Circa un mese fa Adi Newton e soci, nella loro ultima incarnazione come Clock DVA, hanno rilasciato Horology 2: Clockdva The Future & Radiophonic Dvations, cofanetto contenente cinque vecchi LP dei primi anni di vita della band, quando l’Inghilterra cominciava a fare materialmente i conti con i prodotti delle sue ipocrisie. I suoni contenuti in questi cinque LP, come nei successivi, seminali, lavori dei CDVA sono antimaterici, ribollenti di un’urgenza creativa che quasi si condensa nelle orecchie, tanto è intensa. È sempre pallosissimo approcciarsi ai precursori di generi musicali con fare riconoscente, ma senza le avanguardie di Sheffield di fine anni Settanta, il terreno sarebbe stato di gran lunga meno fertile. Pochi cazzi.
Ogni prodotto musicale/visivo/audiovisivo abbia sopra il loro nome—sia questo Clock DVA, The Anti-Group Communications, The Future—è un quadro perfetto di integrità artistica e culturale, che ha reso la scena industrial inglese uno dei principali riferimenti per tutto ciò che è venuto dopo, sia a livello di sperimentazione sonora che di semplice attitudine e approccio ad essa. Non è un caso che in gran parte dei festival/eventi legati al clubbing, ad esempio, gli headliner siano spesso pionieri come CDVA, Cabaret Voltaire, Carter Tutti Void, etc. Il più imminente di tutti—inizia domani—è il mastodontico Atonal di Berlino, al quale contribuiranno con un live set l’ultimo, glorioso giorno, cioè domenica 23, assieme a Coh + Frank, Kerridge, Lustmord e molti altri.
Videos by VICE
Ho intrapreso uno scambio epistolare con Adi Newton, in cui gli ho chiesto di spiegarmi cosa c’è dietro alla ricerca sonora/visiva che da più di trent’anni a questa parte rende inattaccabili le loro creazioni. Sono venute fuori tante questioni interessanti, tra cui il ruolo di creatività e tecnica nell’arte, il simulacro e la simulazione di Baudrillard, coscienza e immaginazione, etc. Tutti ottimi strumenti, dunque, per interpretare al meglio ogni loro transizione nella sperimentazione musicale, di genere in genere, di nome in nome. Qui l’evento Facebook dell’Atonal, sulla cui bacheca c’è ancora gente che vende passport ai ritardatari, fatene buon uso. Ci vediamo a Berlino.
Noisey: Che tipo di approccio pratico e mentale c’era alla musica e alle relative innovazioni/avanguardie in province inglesi come Sheffield, negli anni Ottanta? Cosa ha permesso a gruppi come voi, Cabaret Voltaire, etc di ottenere visibilità?Adi Newton: Che ricordi avete dei primi live set? Ci sono grosse differenze oggi rispetto all’epoca, per quanto vi riguarda, magari dovute alle nuove tecnologie e alla diversa sensibilità del pubblico? “Immagina un occhio che sia estraneo alle regole prospettiche imposte dall’uomo, un occhio svuotato di tutti i precetti di logica compositiva, che non risponde a nessuna regola prestabilita, ma anzi si relaziona a ogni oggetto in cui si imbatte, e ha come unico strumento l’avventura percettiva.” Oggi la sperimentazione sonora è molto più accessibile sia ad artisti che pubblico, anche in termini di strumentazione tecnica e software. Che ne pensate della transizione da analogico a digitale? “L’opera d’arte, perciò, non è né originale, né imitazione, né rappresentazione. È un simulacro, cioè parte di una serie che non può riferirsi a un punto di partenza originario.” “I segni non servono a comunicare, ma ad apprendere percezioni e sensazioni alle quali possiamo essere soggetti.” Che opinione avete di quella fetta di scena industrial strettamente connessa agli estremismi di destra? Un prodotto definibile underground e sperimentale oggi può assumere numerose forme, specie se messo a contatto con il pubblico. Solitamente prevede una peculiare fruizione di spazi e infrastrutture, che hanno bisogno di essere in giusta simbiosi con la musica e la sensibilità di chi assiste. L’obiettivo, secondo me, è il raggiungimento di una speciale comunione di sensazioni ed emozioni. Che evoluzione ha avuto questo processo negli anni, secondo la vostra esperienza? “La vera funzione della fantasia è fornire all’immaginazione un terreno fertile in infinita espansion, nonché soddisfare esteticamente la sincera e ardente curiosità e senso di stupore, che la minoranza sensibile di umanità prova verso i seducenti abissi dell’ignoto. Questi, e altre entità indefinite, con la loro pressione contrastano il mondo conosciuto dalle infinità di quello sconosciuto, con rapporti indefiniti tra spazio, tempo, materia, forza, dimensione e coscienza.”
L’immaginazione, intesa come la intendevano Coleridge e Blake, non si restringe a questo, ma è ben più ampia. Vede l’esistenza di qualcosa che sta sospeso tra la percezione interiore ed esteriore. Niente, dopo tutto, può esistere al di fuori della nostra coscienza. L’immaginazione precede la percezione, e si eleva al livello di visione. Si intromette nelle nostre percezioni “normali” e le sbiadisce, rivelandosi per quella che è davvero—sogni e ispirazioni se vissuta intimamente, visioni e fenomeni concreti, se estrinsecata. Vista da questo punto di vista, l’immaginazione non è passiva, un estro passeggero, o un costrutto mentale virtuoso. È qualcosa di più dinamico, appartenente a gradi di coscienza ben più profondi di quello che un essere umano può immaginare. Queste dimensioni si inseriscono da sempre nella nostra coscienza quotidiana, e ci ispirano, ci danno energia, ci iniziano. Il fenomeno dell’immaginazione che entra a far parte della coscienza è stato esperito da molti artisti creativi in ogni campo o modalità, e a ognuno corrisponde una data interpretazione e denominazione. Da una persona religiosa viene visto come la mano di Dio; da un poeta come la Musa, da un artista come creatività, da Jung come inconscio collettivo, dai maghi come entità sopra-umane o extraterrestri. Qualsiasi sia il termino con cui lo si voglia definire, alla coscienza umana è stata assegnata l’infusione di qualcosa che va oltre i suoi stessi limiti.
Avete ricordi particolari dell’Italia di quegli anni? Con chi eravate maggiormente in contatto? Eventuali aneddoti su live qui?
Ho grandi ricordi dell’Italia. Stile di vita, paesaggi, architettura, gente, cibo, tutto. Abbiamo vissuto nel Chianti, in Toscana, non troppo distanti da Firenze, in una vecchia fattoria in mezzo alle colline, e di fronte a un antico, meraviglioso, monastero. Poi ci siamo trasferiti a Milano dopo i problemi di Contempo, ma l’atmosfera era già molto diversa là. Eppure è stato tutto estrememante memorabile, sotto più punti di vista. Abbiamo fatto grandi concerti come come CDVA a Bologna e in Sardegna, e come TAGC al Museso di Arte Moderna di Prato. È stato tutto davvero fantastico, viverci per un discreto numero di anni ci ha permesso di vivere esperienza diverse e vederle con altri occhi, che altrimenti, da turisti, non avremmo mai potuto comprendere. Subito dopo essermi trasferito in Italia, ho lavorato perlopiù da solo, in collaborazione con label come Lustmords Side Effects, Musica Maxima Magnetica, Hyperium. È stato così che ho conosciuto Uwe di Atom, anche se come dicevo, preferivo starmene per conto mio. Ho anche avuto grandi input da mia moglie, all’epoca, e mi è stato tutto preziosissimo per sviluppare nuove idee. Vedo l’Italia come dimora spirituale, e ho ancora un sacco di amici là, che stimo e visito abbastanza spesso. Ah, certo, ho anche il mio grande amico TeZ, Maurizio Martinucci, il cui contributo nei DVA e TAGC è stato inestimabile. C’è pure Giancarlo Cotticelli, che organizza live nostri in giro e ci dà sempre una mano. Devo anche menzionare Panagiotis Tomaras, che in realtà è greco, e dirige e crea i nostri visual, altro membro essenziale della band. Tutti insieme siamo una grande unità, col desidero di esplorare ed espandere le fondamenta dei DVA.
Come classifichereste le diverse incarnazioni artistiche che hai/avete avuto nel corso degli anni? A partire dai The Future, ai Clock DVA, agli TAGC etc?
Il passaggio da The Future a CDVA e poi a The Anti-Group Communication è stato lungo e complesso, ma almeno per me il criterio di base era creare una longevità di lavori, con forme sempre diverse e individuali che rimanessero impresse in ogni tappa di questo sviluppo. Qualcosa che potesse essere percepito in ogni sua parte e che rimane fedele a suoni, concetti e visual con cui la gente si può identificare, a prescindere dalla strumentazione e dalla tecnologia. È la terza dimensione, qualcosa che sta al di fuori delle analisi, è intuitiva, ricercata e sviluppata attraverso la disciplina della pratica. E tutto questo si è perpetuato continuamente nel corso del tempo. Ad ascoltare ai primi 5 LP dei cofanetti Horology 1 e 2, tra i primi veri lavori che ho realizzato sia come individuo che come membro di un gruppo, emergono connessioni, spirito e germogli concettuali che sono ancora presenti nei successivi lavori di TAGC, in Digitaria, Test Tones e nella serie di registrazioni in Meontological Research, ma pure nei DVA con Thirst, Buried Dreams, Post Sign, Clock 2, etc. È questione di rimanere fedeli a se stessi e alle proprie idee e ispirazioni. Non a profitti materiali, ambizioni o egocentrismi. È un bisogno primario di esprimersi in prima persona, che se si connette positivamente al resto allora può pure raggiunge altre dimensioni. Sento che, come gruppo costituito da individui, portiamo i nostri talenti e processi creativi individuali sempre verso nuove forme di DVA. Abbiamo sempre quei nostri fondamenti e suggestioni che hanno sviluppato negli anni la nostra immagine attuale, rispettata e nostra costante ispirazione per le prossime sperimentazioni. I TAGC non sono affiliati a nessun sistema filosofico, paradigma epistemologico o comunità occulta, ma sono di certo ben più aperti a sistemi cognitivi individuali e a pensatori innovativi. Scienza, arte, psicofisica, musica, arte visiva, letteratura, ricerca e pubblicazione, sono le principali aree di interesse e questo mi autorizza a lavorare con in testa un gran numero di idee svincolate da stigmi e generi, ma anzi, in cerca di espansione. I DVA sono più focalizzati a esplorare i suoni e l’arte delle nuove possibilità sonore attraverso la tecnologia, intesa come sviluppo di software sempre più complessi e trasmissione di anima e spirito, che vanno ben oltre l’idea in sé di tecnologia e tecnica. Il nostro fine, in questo senso, è fondamentalmente semplice, ma anche complesso. Vogliamo connettere le emozioni umane, che sono l’essenza di ciò che siamo. Il nostro lavoro è pensato in una scala individuale, e deve offrire la possibilità di esplorare la vera natura di arte e suono. Grazie a questo è possibile aprire porte che si affacciano su nuove aree di esplorazione, sia per noi che per gli altri.
Foto di Leo Learchi.
Grazie mille Adi, ci vediamo a Berlino
Grazie a te, a presto!
Segui Sonia su Twitter—@acideyes