Chrstina Vantzou si esibirà a Milano lunedì 6 maggio per la rassegna Inner Spaces.
La mamma di Christina Vantzou lavorava in un museo a Kansas City. Quando non poteva starle a dietro la lasciava in un magazzino pieno di cose per fare arte—e lei le prendeva e ci faceva cose. Continuò a prenderle e a farci cose finché non si rese conto, ancora adolescente, che magari poteva farci qualcosa di serio. Studia disegno e dipinge, si guadagna una borsa di studio in belle arti all’università di Baltimore, fa ricerca a Edimburgo. Figlia di un’americana e un greco, Christina ha una doppia cittadinanza che le permette di viaggiare spesso in Europa. È nel suo cuore che avviene l’incontro che le cambia la vita.
Videos by VICE
Un’estate a Bruxelles, in Belgio, Vantzou conosce Adam Bryanbaum Wiltzie. Americano, nel 1993 Wiltzie aveva fondato insieme all’amico Brian McBride un duo chiamato Stars of the Lid e lo aveva usato per esplorare i meandri spugnosi dell’ambient armato di chitarre e pedali, un sacco di pedali. La loro escavazione, però, ha funzionato al contrario di quelle che facciamo noi uomini. Invece di andare verso il basso e il buio loro lì hanno cominciato, e si sono fatti strada verso la luce.
Music For Nitrous Oxide, uscito nel 1995 e registrato su nastro, è infatti un’opera nera, composta da suoni che vivono sì d’aria, ma chiusa tra le pareti di un cunicolo che sembra farsi sempre più stretto. La distanza che lo separa da Stars Of The Lid And Their Refinement Of The Decline, uscito nel 2007, è la stessa che quel cunicolo percorre per tornare sulla superficie e farsi accarezzare dalla luce.
La musica degli Stars of the Lid non è localizzata, è una nube di suono suddivisa da titoli che evocano stati emotivi, gesti, entità. Se volessimo giocare a mettere da qualche parte la loro metaforica miniera, il vincitore la metterebbe in Texas. È lì che Wiltzie si trasferisce e comincia a vivere di musica insieme a McBride, è da lì che il gelo di un ospedale psichiatrico, il nome di una contea o di un’intera parte dello stato si fanno strada nei significanti del duo.
L’unico altro luogo citato da Wiltzie e McBride è dall’altra parte dell’oceano. Si tratta dell’Atomium di Bruxelles, monumentale ricostruzione di un atomo di ferro, artefatto più riconoscibile della città dove Wiltzie si trasferisce nel 2000. Scrive musica e chiede a Christina, sua nuova amica, di farci dei video. Quello che ne esce è un duo a tutti gli effetti, una collaborazione audiovisiva con cui Wiltzie dà l’addio alla sua vecchia vita: The Dead Texan, il texano morto. In quello della conclusiva “The Struggle”, tra cieli e tetti di Bruxelles, torna lui, l’Atomium, segno di ricerca scientifica e bellezza delle geometrie.
L’unico album dei Dead Texan, uscito nel 2004, prende l’ambient degli Stars of the Lid e lo complica quel giusto che basta con voci, tastiere e chitarre da poterlo chiamare “post-rock”, ma di quelli liminari—quello dei Labradford, dei Pan-American più destrutturati. Wiltzie chiama questi pezzi “piccole sinfonie”, Vantzou scrive dei libretti visivi per ognuna di esse. Volti stupiti e forme geometriche rassicuranti in “Aegina Airlines”, geometrie d’acqua scintillante in “The 6 Million Dollar Sandwich”, una ragazza e ricordi sfocati di palme in “Beatrice Pt. 2”, corpi che si cercano e si mancano in “Taco Me Manque”.
Quando i Dead Texan devono cominciare a suonare dal vivo, nel 2005, Wiltzie chiede a Vantzou di eseguire delle parti di tastiera. Prima di allora lei non aveva mai suonato nulla. È il primo seme della sua carriera solista: “Cominciai a sperimentare con i MIDI e i sample e a costruire una libreria di suoni campionati da me. Man mano che cresceva, ho cominciato a usarli per comporre”. Usava Reason e per tre anni “non aveva idea di quello che stava facendo”. Ma non importa, perché Bruxelles è per lei un luogo in cui trova “un bozzolo” per rilassarsi e lavorare, lontana dalla sovrastimolazione di grandi città come Londra, Parigi o New York, una comoda base da cui partire in furgone per girare l’Europa con Wiltzie e suonare dal vivo. Nel 2007 i Dead Texan vanno in tour con quei maestri di malinconia che erano gli Sparklehorse di Mark Linkous, e per Vantzou è come “un lampadina che si accende in testa”.
Quando Vantzou arriva ad avere abbastanza materiale per un disco, chiede consiglio a un amico e collaboratore, l’irlandese Dustin O’Halloran, che anni dopo fonderà insieme a Wiltzie gli A Winged Victory For The Sullen. Chi ha voglia di lavorare in un modo non convenzionale e può aiutarla a scriverla su pentagramma e registrarla? Lui le passa il contatto di una ragazza americana con cui ha lavorato, figlia di immigrati coreani, che sta cominciando a diventare una figura di riferimento a San Francisco per gli incontri tra musica classica e cultura contemporanea. Si chiama Minna Choi e la sua orchestra si chiama Magik*Magik.
Insieme Vantzou e Choi trasformano i suoni e i campioni raccolti in quegli anni in un disco. Si chiama No. 1, esce su Kranky nel 2011 ed è eseguito da un’orchestra di sette elementi. È pensato come una sinfonia divisa in dieci parti e non come una collezione di pezzi, e ha una controparte visuale pensata per essere fruita nella sua interezza. Dentro non ha nemmeno un elemento percussivo o una parola. I titoli evocano, come nelle creature musicali di Wiltzie, immagini, concetti, stati, gesti, persone: “Montagne fatte in casa”, “Preludio per Juan”, “I tuoi cambiamenti sono stati inviati”, “Piccolo coro”. Si tratta di una lunga e lentissima serie di onde di suono, interrotte solo da brevi eccitazioni di melodia: un metallofono, una breve accelerazione d’archi.
No. 2 arriva tre anni dopo, nel 2014, pagato dal lavoro della Vantzou come assistente di matematica all’università di Bruxelles. Stavolta gli elementi dell’orchestra diretta da Choi sono dodici e i piacevoli disturbi nel flusso d’archi sono più variegati: c’è un pianoforte, un sintetizzatore, ci sono strumenti a fiato, c’è un’arpa. Wiltzie ci lavora come ingegnere del suono, mettendo la firma sul mix finale. Se nel primo album Vantzou aveva “camminato a occhi chiusi tastando con le mani”, guidata da Choi, stavolta il processo è più scorrevole: “Mi fidavo di lei ed era come se potessi esplorare certe cose più a fondo, anche se continuavo a non saper scrivere e leggere la musica.”
I toni di No. 2 sono più tesi di quelli del suo predecessore, sebbene le due opere siano state create con lo stesso modus operandi e dalle stesse persone. “Vancouver Island Quartet” alterna archi in tensione e lontane voci di sirene ammalianti che si risolvono in stasi, “VHS” è una complicazione di rumore bianco spezzata in due dall’entrata di un basso roboante, “Brain Fog” evoca in forma orchestrale e concentrata la caduta libera nella demenza senile che Leyland Kirby esplorerà anni dopo nei campionamenti della serie Everywhere At The End Of Time.
No. 3, pubblicato nel 2015, è l’apice del percorso intrapreso dalla Vantzou fino a questo punto. La musica abbandona il pentagramma e diventa libera di crearsi da sola, per tentativi. Lei si sente più a suo agio “a lasciare che le cose evolvano lontane dal foglio”, a “capire insieme ai musicisti che cosa fare”. Il disco viene registrato ancora una volta in Belgio, ma tutto è un gradino più alto: stavolta l’orchestra ha 15 elementi e una nuova persona entra nel processo creativo, il californiano John Also Bennett, che suona il sintetizzatore nei Seabat.
L’ispirazione più grande per questo terzo disco, dice Vantzou, è The Expanding Universe di Laurie Spiegel, classico dell’elettronica passatole da un’amica: “Ascoltandolo ho sentito immediatamente un’affinità tra di noi.” Ad affascinarla è il modo in cui usa il “tempo”, “una semplice fonte di suono che diventa lentamente un ritornello, con un sacco di strane complessità e sovrapposizioni”. Lei tende a “lavorare in uno spaziotempo più liquido”, ma “tutti i cambiamenti nella musica di Spiegel […] sono fluttuazioni complesse, basate su algoritmi da lei ideati per creare la sua musica. Abbiamo approcci diversi, ma è stata una grande fonte d’ispirazione.”
Il punto è quindi la presa di coscienza del “linguaggio” con cui è “parlata” la propria musica: grazie alla matematica di Spiegel, Vantzou capisce che il suo fare musica è guidato dalla libera interpretazione nello spazio e nel tempo. E così alla Spiegel intitola un brano in cui si indovinano le sue cascatelle di synth, spalmate su una serie di piani di suono che si sovrappongono e interrompono liberamente. “Valley Drone” sembra espandersi lentamente, come una pozzanghera che si fa lago, i fiati e gli archi a creare onde sulla sua superficie. Non si tratta più di trasformare in spartito e sinfonia un piccolo esperimento personale basato su MIDI e campionamenti: si tratta di creare in libertà.
Prima di mettersi a lavorare a No. 4, Vantzou dice di sentire “come il bisogno di riportare le cose a una dimensione più piccola, di lavorare con pochi collaboratori a me vicini”. L’impalcatura della sua musica deve continuare a sfilacciarsi, a ridursi all’essenziale, così da lasciare spazio al suono puro, all’istinto: “Il modo in cui compongo è sempre lo stesso, ma il modo in cui il tutto viene interpretato continua ad allentarsi, e c’è più spazio per respirare”.
Quando arriva, nel 2018, No. 4 si rivela essere un disco fatto di menti che si conoscono e si cercano attraverso l’esecuzione di suoni, seguendo tracce e suggerimenti silenziosi. Bennett torna al sintetizzatore, a lui si aggiungono altri nomi: Angel Deradoorian dona la sua voce a “Glissando For Bodies And Machines In Space”, Steve Hauschildt versa i suoi prismi sbrilluccianti di synth su “Remote Polyphony”, membri del gruppo belga Echo Collective—già turnisti per gli A Winged Victory For The Sullen di O’Halloran e Wiltzie—lavorano alla strumentazione classica, Beatrijs De Klerck al pianoforte. Tutti, però, sono liberi di fare ciò che vogliono con la loro musica: aggiungerla e toglierla, plasmarla come credono.
Non si tratta di improvvisazione, un termine che paradossalmente rischia di evocare un suono molto codificato, quanto di libertà creativa: “Abbiamo avuto abbastanza tempo in studio per creare molte cose aperte,” ha detto Vantzou, “ma anche di farne di più provate, con più input compositivi da parte mia.” Ai nostri colleghi americani ha spiegato i dettagli di questo processo: “Avevo scritto qualche nota, qualche semplice idea grafica, e abbiamo ascoltato insieme certi album per trovare ispirazione. Da lì ogni musicista ha arrangiato le proprie parti, senza un direttore d’orchestra o uno spartito da seguire.”
Dalle basse frequenze di avvertimento con cui il disco comincia fino al gentile sfarfallio elettronico con cui si conclude, No. 4 è un inno alla libera associazione. “Some Limited And Waning Memory” evoca la dolce malinconia di un passato acquoso, “Doorway” un senso di sospensione in un non-spazio, “Lava” un borbottio primordiale, “Garden Of Forking Paths” la tensione della scelta.
“Voglio solo che le mie decisioni creative e le mie scelte rimangano organiche”, dice la Vantzou ora che è giunta al termine di un nuovo ciclo creativo. “Quando faccio musica vengo trascinata verso certe direzioni, e non so perché. Ma mi fido del mio istinto, indipendentemente da tutto. Mi sento come se fossi più una custode che si prende cura delle proprie idee, così che siano ordinate e ci sia spazio quando una nuova direzione si palesa.” Perché è lei che arriva, nessuno la decide.
Elia è su Instagram.
Segui Noisey su Instagram e Facebook.
Leggi anche: