato a recuperare l’album e devo dire di preferirlo quando ricama voci e droni neoclassici che quando fa caciara. Verso le due è l’ora di Roly Porter, che in questo contesto rappresenta uno scossone della madonna. Per poco: come sempre, infatti, ne apprezzo tante parti ma nel complesso la sua musica mi annoia: la sua tendenza alla cinematica estrema finisce troppo spesso per costruire una narrativa ovvia, degli sballottamenti di senso e sensazione davvero troppo leggibili, che alla fine sanno di imbeccata e di interpretazione univoca. Insomma: troppa azione, troppa poca contemplazione, all’opposto di tutti quelli che hanno suonato prima di lui, il cui difetto è stato però di dipingere paesaggi un po’ banali.
Sono stanco e non ho voglia di ballare la techno. In generale ne avrò poca voglia per quasi tutto il festival, sempre più convinto che la cassa dritta stia per rientrare in una fase di stagnazione e un tantino deluso della quasi totale assenza di set breakeggianti nelle ore da ballare. È comunque ancora mercoledì. Possiamo evitare di fare le sei. Getto giusto un orecchio ad Antonio Marini AKA Healing Force Project, che si riconferma un DJ dotato di gran classe e di un eclettismo nelle scelte che si rivela funzionale a un percorso artistico in realtà perfettamente coerente. Jazzy, cosmico e tribale. Rispetto.
Fis
Il secondo giorno arrivo molto più ghiotto e stimolato, ma rosicando perché, ritardando da coglione, mi sono perso Chra, che ha fatto un disco su Editions Mego che spacca e mi sarebbe piaciuto vedere. Meno male che subito dopo c’era Fis: ho già avuto modo di ascoltare il suo live, ma senza parte visuale. A dire il vero, per i primi dieci minuti, anche in questo caso non c’erano video. Non si sa bene che disguido tecnico li ha fatti partire in ritardo. Il buon Oliver Peryman si riconferma uno dei miei artisti preferiti del momento, il suo live riporta perfettamente lo sbigottimento spirituale gettandolo tutto fuori, oltre la distinzione delle forme. Peccato che l’orto di cui andava tanto fiero e che ha curato con la stessa fotta che ha messo nel live sia stato chiuso al pubblico. La motivazione è che i capoccia del Tresor non volevano qualcuno ci sboccasse o pisciasse sopra. Ci sta, ma è un po’ una delusione.
Ivory Towers
Per il resto il main stage viene graziato da un altro live della madonna: Ivory Towers, progetto messo su dallo svedese Johnas Rönnberg (Varg, D.Å.R.F.D.H.S., Född Dodd) insieme a gran parte della cricca Posh Isolation (tra cui Loke Rahbek di Damien Dubrovnik/Vår/Croatian Amor e la grandissima Federikke “Puce Mary” Hoffmeier, entrambi a voce e rumori). Sembrano una band e lo sono: tra synth e laptop spuntano anche chitarre e microfoni, con i due cantanti impegnati in uno scambio brutalmente intimo, che culmina nell’atto di ficcarsi a vicenda un microfono a contatto giù per la gola, stimolandosi reciprocamente il riflesso del vomito (amplificato a dovere). Il set incrocia techno al rallentatore e un’anima power electronics che spesso genera escrescenze noise violentissime, ma su tutto domina la stessa malinconia darkwave un po’ iniettata di black metal che ammanta quasi tutto il catalogo PI e i mille progetti di Rönnberg. A farla reggere in piedi è soprattutto l’attitudine sobria e realista con cui viene presentata l’atrocità emotiva che questa musica può esprimere. Niente scivoloni nella dannazione da cartone animato, niente pomposità e, soprattutto, zero ironia. Crudeltà libertina e lucida, libera da sborrate (auto)indulgenti. Sono davvero impressionato. Uno dei migliori set del festival.
Ivory Towers
Mi fanno invece abbastanza pena Kangding Ray e il tizio dei Mogwai, ma non sono sorpreso, dato che non ho mai tollerato né l’una né l’altra parte. Ma è ora di scendere di sotto: stasera c’è lo showcase di Diagonal “& friends”, chiuso da un DJ set del capo Oscar Powell e aperto da Blood Music, che ha fatto due EP per la label inglese, completamente diversi l’uno dall’altro. Il suo set somiglia molto al più recente, e sa di post punk e noise americano: veloce e rumoroso, con lui a percuotere due tamburoni su basi spastiche. Una gran botta naif e rozza, ed è ovviamente quello il bello. La gente apprezza, sarebbe bello pogare ma siamo in Germania, quindi figuriamoci… Subito dopo ci sono An-I & Alessandro Adriani, la nuova identità techno-violenta di Lee Douglas e il boss di Mannequin Records: pure loro fanno casino e percuotono abbestia, ma pad, con cui controllano campioni di smetallamenti alla Test Dept. Douglas è scatenato: urla nel microfono, si contorce, salta e piglia a calci la gente. Molti gli danno corda, a una certa qualcuno si appende ad Adriani e inizia a parlargli, lui lo guarda in cagnesco brandendo la bacchetta e per qualche secondo sono certo che stia per spaccargliela in faccia. Non lo fa. Peccato. Ad ogni modo: seconda bella manata in faccia che mi godo appieno, considerato anche che sono, ovviamente, fatto durissimo.
Powell
D’altro canto sta per montare sul palco il mio eroe: Russell Haswell. Ho rinunciato da molto a cercare le parole per descriverlo, e il semplice epigramma “non gliene frega un cazzo di niente”, per quanto suggestivo, non è comunque la verità, perché presupporrebbe che tutto il suo lavoro si basi esclusivamente su un carattere troll-provocatorio che invece ne è solo una (minima) faccia. Molto più semplicemente: si esprime in una maniera completamente sua, che mina svariate convenzioni e a quasi tutti sembra una chimera indigeribile. A me no. Ha portato all’Atonal il suo “Hard DJ Set”, che nessuno ha ancora ben capito cosa cazzo voglia dire. Si sa che usa un DJ software sviluppato da lui e Sean Booth degli Autechre che in qualche modo violenta apertamente le tracce, e lo sfrutta per mixare i generi più disparati, rivoltando i brani e miscelandoli in maniera completamente sgraziata e antilinguistica. Forse non il miglior set che gli ho sentito fare, ma resta il mio eroe. Lo segue, come detto, Powell, che fa un DJ set nel suo stile più tipico: techno, UK hardcore, new beat, caciara e svisate punk (nel senso che a una certa ha proprio messo i GBH), una gran figata. In mezzo c’è stato anche Alessio Natalizia, Not Waving, che non mi è dispiaciuto, ma probabilmente non era quello che volevo ascoltare in quel momento: il suo nuovo live suona simile a Powell ma decisamente meno aggressivo, con un piglio melò molto “italiano”, fissato con gli arpeggi. Non è un difetto, assolutamente.
Stasera di aperto in orario tardo c’è solo l’OHM, e pressati lì’ dentro a sentire i set di Sleeparchive e DJ Pete si fa davvero una fatica boia. Oltretutto i due alfieri della techno berlinese (sì lo so che Semsroth è americano, ma il risultato non cambia) stanno suonando… techno berlinese. Quadratissima e un po’ prevedibile, ma sono le 6, le sostanze pompano ed è il contesto adatto per ballare o almeno per provarci, vista la calca. Stima totale per entrambi, eh, solo che vista la quantità di roba buona che ho avuto modo di ascoltare, mi è un po’ difficile esaltarmi per la cassa.
Comunque si fa chiusura, ci si distrugge e si arriva al giorno dopo senza avere chiuso occhio. E vabbé. Comunque arrivo di corsa perché non voglio perdermi Ena e invece me lo perdo. Subito dopo c’è Peder Mannerfelt, che ho sempre adorato su disco e non mi ha assolutamente deluso live: densissimo e capace di mescolare una austerità agghiacciante a toni piuttosto weird e vagamente disturbanti. Lento, minaccioso, suona con la solita parrucca biondo-oro a coprirgli la faccia e si diverte a sovrapporre strati di rumori molesti, che evitano di risolversi in qualcosa e girano ossessivi intorno agli stessi spazi sonori. C’è spazio pure per un finale dalle ritmiche grime arroventate, mentre i visual insistono sulla stessa freak-osità disturbante, usando trick da psichedelia scrausa che man mano diventano visioni frattali oscene. A lui senza dubbio la palma di miglior set tra quelli che ho avuto l’onore di vedere finora. Dopo di lui sale Mike Parker. Bei suoni, ma set techno prevedibilissimo. Di nuovo: roba che avrei apprezzato in un altro contesto ma si disperde tra i riverberi del Kraftwerk.
Di nuovo Powell: stavolta sul main stage e in versione live: non lo avessi già sentito diverse altre volte sarebbe stata una delle mie performance preferite. Io so che aspettarmi ma lui comunque spacca tutto! Cambi secchi di velocità, campioni vocali incazzati e mitragliate post-hc (l’ultima parte del live è un furioso cut&paste di pezzi dei Big Black e beat fratturati)… Non ci sono cazzi: per quante volte lo possa vedere, lo trovo comunque una delle voci più fresche in circolazione, la sua musica è un assemblaggio imprevedibile e assolutamente non forzato di influenze accomunate dalla tendenza a spararti il groove in faccia. La sua natura estremamente fisica gli fa mantenere quel carattere eccitante e aggressivo che dovrebbe essere sempre presente sul dancefloor, e che invece le istituzioni della techno si fanno mancare troppo spesso.
Ugandan Methods
Ed eccoci di nuovo a uno dei live più attesi dalla maggior parte del pubblico: Ugandan Methods AKA Karl O’Connor (Regis) e Michael Wollenhaupt (Ancient Methods), un’asse di marmo testata sotto il peso di infinite martellate industriali. Personalmente trovo che la quantità incredibile di roba techno-industrial uscita negli ultimi tre anni abbia esaurito il genere, e parte del mio interesse in questo tipo di suoni. Ciò non mi impedisce di continuare ad adorare quasi tutti i dischi di UM e quasi tutto il percorso artistico di entrambi. Fanno il bel set drammatico e duro che ti aspetteresti, suonano le loro tracce senza puntare troppo sull’adrenalina quanto su una presa progressivamente sempre più violenta e schiacciante.
Il Null di stasera ospita un altro showcase, quello della Northern Electronics di Abdullah Rashim. Si apre con Acronym, che a causa dei ritardi del piano di sopra mi sfugge quasi completamente, seguito da Vit Fana, altro noiser disperato che trovo ok ma un po’ banale. Poi c’è il live in solo di Puce Mary, e il discorso è ancora quello: pur nelle limitate possibilità cromatiche del power electronics, che oltretutto vengono frequentate da più di trent’anni, lei riesce a ricavarsi un suono personalissimo mettendosi in gioco con tutto il corpo e facendo brillare una volontà inesplosa. Gesti che, paradossalmente, in forme musicali più “ordinate” sono ai limiti dell’impossibile, ma che il rumore più radicale, una volta dominato, permette di esplorare in un’infinità di modi uguali e diversi.
Uno che invece non ci riesce è proprio Abdullah Rashim, qui col nuovo progetto “marziale” Lundin Oil, con cui ha fatto delle uscite carine ma che live non si capisce proprio dove voglia andare a parare. Sempre meglio di quando mette i dischi: lo zio sa essere il DJ più palloso del mondo. Poi ci dovrebbe essere Varg da solo, invece sul palco con lui c’è tutta la cricca della sera prima, solo che il risultato non è lo stesso, e sa un po’ di raffazzonato. Me ne scappo a sentire i Talker al Tresor curiosissimo di sapere come sarà il loro ibrido live/DJ set. Trovo uno dei due di fuori a chiacchierare e l’altro in consolle a mettere della techno un po’ banale. Vabé. Non ce la faccio più, siamo troppo devastati dalla sera prima e decidiamo a malincuore di balzare sia il DJ set di Regis (che comunque avrò sentito suonare tipo duecento volte) che quello di Mannerfelt e Pär Grindvik, di cui mi hanno detto che è stata una bomba. Cazzo.
Outside The Dream Syndicate
Il giorno dopo arrivo persino riposato e pronto a perdere altri neuroni. Arrivo in tempo per vedermi metà del deepissimo set di Ryo Murakami e mi piazzo in prima fila per la cosa che sto aspettando con più trepidazione: Outside The Dream Syndicate, replica una tantum di un breve ma incredibile incontro avvenuto negli anni settanta tra Tony Conrad e i Faust, durato un album e qualche concerto. I Faust ora sono rimasti in due, ma io stupidamente confido nella statura leggendaria di tutti quanti. Be’… tempo dieci minuti e me ne ero già andato al bar. Una delusione IMMANE: minimalismo suonato a cazzo di cane, quasi sempre fuori tempo, suoni privi di profondità e la sensazione di stare assistendo a una jam casuale nella quale nessuno si preoccupa di interagire davvero con gli altri. Il trasporto è completamente assente, mentre l’Alzheimer ingrana. Seriamente, me lo sarei dovuto aspettare: sono anni che i Faust fanno rate e Conrad non basta a risollevare le sorti di un’esecuzione seriamente imbarazzante. Fa sempre male vedere qualcuno sboccare su un capolavoro, ma quando sono gli stessi autori a farlo, fa ancora più male.
Alessandro Cortini
Finita la tortura inizia il set in solo di Alessandro Cortini, il live più atteso nonché—mi pare di aver capito—più gradito dalla maggior parte del pubblico. Eh be’, è molto bello. La performance prende le mosse da Sonno, suo primo lavoro su Hospital, espandendone le tracce in un flusso di coscienza nutriente, un liquido meditativo in cui l’energia si riflette e infrange. Personalmente l’ho apprezzato parecchio ma non mi ha sconvolto. Alessandro è sicuramente un grande musicista e sono contentissimo sia riuscito a emergere dall’ombra di Trent Reznor con un suo stile personale, ma non lo metterei tra le mie esibizioni preferite del festival. I visual forse erano belli ma sinceramente me li sono dimenticati.
Shackleton
Ci metterei invece Shackleton: Sam è salito sul palco accompagnato da tre percussionisti per un set chiamato “Powerplant”. Aveva effettivamente già provato qualcosa del genere al Dancity di qualche hanno fa, ma non c’ero e non saprei dire quanto sia stato simile. Contiene molti dei suoi recenti marchi di fabbrica, tipo gli arpeggi di vibrafono stile Steve Reich emigrato a Bali e le basse antimateriche. I tre picchiatori di pelli creano un motore krauto oscuro che fa da propulsore per la saggezza dub del maestro. In tutta sincerità non mi pare di avere registrato nel pubblico particolare entusiasmo, effettivamente si tratta di un set pesante, perché severo e monolitico ai limiti del maniacale, e richieda molta concentrazione nonostante suoni meno rumoroso e meno “alieno” di altri.
Monolitici sono anche Sergie Rezza (un duo sul crinale tra kraut e techno che non conoscevo e che ho effettivamente sentito troppo poco) e Polar Inertia. Me li vado a sentire dopo essere stato parzialmente deluso da Felix K, il cui DJ set al Tresor è abbastanza drittone mentre io confidavo in lui come amante dei breakbeat jungle e della paranoia da erba. Il progetto (che io ricordavo essere un duo) francese, invece, è sempre più una specie di “Wagner in space” e si trascina con una forza elementale non indifferente. Nel frattempo mi accorgo che i set nel Kraftwerk sono in ritardo di quasi un’ora, e che al Tresor sta per iniziare il terzo set in quattro giorni di Alessandro Cortini, stavolta con il progetto techno Skarn. Penso, “vabé, mi guardo un po’ di Lakker poi magari scendo”. Ecco… no. Non sono riuscito a mollare i Lakker. Perché non solo Eomac e Arad hanno fatto il set migliore di tutto il festival, asfaltando praticamente TUTTI, ma anche uno (non scherzo, cazzo) dei live più belli e interessanti che abbia visto quest’anno.
LakkerResto folgorato quasi subito: Tundra, il loro ultimo album, mi era piaciuto senza sconvolgermi, ma l’operazione di alterazione genetica che i due hanno messo in moto sulle tracce di quell’album le ha senza dubbio portate a un livello superiore, trasformandole in una specie di jungle cosmica che quando rallenta suona come le convulsioni psichedeliche di una coscienza che si autodistrugge per espandersi, e quando impenna sembra lanciare questo nuovo stato mentale in un atto di rivolta. I break beat sono serrati e tribali, passando con disinvoltura dai 90 ai 180bpm (le ho misurate) densificandosi fino a trasformarsi in buchi di harsh noise completo dentro a un tunnel di droni infinito. In tutto questo, riescono a evitare ogni deriva cinematico-narrativa alla Roly Porter, essenzialmente fottendosene della chiarezza espositiva, tenendo a mente che il ruolo della musica elettronica dovrebbe essere quello di ricercare emotività nuove e nuove prospettive su quelle consolidate. Sono arrivato a dire cose tipo “sembravano i Techno Animal” e ne sono ancora convinto.
LakkerPoi niente, sono galvanizzato e marcio. Al Tresor c’è il solito tasso di caldo e umidità stile giungla vietnamita in agosto. Rosico un po’ per avere completamente perso Skarn ma sono contento lo stesso: ora ci sono—in sequenza—Shifted e Sigha. Niente di trascendentale rispetto alle altre volte che mi è capitato di sentirli mettere dischi, vanno dritti sulla loro cassa. Non mi appassiono ma mi diverto. Un po’ si balla, un po’ si piazza nel cortile. Ce ne andiamo a metà mattinata e io so già che non riuscirò a riposare tutto il giorno. Così è, e alla domenica ci arrivo, di nuovo, a pezzi. Completamente esaurito di energie.
Samuel Kerridge
Sono costretto a fare economia: un paio di set selezionati e poi via, che il giorno dopo devo partire. Nello specifico: COH & Tina Frank, Samuel Kerridge e poi Lustmord. Adoro i Clock DVA ma li riesco a sacrificare perché li ho visti comunque abbastanza di recente. Iniziamo dai primi: amo Ivan Pavlov per le cose che fece coi Coil e un po’ meno per quelle fatte da solo, il suo set è un’ gran flusso di synth modulari, fatto di suoni che un po’ mi stanno stancando, ma che lui sa gestire con una certa maestria e che vengono poi rimodulati da Frank nel loro corrispettivo video.
Amo anche Kerridge e in teoria amerei questa nuova versione überdoom con tanto di chitarre-lame alla Godflesh, solo che ha un sacco di problemi tecnici (ipotizzo un carico eccessivo sulla CPU del laptop) che mi distraggono troppo per godermelo. Non sembrano comunque scoraggiare lui, che si spende con lo stesso furore hardcore di sempre. Stretcha samples fino a strapparne la texture delle e si lascia a sua volta investire dal peso tellurico delle basse. Sopra la media, ma stavolta sfortunato. Lustmord ha fatto Lustmord: il dark ambient l’ha inventato lui e continua a insisterci in un modo che live risulta ancora parecchio satanico. Non mi piace un suo disco da quasi dieci anni, ma mi ha fatto piacere affogare di nuovo nel suo abisso. Aveva anche dei visual interessanti, tipo visioni cthuviane in HD.
A quel punto me ne voglio andare. Sento Ben Frost solo perché sono ancora troppo stanco per muovere le gambe, ma la sua musica continua a non interessarmi molto. Di quello che ho fatto dopo sicuramente non gliene frega niente a nessuno, ma in generale me ne vado appagato dall’aver ascoltato per cinque giorni una valanga di musica di qualità e un tenore atmosferico con pochepecche. Magari qualcuno avrà potuto percepire il peso di una fetta di pubblico poco appassionata, passata di lì per dovere di status, ma per quanto mi riguarda è stato davvero minimo. A livello logistico l’unica cosa che mi ha fatto incazzare sono stati i baristi, a cui non pareva davvero fottere un cazzo di dare da bere alla gente, ai limite del comico. Per fortuna non bevo abbastanza da percepirlo come un problema. Per quanto riguarda la cura artistica, come accennato più volte, ho un po’ storto il naso nei confronti della persistenza della cassa dritta sul dancefloor, ma—ahimè—è risaputo che a Berlino breakare è ancora un mezzo tabù (vedi gli insulti ricevuti dagli Young Echo per il loro DJ set dello scorso anno). Allo stesso modo, sinceramente avrei trovato più “al passo coi tempi” anche un insistenza minore sugli stilemi industrial-noise che in alcuni casi hanno mostrato pesantemente la corda. Questo solo per dire che di sperimentazione “pesa” ce n’è in giro molta, e molto interessante, anche con suoni diversi (e il bellissimo live dei Lakker ne è una chiara testimonianza). Queste non sono comunque da intendersi come critiche distruttive, ma come riflessioni su un’evoluzione che secondo me in futuro sarà interessante osservare in seno al festival (e a Berlino in generale, oserei dire).
Il genere di suoni che passano da Atonal, dopotutto, sono in generale il segno di un’urgenza vitalistica che comprende il rumore e la “pesantezza” sonica senza goderne in maniera grottesca, per un’esigenza di verità ed energia che faccia da commento e relazione tra i corpi. Mantenerlo fresco e dinamico è, proprio per questo, essenziale perché resti un punto di riferimento all’infuori di tutti i valori dell’ “industria” musicale elettronica.
A vincere è comunque il fatto che, nonostante la portata del festival, nonostante la quantità di gente, di artisti e di spazi da gestire, e nonostante in tre anni il festival sia già diventato un punto di riferimento “istituzionale” per l’elettronica pesante, non si è percepita ancora troppa distanza “gerarchica” tra chi suona e chi ascolta, né tra i diversi animi con cui i presenti hanno deciso di partecipare. Certo, probabilmente si tratta di una manifestazione troppo eterogenea per sentirla come organismo di una scena coesa e consapevole, ma non è comunque una sensazione troppo remota. Personalmente credo che, evitando ambizioni irrealistiche di “crescita”, facendo magari un po’ più attenzione maggiore a geografie che stiano fuori dalla solita asse UK-Ger (gran cosa che quest’anno si sia dato così tanto spazio al Nord Europa, ad esempio) e, soprattutto, evitando alcune ripetizioni di act davvero fastidiose, si potrebbe arricchire il festival facendolo somigliare ancora di più a uno spazio condiviso da gente che non è lì solo perché interessata a un certo tipo di musica, ma accomunata da un certo numero di idee e memorie che li hanno spinti verso quella musica. Perché a un livello più ampiamente esperienziale Atonal ha davvero le carte per lasciare un segno su molte giovani menti.
Dal canto mio so di esserci stato proprio con persone del genere, con la migliore compagna di viaggio possibile e con gente che non si è risparmiata di viversi l’esperienza in maniera intensa. E me lo sono goduto. Oh, se me lo sono goduto: cinque giorni di autodistruzione positiva, e di percorsi sensoriali magari anche contraddittori, ma sicuramente intensi. Non ho mai voluto altro dalla musica.
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