La ricetta risale al XV secolo.“Lo chiamavano pane dei ricchi”, poiché nell’impasto originario si aggiungeva del “pepe”, una spezia che solo i nobili all’epoca potevano permettersi
“Tavolo 5, con il papà,certo che mi ricordo,” mi scrive Luca Donninelli, quando gli mando un messaggio su Instagram. L’ho incontrato nel lontano 2016, quando portai mio padre a mangiare dal pluripremiato ristorante Relæ a Copenhagen (adesso chiuso N.d.R), città in cui abitavo all’epoca. Luca ci aveva servito, e mi aveva salvata, spiegando per filo e per segno a mio padre, che non parla una parola di Inglese, quello che stavamo mangiando.
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A differenza di me, Luca a Copenhagen ci è rimasto, lavorando fino al 2020 nel ristorante di Christian Puglisi, e adesso cimentandosi con la testarda idea di portare la Crescia, uno street food tipico della sua regione, le Marche.
Anche per alcuni italiani questo piatto è quasi un mistero e pochi ne hanno sentito parlare. Se lo cercaste su qualsiasi motore di ricerca, direste “Ma è solo una piadina romagnola”. Invece no. Questo panificato farcito tipico marchigiano ha una preparazione molto più complessa: richiede infatti una doppia lavorazione e qualche ingrediente in più.
La ricetta risale al XV secolo.“Lo chiamavano pane dei ricchi”, mi spiega Luca, poiché nell’impasto originario si aggiungeva del “pepe”, una spezia che solo i nobili all’epoca potevano permettersi. E qui c’è già una differenza importante.
Il secondo elemento che contraddistingue la crescia è che non è un disco di pasta compatto. Durante la sua preparazione e fase di riposo, l’impasto viene attorcigliato in una chiocciola, assomigliando molto ai “kanelsnegle”, le famose chiocciole alla cannella (cinnamon rolls) che i danesi si mangiano a colazione e merenda. L’’impasto viene poi appiattito, conservando però la sua struttura multistrato, da qui il nome “crescia sfogliata”.
La grande magia é dovuta a un ingrediente e al suo utilizzo: lo strutto, per cui uno strato viene aggiunto durante una prima stesura dell’impasto, quando si arrotola, e nella seconda. È anche per questo che Luca ha deciso di chiamare il suo account Instagram e il suo business: “Strutto”.
Nato a Jesi, provincia di Ancona, Luca ha cominciato con la ristorazione stagionale estiva, facendo poi il percorso che molti del settore facevano agli inizi degli anni 2000: tappa a Londra. Lì ha iniziato a masticare l’inglese e si è appassionato di vini, diventando sommelier e lavorando per gli stellati Baglioni, ritornando negli stellati a Padova da Le Calandre dei fratelli Alajmo.
Il capitolo scandinavo inizia di fatto nel 2014 con una ricerca su Google: “Ho fatto tre prove da Relæ, Kokkeriet e Geranium”. Ha scelto il Relæ: “La formazione è stata radicale, mi ha aperto gli occhi al mondo della ristorazione,” mi dice Luca, che ora non sarebbe più in grado, a suo dire, di tornare alla cucina convenzionale. “È per me importante creare un prodotto partendo da materie prime, di cui conosco la provenienza. Molti ristoranti si affidano a grandi catene di produzione. Non c’è mai una trasparenza completa”.
Già da qualche anno Luca stava pensando di lanciarsi portando la piadina in Danimarca: “Era ormai diventata la mia cena tornando dal lavoro e non ci sono piadinerie a Copenhagen,” dice. Con il lockdown e l’imminente chiusura del ristorante di Puglisi, ha deciso di lanciarsi. Durante il primo e secondo lockdown in cui il settore ristorativo aveva chiuso i battenti, Luca si è sporcato le mani e con la sua ragazza ha iniziato a prepararsi cresce a volontà, postando delle foto sull’account. Sono partiti dalla ricetta della nonna di Cecilia, anche lei marchigiana che lavora nella panetteria Hart Bageri, famosa per il suo pane al lievito madre e il rugbrød, il pane nero che i danesi mangiano sempre.
La formula studiata su misura si basa su quella vincente del Relæ: solo ingredienti di qualità, attenzione alla sostenibilità e diretto contatto con i produttori. Per le sue cresce utilizza farine biologiche danesi e marchigiane, facendosi arrivare anche tutti i prodotti per la farcitura da fornitori italiani. Lo strutto è di casa in Danimarca, paese che conta più maiali che persone, ma di cui solo una minima parte è allevato in modo sostenibile: “Noi ci forniamo da Hindsholm Grisen, lo stesso di Baest (NdR: per anni considerata migliore pizzeria in Europa, adesso quinta, anch’essa parte del gruppo di Puglisi). “Ne usiamo quasi 100 kg al mese,” mi dice, e io mi immagino un blocco gigantesco di grasso precipitarsi nel centro del suo appartamento..
E tramite Instagram che ha lanciato il suo progetto: “Giovedì lancio le cresce e ve le porto a casa,” aveva scritto Luca in una story di Lunedì, quasi per gioco. In una giornata ha ricevuto oltre 50 ordini. “Non avevamo nulla in casa,” ha detto, ma ha mantenuto la promessa organizzandosi e sfornando oltre 50 cresce nella cucina di casa sua. Ha continuato così per oltre due mesi, pedalando su e giù Copenaghen portando le cresce ai suoi clienti. Poi qualcuno ha voluto crederci, dando un piccolo spazio e un’opportunità a questo street food italiano, facendolo passare dal delivery al take away.
Luca si è arrangiato come ha potuto, ottimizzando gli spazi del due metri quadri per due che gli sono stati concessi nella nuova Broens Gadekøkken ( “la cucina di strada del ponte”), l’area riservata allo street food, proprio a due passi dal centro, dove uno dietro l’altro si susseguono bancarelle di fish & chips, dim sum e burgers.
La macchina per impastare si trova sotto la cassa, muovendosi sinuosamente per mescolare gli ingredienti dell’impasto. C’è anche una macchinario per stendere le sue chiocciole che non ho mai visto prima, ma che a detta di Luca e non è stato difficile trovare: “Qui queste macchine le usano tutti i ristoranti che fanno kebab,” dice. Così le girelle si appiattiscono, e passano direttamente sulla piastra, dove crescono di volume, si gonfiano, scuriscono, ma la spirale della chiocciola lascia il suo marchio e linea ricurva, come le righe del palmo di una mano-
La farcitura è ovviamente molto importante e Luca non ci va leggero con gli ingredienti. Quella tradizionale è farcita con stracchino, rucola e tanto tanto prosciutto di Parma. Nel suo menu compaiono solo poche alternative, ma ben studiate: mortadella, stracciatella e pomodori secchi, e anche il ciauscolo, il salame tipico marchigiano, accompagnato da del pecorino. Io mi sono ripromessa di smettere di mangiare carne, ma assaggio comunque una fetta di ciuscolo, mai provato in vita mia, e scelgo di di provare una crescia sfogliata tradizionale. No, confermo: non è assolutamente una piadina.
Ovviamente la comunità italiana a Copenghen è stata di supporto, sopratutto i marchigiani che qui si ritrovano, ma che di fatti non trovano da nessuna parte la crescia. Rimane difficile competere con le altre bancarelle nello street food, che propongono piatti molto più conosciuti, ma con il senno di poi, qualche timido danese si prende la briga di uscire dalla sua “comfort zone” creata dai burger e tuffare i propri denti tra gli strati della crescia: “Anche qualche turista si è incuriosito, dicendoci che questa era l’unica opportunità di gustare la crescia, di cui non avevano mai sentito parlare,” dice Luca.
“Mi fa piacere vedere René Redzepi passare da qui e apprezzare la mia creazione,” dice Luca, che spera di aprire un locale un pochino più grande nel centro di Copenhagen, per dare ai danesi l’opportunità di accompagnare alla crescia anche qualche cocktail. La cittadella dello street food di Broens Gadekøkken rimarrà aperta solo fino a Ottobre, dopodichè ci sarà tempo per pensarci e di far conoscere a più gente possibile la bontà della crescia marchigiana.
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