Foto di Cait Oppermann.
MikeQ corre giù per la Central Avenue su un vecchio SUV color oro pallido, provando ad acchiappare un Pokèmon raro su Pokèmon Go. Mentre stiamo girando per East Orange, New Jersey, tra negozi di catene e un parco deserto nonostante l’afa di metà luglio, punta il telefono verso un palazzo di mattoni sulla nostra destra: “Lì c’è la mia scuola elementare” spiega “e di fianco c’è un Pokèstop.” Quando mi è venuto a prendere alla stazione di Newark Path, si è subito scusato: “mi spiace, ho l’aria condizionata rotta, è la macchina di mia nonna.”
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MikeQ, nato Michael Cox, è il timido ambasciatore della sottocultura più vistosa e appariscente d’America: la ballrom. Non c’è party al mondo—dai privè coperti di velluto alle warehouse sozze—paragonabile a una ball. Tutte le sere, se sai bene dove cercare, potrai trovare un mucchio di drag queen, butch queen, trans, e altre persone queer di colore che invadono un club o una venue affittata, vestiti Ferragamo dalla testa i piedi, o con corsetti di LED, o dei sacchi dell’immondizia trasformati in tuniche. La notte proseguirà tra scontri per la gloria, danzatrici che si contorcono in drop spaccaschiena sul pavimento, mentre altre se la menano come Naomi Campbell in una via di Parigi.
Anche se la scena ballroom esiste praticamente dagli anni Sessanta, la scena è scivolata molto sotto il livello dei radar, non solo rispetto alle attenzioni del mainstream americano, ma della stessa gay community. “Ferma venti uomini gay per strada oggi e chiedigli di parlarti delle icone della ballrom” si è lamentato il veterano Power Infiniti col Miami New Times nel 2014: “La maggior parte di loro non avrà idea di cosa tu stia dicendo”. Ultimamente, però, questa nebbia ha iniziato progressivamente a diradarsi, grazie a portacolori come MikeQ, un Dj e producer trentenne che ha dedicato tutta la sua decennale carriera a difendere l’onore della ballroom, provando comunque a portarla al successo. È andato in tour in città in cui la scena ballroom stava germogliando, come Tokyo, Mosca, Parigi, Mexico City e Seoul. Ha anche fatto irruzione in migliaia di camerette in giro per il mondo con i suoi set in diretta su Boiler Room, e sedotto molti alleandosi con le crew di Fade To Mind e GHE20GOT1K, entrambe roccaforti dell’avanguardia da club. Sì è persino ritrovato a ricevere messaggi privati da Missy Elliot, che lo ha contattato nel 2013 per collaborare a una traccia ballroom.
Per certi versi, non potevo scegliere periodo peggiore per visitare la città natale di Mike. È appena tornato da una data a LA, tra pochi giorni dovrà suonare a un party chiamato Vogue Knights, e poi andare al Latex Ball, una festa ballroom annuale co-fondata dalla organizzazione nonprofit Gay Men’s Health Crisis all’apice dell’epidemia di AIDS degli anni Ottanta per diffondere consapevolezza e prevenzione dell’HIV. Si sta anche preparando alla release (il 12 agosto) del primo album per la sua Qween Beats: una compilation di undici pezzi di nuovi artisti legati alla ballroom che secondo Mike meritano attenzione. Oltre a tutto questo, Mike è nel bel mezzo di un trasloco: sta per lasciare la casa dove ha vissuto con la famiglia fin dal 1990 per trasferirsi dal suo fidanzato di sempre, qualche isolato più in là.
La casa in cui Mike è cresciuto ha tre piani, i muri bianchi e le finestre blu marina. Sul porticato di ingresso c’è una scatola scassata piena di giocattoli e ce ne sono molte di più nel corridoio dopo il portone. Due calendari (dello stesso anno) della famiglia Obama stanno su un muro giallo brillante vicino alla porta. Scavalcando un libro di ricette per gli hamburger, seguo Mike su per la scricchiolante scala di legno che mi porta faccia a faccia con sua nonna ottantatreenne, comoda su una poltrona al secondo piano. Sorridendo dolcemente, mi stringe tremolante la mano e mormora qualcosa che non capisco bene. Mike mi spiega che sua madre e suo nonno abitavano lì ma se ne sono andati tanti anni fa, lasciando lui e sua nonna a doversi prendere cura di sua zia e dei due bambini di lei, che vivono con loro in quella casa. “È per questo che non me ne sono andato prima, volevo continuare a dare una mano.” mi dice. La camera di mike è quasi vuota: ci sono solo il letto, la sua strumentazione e una montagna di boxer della Nike. Dopo essersi seduto davanti alla scrivania, si gira sulla sedia guardandosi attorno. “Ogni tanto ci penso e mi intristisco” dice, “Prima o poi non avrò mai più la possibilità di tornare qui.
Mike è nato a Hackensack, New Jersey, e si è spostato qui a East Orange quando aveva quattro anni. Suo padre vive a quindici minuti da qui, a Paterson “la stessa città da cui viene Fetty Wap”, e infatti i due erano amici da pischelli. Mike dice di essere sempre stato il tipo “tranquillo, un po’ nerd”, e alle elementary cantava nel coro della scuola. “Non mi vestivo bene” dice, parlando della sua adolescenza “non avevo un bel taglio di capelli, non ero uno figo che si notava per strada.” Ma aveva un lato ribelle: al momento di iscriversi alle medie cancellò il nome della scuola a cui sua madre voleva mandarlo perché era in un palazzo “alienante, come un ghetto”, rimpiazzandolo con una che gli piaceva di più. In qualche modo, però non si cacciò mai nei casini. Al liceo iniziò a fumare erba e fare sega a scuola, cosa che gli fece ripetere un anno. Ciononostante, dopo la scuola era l’efficentissimo manager di un Domino’s Pizza. “Il lavoro era importante per me. Non ero stupido, solo non avevo voglia di andare a scuola.”
La sua vita cambiò quando entrò per la prima volta al The Globe, un club senza fronzoli che era il cuore pulsante della scena gay di Newark di metà anni Duemila: “Inizialmente avevo paura di andarci, sono sempre stato me stesso, ma prima d’ora non lo avevo mai espresso in pubblico” dice, riferendosi a come la provincia del New jersey non sia l’ambiente più gay-friendly per un ragazzino gay nero come era lui.
Ma un venerdì di quando aveva diciassette anni, Mike prese il coraggio a quattro mani ed entrò nel club con un amico. Sul dancefloor a scacchi bianchi e neri del The Globe, Mike riconobbe i cori “staccato” e il basso galoppante del Jersey club, un genere influenzato dall’hip-hop di Newark che aveva sentito spesso alle feste di quartiere e barbecue di famiglia. Ma a fine serata il DJ iniziò a suonare musica che non aveva mai sentito prima, piena di sample tagliuzzati, di crash e percussioni tribali. “Uscirono fuori tutte queste drag queen e iniziarono a ballare in maniera che non avevo mai visto prima. Mi dissi ‘ma perché cazzo si buttano per terra a quel modo?’ Era davvero strano, ma era pure una figata.”
Mile aveva appena scoperto il suono iper-cinetico della ballroom moderna, il carburante che dava alle danzatrici l’adrenalina necessaria per dominare le loro rivali durante le battle. Negli anni Ottanta e Novanta le battle erano musicata da raffinate hit disco come “Love Is The Message” degli MFSB o classici hard house come “X.” di Junior Vasquez. Le basi le avevano gettate i Masters At Work nel 1991 con la loro “The Ha Dance“, dando alla Ballroom i suoi tre suoni più caratteristici: l’ “ha!” estatico, il coretto finto-africano campionato da Una Poltrona Per Due e i crash metallici ogni quattro beat. Spesso usati dalle queen come segnale per lanciarsi sul pavimento. Nel 2000, stufo di usare una playlist così limitata, il pioniere della ballroom Vjuan Allure campionò quell’”Ha!” in un remix fatto apposta per le battle chiamato “The Allure Ha”. La sua nuova visione della ballroom metteva da parte le strutture tradizionali per aggiungere dramma e conflitto. “Quando la suoni, ti senti proprio come se stessi per andare a combattere” ha dichiarato a RBMA nel 2012. La ballroom pesante generata da Vjuan si è ora spinta verso territori ancora più scuri e aggressivi grazie a producer più giovani come LSDXOXO, Quest?ionmarc e Byrell the Great, mentre su internet è un fiorire di remix ballroom di canzoni pop.
Mike si innamorò subito della ballroom. A differenza della musica con cui era cresciuto, la Ballroom era intrinsecamente queer, con quei beat sincopati, punteggiati da vocalist che urlano versi come “Yas, bish, yaaas!” e “Work that pussy!”: “la Ballroom era ballabile come la jersey club o la house, ma era decisamente gay,” spiega Mike. Dopo quella notte fatidica, Mike iniziò a spostarsi in città per ballare al Village, storico enclave gay di Manhattan. “Ero colpitissimo dal fatto che ci fosse tutta quella gente gay come me. Questo mi portò col tempo a fare coming out.” Con la famiglia, Mike è tuttora aperto rispetto alla sua sessualità da parte di sua madre, mentre con suo padre le cose sono un po’ più complicate. “So che lo sa” ammette Mike “Ma non ne abbiamo mai parlato.” Stessa cosa per il resto della gente con cui è cresciuto in Jersey: “Non scrivo troppe cose supergay su Facebook perché ci sono tutti i miei amici di scuola”.
Da adolescente Mike nutriva la sua eterna fame di ballroom comprando CD direttamente da Vjuan Allure, Angel X e Tony Cortes, tutti importantissimi DJ con cui bazzicava al The Club House. Dopo essersi studiato bene la loro musica, Mike iniziò a produrre la sua con Fruity Loops e ACID Pro, due software che gli aveva passato un amico conosciuto al Globe “Tagliuzzavo le tracce e mescolavo la mia conoscenza del jersey con la ballroom”, spiega. Tutte le sue prima tracce erano firmate con un drop speciale, una registrazione di Vjuan Allure che dice il suo nome, un regalo fattogli dal DJ durante una festa per il suo diciannovesimo compleanno. Per Mike era come un marchio di qualità.
Mentre però Vjuan Allure ed Angel X spingevano la loro musica in maniera tradizionale, vendendo CD direttamente ai fan, Mike si fece un nome postando le sue tracce online su forum ballroom come Walk 4 Me Wednesday e DL Thugs. Il suo pseudonimo da DJ viene proprio dal nick usato in quei forum: MikeQ7000: “Mi piacevano le macchine Infinity, che si chiamavano tutte ‘Q’ con poi un numero. Quando ho iniziato a fare il DJ ho semplicemente tolto il 7000”. Nel settembre del 2005, a Mike fu offerto per la prima volta di suonare al Globe. Era la sua prima volta, e fu pagato settanta dollari per uno slot di sei ore. Spaventato di fare casini, suonò un set pre-mixato su dei CD che si era fatto a casa. Molto presto però avrebbe iniziato a suonare di continuo al Globe e al Club House. “Sono diventato resident dei primi due club in cui abbia mai messo piede, è una cosa davvero stramba. Sono anni che ci suono, oramai.”
Non è difficile capire perché: quando sale nel booth, Mike ha un talento davvero particolare per per sparare tutte le tracce spacca-dancefloor che potreste voler sentire alle 2:00 in una stanza umida e piena di amici. Le sue produzioni sono piene di hook che ti tirano in mezzo e basse spingenti, con uno stile idiosincratico che gioca col DNA della ballroom, incrociandolo con l’hip-hop, con melodie pop e col lato più club della musica industrial. “The Ha Dub ReWork’D,” la traccia che domina il suo primo EP per Fade to Mind, Let It All Out del 2011, rende omaggio ai Masters At Work, ma lascia da parte il suono house-sporco dell’originale, ne enfatizza le triplette fora-timpani di synth. Suona come “The Ha Dance!” trasportata dal Paradise Garage a una nave spaziale aliena tra duecento anni.
Dai tempi del Globe e del Club House, oramai passati, l’unico party fisso nella vita di Mike è Vogue Knights, di cui è resident da quando è iniziato, sei anni fa. Fondato dalle colonne della scena Jack Mizrahi e Luna Kahn, è una situazione rilassata in cui le queen possono allenarsi in vista di ball più competitivi. Negli anni ha attirato avventori celebri come FKA Twigs, Robert Pattinson, Queen Latifah, e Boys Noize. Twigs ha anche iniziato a inserire molte mosse vogue nei suoi show. La scena ha anche prodotto delle star, come il designer di Hood By Air e co-fondatore di GHE20G0THIK Shayne Oliver, il modello Shaun Ross e la protetta di Missy Elliott Sharaya J. Probabilmente la prossima sarà Mike, già ben posizionato tra la scena ball e un mondo musicale più ampio. Se però i legami con la ballroom di tutte le altre star vengono spesso trascurate da chi non è della scena, Mike ci tiene a non rescindere i suoi: “Cerco sempre di fare i nomi, di parlare di Vjuan Allure e diffondere la conoscenza. C’è un sacco di gente che pensa che abbia creato io la ballroom, perché conoscono solo me”.
Vogue Knights comincia ufficialmente alle 23:00, ma la gara si infiamma solo intorno alle 2:00, quando il dancefloor appartiene solo a chi fa sul serio. Quando ci vado, un giovedì sera di metà luglio, le strade di Midtown Manhattan sono deserte, illuminate solo dal bagliore lontano di Times Square, qualche isolato più in là. È la prima serata nella nuova sede, un gay club chiamato XL, dopo cinque anni a La Escuelita un gay club latino sempre a Midtown. Mike suonerà tutta la sera: dalle 11:00 alle 5:00. Mi arriva un urlo dai piloni in marmo davanti a un palazzo di uffici vuoto in fondo alla strada: “Michelle!”. Mi sporgo e vedo Mike che bazzica con quattro suoi amici, mentre si passano una canna di nascosto dalla stazione di polizia vicino al club.
Mike ha un aspetto bello fresco e rilassato, indossa una camicia di denim a maniche corte, sbottonata su una maglietta bianca e delle catene d’argento. Mi intrufolo nel suo cerchio di amici e lui inizia a stiracchiarsi: “Sono stanco” sospira. “È un po’ pesa stasera, ma Vogue Knights per me è sempre un po’ pesa”. Una ragazza bianca alta e bionda in mezzo a noi toglie una sbrillucciante catena d’oro dal collo di un tipo e si incammina lungo il marciapiede con le gambe fasciate da una gonna nera tagliata sù per la coscia. “Torniamo dentro”, ci dice voltandosi, e prima che possa chiedere a Mike che intendeva col suo commento, si gira e cammina lento verso le porte rosa del club. “Work—work—work,” ci intima un remix ballroom della hit di Rihanna, mentre Mike si fa largo tra i ragazzi che stanno riscaldando l’affollato dancefloor, dirigendosi verso la consolle. Saliti un paio di scalini, prende posto nel rozzo booth vicino al tavolo delle giudici, tutte vestite con larghissimi cappelli. Viene introdotto dal suo marchio di fabbrica, il drop, che risuona negli speaker con voce robotica: “Dee-jaaay MikeQ.”
Per le successive ore, le danzatrici sfilano davanti alle giudici, sfidandosi in categorie chiamate “Old Way” e “Femme Queen Vogue.” Quando si affrontando nella divisione “Runway”, in cui si giudica la ferocia della loro camminata, Mike inizia a suonare della house calda e morbida, adatta a scuotere le anche. Una danzatrice con la mantella nera si aggiudica il plauso della folla tirando fuori un vaporizzatore e soffiando nuvoloni di fumo mentre sfila in passerella. Un’altra è meno fortunata: “Ragazza, molla quella borsa e togliti la giacca” la sgrida l’MC, “per stare in questa categoria ci vuole FIEREZZA!” Più tardi mi spiega che suonare a un ball vuol dire avere una funziona precisa, e sapere interpretare i comandi e i segnali non-verbali dell’MC oltre a saper scegliere la musica adatta a ciascuna categoria. È molto diverso dal suonare in un club normale, dove si va solo per immergersi nella musica. A un ball “devo creare una colonna sonora”, dice Mike.
Presso Mike per capire che intendeva prima con “pesa”. Mi risponde: “Vogue Knights è il mio lavoro, è il modo in cui mi guadagno il pane”. Corrucciato, confessa che quello che guadagna suonando a Vogue Knight è nulla in confronto a quello che prende suonando fuori: “Duecento dollari a serata, praticamente niente, quanto prendevo nel 2007”. I suoi sentimenti nei confronti della serata sono cambiati col suo successo fuori dalla scena. Ora vede Vogue Knights come una specie di “servizio alla comunità”, ma nonostante quello che dice lui, non posso non pensare a un post che ho visto sul suo instagram quella sera stessa, il grab di una conversazione col promoter di VK. Dopo che questo gli aveva vietato di mettere suoi amici in guestlist, Mike gli ha risposto che ne voleva almeno due, e che tutti gli altri club in cui suona danno free drink e altro ancora. “È questo che succede quando mi prendono a suonare, oggi” ha scritto. Pochi giorni dopo, però, ha cancellato il post da Instagram.
Le origini della scena ballroom di New York risalgono al 1869, quando gli uomni gay iniziarono a fare sfilate in drag, con premi per i costumi più oltraggiosi. Ma la versione moderna non è arrivata che un secolo più tardi, quando drag queen nere e latine hanno iniziato a tenere dei ball nei centri di quartiere di harlem e altre venue pubbliche. Nei tardi anni Sessanta iniziarono a usare un genere di danza chiamato vogue, ispirato alle pose eleganti delle donne che vedevano passeggiare per la Fifth Avenue e spalmate su riviste di moda come, appunto, Vogue. “Per le drag queens dell’epoca, il vogue era una bella evasione, un modo per ballaere e non pensare al dolore e all’oppressione che vivevano tutti i giorni,” ha spiegato Kevin Omni Burrus, ballroom queen fin dal 1975, nel 2012 a DNAInfo. “Ma a parte questo, era una celebrazione della loro bellezza.”
Nei Settanta, una queen di nome Crystal LaBeija fondò il primo “casato ballroom” la House of LaBeija. Era una specie di confraternita, in cui una “madre” e un “padre” facevano da mentori ai membri più giovani e meno esperti. Molto presto iniziarono a emergere altri casati, spesso con nomi rubati a marchi di alta moda come Balenciaga e St. Laurent, o a caratteristiche che i membri volevano esprimere, come Xtravaganza e Ninja. I casati divennero delle seconde famiglie per molti ragazzi che non avevano altro. “Molti giovani gay venivano cacciati di casa” dice Power Infiniti. “I Club e la strada erano il loro social network”. Ma sotto la patina colorata e luminosa, la ballroom era diventata una galassia complessa, con le sue gerarchie, abitudini e linguaggi. Andando a un ball per la prima volta è difficile capire bene cosa sta succedendo—e come, per dire, si fa a vincere in una categoria chiamata “soft and cunt”—senza che qualcuno ti faccia da cicerone.
In uno dei primi momenti di esplosione della ballroom, nel 1989, l’impresaria Susanne Bartsch organizzò una enorme festa ballroom piena di gente famosa come benefit per la lotta contro l’AIDS chiamata Love Ball, con David Byrne, Iman, e l’editor di Vogue Andre Leon Talley come giudici. Secondo un articolo pubblicato da Red Bull Music Academy, fu alla Love Ball che Madonna vide qualcuno ballare il vogue fper la prima volta; la sua hit del 1990 “Vogue” era un omaggio a quelle mosse fluide e gesti ampi. Lo stesso anno il documentario Paris is Burning di Jennie Livingston portò la sottocultura a un pubblico più ampio. Anche se l’interesse delle masse si è affievolito, non c’è dubbio che l’immaginario collettivo ne sia stato influenzato: RuPaul è conosciutissimo fin dagli anni Novanta, e molto dello slang ballroom—come “throwing shade,” “yaaaas,” “fierce,” “work!”—viene usato pure dalle casalinghe di provincia.
Ultimamente anche FKA Twigs, Beyoncé, e anche Willow Smith hanno collaborato con ballerini di vogue nei loro video musicali. Beyoncé ha spiegato all’Independent nel 2006 che il suo alter-ego Sasha Fierce era ispirato alla fierezza delle danzatrici di ballroom. Il problema è che l’influenza della ballroom sul mainstream viene raramente riconosciuta, i suoi significanti sono diventati familiari, ma privi del loro contesto originario, lasciando la scena e i suoi folli personaggi invisibili agli occhi delle masse. In più, raramente scena ballroom ha voglia di raccogliere i frutti della propria popolarità. Quando, la scorsa estate, fu organizzata una proiezione gratuita, con party annesso, di Paris is Burning, si riaprirono molte vecchie ferite. Molti erano offesi che l’evento non avesse in lineup nessuna persona trans né di colore, ma come headliner la musicista lesbica JD Samson, che non ha quasi niente a che fare con la scena. Emerse persino una petizione di Change.org per boicottare l’evento, con molti che hanno definito il film uno “sfruttamento di un popolo vulnerabile” accusando Livingston di avere sfruttato molta gente “per la sua fama personale” mentre “molte del cast originale sono state ammazzate o sono morte povere.” Nel 1991 Livingston distribuì 55.000 dollari dei profitti del film a tredici membri del cast, ma non fu comunque soddisfacente. Pepper Labeija, che era nel film, disse al New York Times che stava “comprando il loro silenzio”.
L’ascesa di Mike fuori dal mondo ballroom fu aiutata da una buona convergenza temporale, ma anche da incontri con un po’ di influencer della scena elettronica globale. Nel 2009 Mike si imbatté in Ezra Rubin AKA Kingdom, il producer di LA campione di club music decostruita e sperimentale. “Ezra mi chiese se volevo uscire su una label che stava per aprire” ricorda Mike, riferendosi a quella che sarebbe poi diventata Fade To Mind. “In cuor suo, Mike sapeva che avrebbe voluto qualcosa di più che continuare a suonare ai ball” spiega lo stesso Kingdom “Non si preoccupava solo di produrre tracce, si promuoveva parecchio, spingeva i suoi mixati su CD, aveva un sito personale… Aveva dei bei piani.”
Nel 2012 Mike fece uscire su Fade To Mind Let It All Out, a oggi la sua unica release in solitaria, un EP di cinque tracce che ha presentato al mondo del clubbing le ritmiche furtive della ballroom, gli hook vocali arroganti (“I wanna see a bitch let it all out!” rappa MC Jay Karan nella title track) e i caratteristici crash. In più ci sono contributi del DJ/producer Angel X e dell’MC Kevin JZ Prodigy, oltre che del re del Jersey club DJ Sliink, con cui Mike ha fatto un EP in collaborazione su Fade To Mnd nel 2014. Dopo questa uscita, le frange più sperimentali della comunità musicale elettronica, con Kingdom che provava a mettere le mani sull’”ha” sample con la sua “Stalker Ha,” mentre Bok Bok ha ospitato Vjuan Allure nel suo show su Rinse nel 2012. “Ebbe un impatto molto grosso, fu uno dei primi EP di ballroom a uscire ufficialmente, per di più in vinile. Mise in moto tutto un movimento ballroom internazionale con un grossissimo potenziale.” dice Kingdom. Lo stesso anni, Boiler Room ha invitato Mike a fare il suo primo set in streaming, con Kevin JZ Prodigy. Nel 2014, Fade To Mind e la sorella Night Slugs fecero uscire un remale del classico tribal house da battle “Icy Lake” e ci ha fatto un documentario con THUMP.
Con l’ingrossarsi del suo curriculum, Mike iniziò a venire bookato in giro per tutti gli Stati Uniti. La sua prima data fuori dalla tri-state area fu nel 2011 a LA per uno dei Mad Decent Mondays di Diplo. Dopo di chè “iniziai a viaggiare tanto, ed è partito tutto da lì”. Lo scorso dicembre l’ho visto fare un altro set a Boiler Room, sta volta in back to back col cofondatore di Night Slugs L-VIS 1990, nel club di Brooklyn Good Room. Vestito di nero con una maglietta col logo geometrico di Qween Beat, Mike se ne stava in consolle a girare manopole con tocchi precisi e rapidi, e una fierezza innegabile. “I contatti con Fade To Mind, Night Slugs, Diplo, Vewnus X, GHE20GOTH1K—è stato tutto di grande aiuto”, dice Mike.
Qween Beat prese vita nel 2005. Fu il suo fidanzato a inventarne il nome: “sono beat per le queen” spiega Mike. Finora Qween Beat è un collettivo formato da Mike e dagli amici conosciuti online, al Globe o in altri contesti. Sono diciannove membri, non solo DJ e producer ma anche rapper e vocalist come Cakes da Killa e Ash B e ballerine come la giapponese Koppi Mizrahi, di Tokyo. Per Mike è stato un po’ come creare un suo casato. Se i casati ballroom più “tradizionali” (come Mizrahi, LaBeija e Xtravaganza) contavano tra le loro fila anche DJ ed MC, erano sempre le danzatrici a dominarle. Mike è anche parte di un casato chiamato Ebony, ma Qween Beat è una cosa a parte: concentrata sui musicisti, con l’idea di mettere assieme molti membri della scena spesso trascurati per espandere il proprio bacino di risorse.
Ne consegue che molte delle tracce uscite per Qween Beat sono collaborazioni tra vari artisti: Divoli S’vere, ad esempio, ha percosso bidoni dell’immondizia e messo i soldi crash penetranti come beat per “Realness” di Ash B, mentre Jay R Neutron ha punteggiato la voce scartavetrata di Gregg Evisu con dei bleep electro in “Some Type Of Way”. “Siamo una famiglia”, spiega Mike, “Ci scambiamo idee e lavoriamo gli uni con gli altri.” La cosa più importante, comunque, è forse il fatto che Qween Beat per mette a chi fa parte della scena di rivendicare la popolarità della ballroom e trarne profitto. “Questa è musica che vende” dice orgoglioso.
Mike è comunque molto protettivo nei confronti del genere che lo ha svezzato. Per quanto promuova Queen Beat come la prima “ballroom label”, ci tiene a tracciare una linea tra “pure ballroom” e musica “ispirata alla ballroom”. Molti producer in giro per il mondo hanno etichettato la loro musica come ballroom perché ne hanno usato i suoni, ma, come dice lui “non basta usare un ‘ha’ per fare una traccia ballroom”. Molte tracce di questo tipo che funzionano nei club non verrebbero mai suonate a un ball, dice, perché le queen non saprebbero come muoversi su beat così contorti. “La gente non può dire che suona ballroom solo perché collabora con me”.
Da come parla della label, si capisce che Mike ha un rapporto complicato con il successo. Mi ha spiegato che nella prima release di Qween Beat c’è solo una sua traccia, una collaborazione con Romanthony—perché non vuole attirare troppo l’attenzione su se stesso. “Chiunque può arrivare a Fade To Mind come ho fatto io” dice. “E a questo che serve Qween Beat.” Allo stesso tempo confessa che gestire gli ego e risolvere i conflitti della crescente famiglia QB non è facile. “Certe volte mi scoraggio e voglio chiuderla, perché potrei occuparmi solo del mio progetto, e non tutti capiscono questa cosa.” dice. Ma è determinato a continuare a militare. “Non mi fermerò. Nella Ballroom ho trovato me stesso e sono riuscito a portare fuori i talenti che ho conosciuto. Dovrebbe essere l’obiettivo di tutta la scena.” Anche se è il membro più conosciuto di Qween beat, raggiungere non è mai stato questo l’obiettivo di Mike. Anzitutto, il supporto che riceve nella scena non si riflette necessariamente sull’esterno. “È difficile portare la gente della scena a interessarsi davvero a qualcosa che non è propriamente ballroom”, ma spesso non sanno nemmeno, o non gli importa, chi sia il DJ: “A un ball mettono a malapena il tuo nome sul flyer. C’è un sacco di gente che non ha idea di che faccia abbia io.”
Per cui la sua statura nella scena non lo ha necessariamente portato al successo nell’industria. Un martedì sera di luglio, lo vedo suonare al Baby’s Alright, per una serata di Red Bull Sound Selects, un programma che usa artisti importanti per attirare l’attenzione su un roster di emergenti più underground. Stanotte è a cura di Cakes Da Killa, che ha chiesto a Big Freedia di fare da headliner e ha messo Mike, che è suo amico, in chiusura. Sfortunatamente per Mike, se ne vanno tutti dopo il set di Big Freedia, lasciandolo a iniziare il set con “Legendary Children” di Byrell the Great (prima traccia di Qweendom ) davanti a una platea praticamente deserta.
Dopo lo show, mentre aspetta che lo paghino, lo vedo frustrato. “Big Freedia ha rovinato il mio set!,” dice a Cakes, abbastanza forte da farsi sentire da tutti gli amici che gli stanno attorno. “Prossima volta non bookarlo, chiama qualcuno di Qween Beat!” per poi elencargli tutti i suoi artisti, spiegando a Cakes che avrebbe potuto usare questa occasione per portare in città quelli che vivono fuori da NY. Cakes, preso male, gli chiede se gli va di andare a bere una cosa ora che lo show è finito, ma Mike deve fare i bagagli per andare a Toronto il giorno dopo. Nel 2013 Mike aveva quasi avuto una opportunità di sfondare, quando Missy Elliott lo ha chiamato per lavorare a una traccia ballroom per la sua protetta Sharaya, cresciuta andando ai ball di New York. Mike dice che alla fine lei scelse un altro producer chiamato DJ Jayhood, che fa jersey club, un genere che secondo Missy aveva un appeal più ampio (il singolo in questione era “Banji”).
Come gesto di amicizia, Missy ha registrato in segreto con Mike una traccia in cui prova a rappare stile ballroom, usando anche termini dallo slang della scena, come “cunt”, oltre al suo classico “BRRR!”. Nonostante la traccia non sia mai uscita, Mike l’ha suonata in uno dei suoi set a Boiler Room, rendendola immediatamente virale dopo che un paio di fan l’avevano rippata e postata su youtube. In qualche modo quella traccia è il simbolo del posto della ballroom nella cultura pop: ha un enorme potenziale commerciale, ma le manca il supporto “istituzionale”. Anzi, è forse Mike stesso a riflettere molte delle tensioni interne alla cultura ballroom: ha voglia di esplodere nel mainstream ma è strenuamente leale alla scena e alle sue tradizioni, frustrato dalla mancanza di riconoscimenti esterni ma determinato a non dimenticare da dove viene.
Dopotutto, il vogue è sia una fantasia di evasione che un gesto di ribellione: chi lo balla sa che non finirà mai davvero sulla cover di Vogue, ma si impegna a ballare come non ci fosse un domani contro le ingiustizie del sistema, riappropriandosi di una bellezza riservata solo alle donne bianche ricche. Nel bene e nel male, per quanto ogni tot di tempo ci sia qualcuno che annuncia l’esplosione della ballroom, questa è sempre rimasta ostinatamente underground. Ma se c’è un aspetto di quella cultura che può trascendere la sua tendenza all’isolamento e riferirsi a un vasto spettro di persone di tutte le razze e provenienti da diversi background socioeconomici, è la musica. Di conseguenza, uno in grado di fare questo lavoro è certamente MikeQ.
Dal canto suo, Mike sostiene di non dover per forza partecipare alla scena per rimanervi connesso. “Non vado più ai meeting e non mi sposto per i ball. Specialmente perché non mi piace più molto fare serata.” mi spiega lui, notando l’ironia dell’essere allo stesso tempo un DJ che si sposta spessissimo per andare a suonare. “A me piace fumare”, mi dice mentre inala da un blunt bello grosso, “preferisco stare a casa a sciallarmela”. Mike è quindi una contraddizione vivente: un introverso che ha trovato casa nella scena più estroversa di tutte, fondata sul pavoneggiarsi con arroganza. Sarà per questo che si è messo soprattutto a fare il DJ, era quello il suo modo di fare parte di una cultura che l’ha portato fuori dal New Jersey suburbano verso il fiorente underground gay nero di New York, senza dover comunque stare al centro dell’attenzione.
Eppure, quando lo incontro al Latex Ball, lo trovo circondato dalla sua famiglia Qween Beat, che saluta le danzatrici sul palco. All’improvviso nasce un litigio per via di una presunta ingiustizia tra un giudice a una queen, che salta sul tavolo calciando drink e rovesciando tutto. Viene trascinata via dalla security calciante e urlante, ma torna dopo due secondi a tirare un drink in faccia al suo nemico. Tremila persone tra piccionaia e dancefloor iniziano a fischiarla, a urlare e a spargere tequila, mentre Mike riprende tutto su Snapchat. Poi scuote la testa dicendomi sottovoce “che vergogna”, come un padre il cui figlio sta facendo una scenata in chiesa.
A fine serata Mike va a porgere i suoi omaggi a Vjuan Allure, che suona al ball ogni anno. Seduto sul palco con le mani sui CDJ, Vjuan fa un bell’effetto: indossa un cappellino con scritto in glitter “READ” e si dondola sulla sedia a ritmo di musica. Ogni tanto, quando la traccia che ha messo è particolarmente bomba, si lancia anche lui in un vogue forsennato. La sua esuberanza è in totale contrasto con la timidezza di Mike, che gli sta di fianco immobile come una statua. Ma prima di andarsene per prendere il treno, Mike molla un CDJ della compila di Qween Beat a Vjuan.
Alla fine della nostra giornata insieme in New Jersey, Mike mi riporta alla stazione PATH di Newark. A differenza di quando mi ha portato a casa sua, ora il bel tempo ha lasciato posto a delle grosse nuvole nere che sembrano incombere minacciose sulla città. Mentre siamo fermi a un semaforo Mike mi dice con nonchalance che una volta gli hanno sparato mentre era fermo a quello stesso incrocio. Un paio di minuti dopo mi indica una strada piena di gente sfasciata chiamandola “via dell’erba e dello Xanax”. Mentre ci dirigiamo alla stazione ci imbattiamo in un imponente stadio chiamato Prudential Center “Lì ci ho visto Rihanna”, mi dice Mike, spiegandomi che per i residenti quella è una bolla di lusso nel mezzo di Newark. “La città finisce lì dove c’è lo stadio, e ci hanno messo una stazione apposta, così chi viene da fuori non deve interagire coi local. Nonostante ciò, Mike è abbastanza orgoglioso della sflilata di celebrità cresciute a Newark: “Ice-T, Queen Latifah, Faith Evans, Paul Simon, Whitney Houston…” Smette per un attimo di acchiappare Pokémon e sorride all’orizzonte… “MikeQ”.