Minacce di sfratto e pasta al burro: come è stato crescere in una famiglia povera in Italia

Sono figlia e nipote di persone che fanno o sono alla costante ricerca di lavori manuali, faticosi e sottopagati, che si sono ritrovate a vivere in posti fatiscenti o in situazioni di una precarietà tale da chiedersi quanto ci avrebbe messo l’Enel a staccare loro la luce. Se però nella Sardegna dei primi Duemila e nel giro di amicizie dei miei genitori la nostra situazione era piuttosto comune e nemmeno così disastrosa, è stato quando ho messo il naso fuori di casa che mi sono resa conto che le differenze tra le persone che ho conosciuto e me sono abissali. Solo allora sono riuscita a mettere in prospettiva la mia infanzia e ho realizzato quanto fossi svantaggiata rispetto alla media.

Le prime due decadi della mia vita le ho passate in una cittadina della Sardegna, di quelle che si sentono più fighe rispetto all’entroterra ma bruciano di invidia per l’economia della Costa Smeralda, e sono stata una bambina a cui non è mancato niente di fondamentale.

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Per un certo periodo avevamo navigato a pelo appena sopra la famigerata soglia della povertà. Poi i proprietari dell’azienda dove lavorava mia madre hanno venduto e “licenziato” i “dipendenti”, e lei, che dopo la separazione si era occupata praticamente da sola del mio sostentamento, si è trovata senza niente. La “buona uscita” l’abbiamo consumata nell’anno successivo, mentre lei cercava inutilmente un altro “posto fisso”—la sovrabbondanza di virgolette serva a indicare la totale dimensione in nero di tutta la faccenda. Mio padre, artigiano e disoccupato a singhiozzi, ci dava un po’ di soldi quando poteva—e quando non ce ne dava, potevi star certa che proprio non ne aveva.

Dopo il licenziamento, mia madre ha portato avanti con discreto successo il corsus honorum della donna non diplomata sarda: cameriera, barista, pulizie ai piani degli alberghi, pulizia di scale, pulizia in case private, dog-sitter, badante. Alcuni di questi lavori li fa tutt’ora, in più oggi impartisce consigli e prassi salutari per la prevenzione delle piaghe da decubito e ha imparato qualche trucchetto per vestire i morti e fare in modo che mantengano una bella cera.

In totale, ha suppergiù quattro anni di contributi pagati.

Non è un numero a caso, sono argomenti con cui ho una erta dimestichezza. Già in seconda elementare, infatti, come ogni bambino della classe operaia, sapevo tutto del nostro reddito. Il privilegio di non sapere che il minimo che serve è tutto dentro un milione di lire, di non saper ricostruire entrate e uscite dei propri genitori, a me sembrava una manifestazione d’ignoranza e mi faceva sentire molto più grande di tutti quei mocciosi che avendo frequentato l’asilo privato leggevano e scrivevano da un anno prima di me.

Non riesco invece a quantificare quanto durante gli anni delle elementari la nostra situazione economica mi pesasse. Le cose che mi facevano sentire diversa erano piuttosto la separazione dei miei e il nostro sfrontato non partecipare alle attività della Chiesa. Ricordo che quando avevo circa otto anni la maestra si offrì di battezzarmi e pagare per il ricevimento, tutto pur di salvare la mia anima candida e indigente. Mia madre le disse gentilmente di limitarsi alle tabelline.

Per fortuna molte delle conseguenze pratiche del mio basso reddito a quell’età le trovavo risibili. Il fatto di poter partecipare a un numero risicato di feste di compleanno, spesso con regali inappropriati (scusa Elisa, so che quel pezzo di arredamento artigianale non era proprio nella Top Five dei tuoi desideri per gli otto anni), di non pagare la mensa e di avere solo uno o due grembiuli per anno non mi ha mai tediato più di tanto.

Con gli anni avrei realizzato che forse i segnali della nostra endemica crisi economica erano piuttosto nel costante pranzare dai nonni e nella prevalenza di menù quali caffellatte e biscotti o pasta al burro per i pasti rimanenti, ma al tempo le rinunce più tragiche rappresentavano oggetti materiali. Soffrivo per la mancanza di qualsivoglia giocattolo elettronico e anche per la resistenza di mia madre all’acquisto dello status symbol per eccellenza: L’ASTUCCIO A TRE PIANI DEGLI HAM HAM FRIENDS. Ma la differenza principale tra me e gli altri bambini, l’unica che si manterrà costante persino nella ben più popolare compagine di amichetti delle medie, era l’abitazione.

Nel primo anno di disoccupazione ci trasferimmo nella casa che amorevolmente chiamavamo “la scatola di sardine”. A distanza di molti traslochi, quelle stanzette basse e soffocanti mantengono il dubbio merito di aver contribuito in maniera decisiva allo svilupparsi del mio atteggiamento cifotico. Si trattava infatti di una mansarda infame, con il soffitto che arrivava a essere basso 80 centimetri e la metà delle pompe di calore non funzionanti, il cui permesso di abitabilità rimane, insieme al caso Pinelli e alle trattative Stato-Mafia, una delle più misteriose eredità della Prima Repubblica.

Ecco, permesso di abitabilità. Con usucapione, esenzione, graduatoria, canone annuale, adeguamento Istat, uno di quei termini che entrano prestissimo nel lessico di un bambino povero e sono il corollario necessario dell’atteggiamento mentale con cui si cresce da affittuari in un Paese in cui il 70 percento dei capi famiglia ha una o più case di proprietà. Del resto, come da copione, il mutuo è il sogno più grande di mia madre. Un miraggio, un’ossessione. Ovviamente se negli anni buoni vieni assicurata da giugno a settembre, e in quelli cattivi fai un monte ore ragguardevole ma completamente in nero, nessuno ti concederà mai e poi mai un prestito.

Ma questo non impedisce certo di continuare a sperare. Nel frattempo, la chiave è avere una visione chiara del mercato immobiliare e continuare a fare la domanda per le case popolari: se adesso chiedessi su due piedi a mia madre dove sia conveniente comprare terreni e case, in dieci minuti sarebbe in grado di elencarmi almeno tre località sperdute tra Sassari e Cagliari in cui acquistare piccole palazzine fatiscenti o oliveti con annesso capanno degli attrezzi da almeno 60 mq, per meno di 4 mila euro comprese tasse. Senza avere a disposizione uno straccio di connessione internet, né aver mai visto Osilo o Fonni di persona.

Un altro oggetto del desiderio tipico delle famiglie a basso reddito sono le case cantoniere, siano esse da occupare o richiedere al Comune. E a proposito di occupazioni, quando avevo circa dodici anni per un po’ abbiamo ventilato di andare a vivere in un tribunale abbandonato. Non abbiamo rotto noi i sigilli: l’avevamo solo tirato a lucido e stavamo iniziando a progettare il trasloco. Non se n’è fatto niente per l’irrazionale paura che la procedura di tira e molla con polizia e minacce di sfratto che ne sarebbe seguita potesse attirare su di noi le attenzioni dei temutissimi assistenti sociali. Così oggi lo stabile, con tre stanze da letto enormi e finestre da tutte le parti, se lo gode una famiglia più temeraria.

All’epoca ero alle medie, nel mezzo della mia fase secchiona-legalistica e mi vergognavo di raccontare che stavamo per occupare. Non credo di averlo mai confessato a nessuno dei miei compagni di classe, nonostante fossimo tutti sulla stessa barca, una massa di casi da libro Cuore incontra Narcos. Infatti, non è stato fino al liceo che ho avuto il primo, duro impatto con il mondo dei ricchi.

Se sono riuscita a navigare tra quegli anni di disagio e spaesamento in cui mi sentivo diversa dai miei compagni, probabilmente è stato per la scoperta della politica—che aveva reso ai miei occhi l’essere povera come una cosa eroica, e su cui riversavo rabbia e progetti rivoluzionari, condita da un repertorio di canzoni che neanche sulle montagne coi partigiani. Ma il mio manifesto socialismo non cancellava certo lo stigma e la prima volta che invitavo qualcuno a casa, lo sguardo allarmato verso il divano di recupero ci scappava sempre.

Mi sembrava che tra me e i miei compagni più benestanti ci fosse un abisso, e ci ho messo anni a realizzare che, anche quelli che sembravano più ricchi, facevano parte di un larghissimo spettro di classe media che abita la Sardegna, che fa sì che la differenza tra le prospettive future mie e dei miei compagni alle medie e quelle dei “ricchi” sardi non siano poi tanto diverse. L’unica differenza sostanziale è che qualcuno riuscirà a lavorare in ospedale o a scuola, dopo un cospicuo numero di stagioni fatte non ai tavoli del bar di qualcun altro, ma agli stand culturali dei festival del Cinema o al ristorante del babbo o in infiniti tirocini formativi. L’unica eccezione è rappresentata dai figli dei palazzinari, che delapideranno e basta.

Mi sono diplomata con 96 nel 2012, ma già da tempo sapevo che una volta finito il liceo avrei lasciato la Sardegna e sarei andata a studiare in qualche altra città. Sono finita al nord, campata in tutti i buchi lasciati dalla combo borsa di studio + casa dello studente + mensa e tanta pasta al tonno.

All’università le carte si sono ulteriormente mischiate e oggi, che ho fatto addirittura un Erasmus e in famiglia ho la nomea di donna che ha visto il mondo, non me la passo male. L’università mi copre quasi la totalità dell’anno accademico: i 5000 lordi tra servizi e contanti, se sei davvero tirchio e compri la birra al supermercato piuttosto che agli eventi, riesci a farli durare più o meno dieci mesi. Quello, più qualche risparmio e mancia per le feste comandate, mi danno l’illusione di essere addirittura autonoma.

Non che la mia situazione sia così prospera, ma neanche disastrosa. La distanza rimane marcatissima con la maggior parte dei miei colleghi in facoltà, che pare cresciuta a pane e abbonamenti alla stagione lirica, nella convinzione che la rinuncia più grande che si possa sopportare sia spostare di due settimane la vacanza. La cosa divertente è che probabilmente un domani guadagneranno un quarto di quello che fanno i loro genitori piccoli industriali, ma tirandosela molto di più.

In sostanza, potrei riassumere che tra gli italiani di solito mi trovo ancora nel fondo del barile, insieme a tutti quelli di cui parla il rapporto Caritas di qualche settimana fa—anche se poi a cena arriva la ragazza albanese che fa tre lavori e riesce anche a stare dentro i parametri di merito della borsa di studio e tu ti senti una parassita nullafacente.

Oggi il mio bagno è tre volte quello di mia madre, ho una camera tutta per me, e per fortuna ancora qualche esame da dare per finire la magistrale, per cui posso permettermi di non pensare a cosa farò una volta che il mio percorso di studi si sarà concluso. Non che la cosa mi preoccupi più di tanto: quando, negli infiniti aperitivi tra laureati in materie umanistiche si celebrano canti funebri per le nostre speranze lavorative future e ci si spaventa a vicenda con storie terribili riguardo TFA, internship e graduatorie, partecipo con veemenza, ma sono meno preoccupata degli altri. La paura del futuro era già nel mio DNA, insieme alla sicurezza che in qualche modo si sopravvive comunque.

*Il nome dell’autrice è stato cambiato.