Politică

Non è 'solo uno stand al Salone del Libro', è tutto il paese

A chi dice che la polemica sul Salone del Libro di Torino è "fascismo degli antifascisti" o "tutta pubblicità per Altaforte."
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Torino-Fiera_libro
Foto via Wikimedia Commons (CC BY SA 2.5).

In questi giorni, ve ne sarete sicuramente accorti, sta tenendo banco un’enorme polemica sul Salone Internazionale del Libro di Torino e sulla presenza della casa editrice di CasaPound (che non è “legata a” o “vicina a”; è proprio di CPI) Altaforte Edizioni.

Il tutto è partito da un post su Facebook dello scrittore Christian Raimo, poi dimessosi dal comitato editoriale del Salone; e in seguito si è alimentato con la presa di posizione—tra gli altri—del collettivo Wu Ming, dello storico Carlo Ginzburg, della giornalista Francesca Mannocchi e del fumettista Zerocalcare, che hanno cancellato i propri eventi e motivato il loro rifiuto a partecipare.

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Ieri inoltre è intervenuto il Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, che in una lettera ha scritto: “Non si può chiedere ai sopravvissuti di condividere lo spazio con chi mette in discussione i fatti storici che hanno portato all’Olocausto, con chi ripropone una idea fascista della società.”

Altri—tra cui la scrittrice Michela Murgia e case editrici come Alegre, minimum fax o Red Star Press—hanno annunciato la loro presenza, seppur in forma critica. Anche Roberto Saviano ha fatto sapere che parteciperà, perché “non mi hanno spaventato i boss casalesi, figuriamoci una casa editrice di destra che publica interviste al #MinistroDellaMalaVita. Voglio dire altro e cioè che la presenza fisica serve a dare più forza alle proprie parole.”

Dall’altro versante, si sono rispolverate le consuete parole d’ordine, del tipo: è la solita “lista di proscrizione comunista”; le idee cattive si battono solo con le idee buone, senza “mettere al bando” nessuno; l’immancabile “fascismo degli antifascisti”; e il sempreverde “ma così fai il loro gioco!”, visto che parlando di una casa editrice sconosciuta “gli si fa solo pubblicità.”

Tralasciando le accuse di “censura,” che ovviamente non stanno né in cielo né in terra, quest’ultima posizione—fatta propria da Pierluigi Battista ed Enrico Mentana—porta con sé un grosso malinteso: ossia che Altaforte sia sostanzialmente irrilevante, e quindi inoffensiva. Sì, magari pubblica testi che non ci piacciono, dicono, ma chi siamo noi per sconfessare il vecchio adagio di Voltaire che Voltaire non ha mai detto? E poi il loro stand è di appena 10 metri quadrati, suvvia, è più piccolo di un’edicola!

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Ora, forse è sfuggito un fatto molto semplice: Altaforte di fatto ha già occupato uno spazio nel mainstream; e non in questi giorni, ma da un bel pezzo. È una rete che gode di favori e appoggi istituzionali, ed è ben integrata nel sistema mediatico italiano—al punto tale che diversi suoi autori vanno regolarmente in televisione, a inondare i talk show di propaganda governativa nella veste di “esperti,” o sono coccolati dalle radio “anti-conformiste” di Confindustria alla ricerca bulimica di sparate.

Lo stesso discorso vale anche per alcuni collaboratori della testata di CPI, Il Primato Nazionale, che scrivono su giornali di destra e partecipano regolarmente a kermesse neofasciste senza dover mai rendere conto a nessuno. Anzi: non appena si fa notare questa vicinanza, scatta il marchio di “censore” fuori dal tempo—siamo nel 2019, ancora a fissarvi con ‘sto fascismo?

La rimozione di questa evidenza, di converso, si accompagna a un approccio ottusamente legalista e burocratico. Dopotutto, si candidano alle elezioni; quindi non violano nessuna regola formale, ed è la democrazia stessa a legittimarli. Per sconfiggerli, insomma, basta confrontarsi sul “mercato delle idee,” dove saranno distrutti dai fatti e dalla logica. Questo è il ragionamento di alcuni giornalisti famosi recatisi qualche tempo fa nella sede di CasaPound per “dibattere” e sgomberare il campo dai “pregiudizi” che ancora gravano sui “fascisti del terzo millennio.”

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Ed è pure la stessa scusa utilizzata dall’organizzazione del Salone. Qualche giorno fa un comunicato citava la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993 (che puniscono apologia del fascismo e odio razziale), dicendo che “è indiscutibile il diritto per chiunque non sia stato condannato per questi reati di acquistare uno spazio al Salone e di esporvi i libri.” Insomma: ci spiace un sacco, ma non possiamo farci nulla.

Peccato però che non sia mai così; né fuori, né tanto meno in questo caso. Il titolare della Altaforte Francesco Polacchi—militante di CPI e proprietario del marchio d’abbigliamento Pivert—ha un lungo curriculum giudiziario di pestaggi e violenze. E il prossimo venerdì dovrebbe essere contemporaneamente al Salone e al tribunale di Milano, in un processo che lo vede indagato per aver “aggredito a calci e pugni” due uomini intervenuti a difesa di una persona insultata con frasi razziste.

I motivi burocratici e giuridici per non concedere quello spazio ad Altaforte (e pure ad altre case editrici neofasciste) ci sono sempre stati, sin dall’inizio. E comunque le leggi arrivano fino a un certo punto, specialmente quando non sono applicate; trincerarsi dietro i cavilli, dunque, occulta ben altri problemi.

Anzitutto, ci sono i tentennamenti e l’opacità dell’organizzazione di un grande evento come il Salone, che non verranno di certo cancellati dal tardivo esposto nei confronti di Polacchi per “apologia di fascismo” dopo l’intervista in cui ha rivendicato di essere fascista.

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E poi c’è quello politico, il più grosso: ed è la progressiva estremizzazione della destra italiana, di cui CasaPound non è chissà quale mostro avulso e isolato. Si tratta di un processo che è in corso da almeno due decenni, e che Salvini ha portato avanti inglobando tutti gli elementi più marginali e radicali. Per utilizzare un’immagine concreta, basta dire che ormai non c’è più alcuna differenza tra quello che può dire un militante del Veneto Fronte Skinheads e il ministro dell’interno.

Proprio per questo, il dibattito deve andare ben oltre la situazione contingente del Salone del Libro e della relativa questione “andare o non andare”—anzi, bisognerebbe proprio evitare questa contrapposizione, che è inutile e dannosa. Del resto, è il contesto generale a contare; e la presenza di Altaforte al Salone è solamente il sintomo di un cambiamento profondo nella società italiana.

Come ha giustamente detto Francesca Mannocchi, “il nostro paese non è il paese di dieci anni fa, di venti anni fa. È il paese dei grembiuli, delle armi, dei balconi.” Sono i quartieri di Roma, come Casal Bruciato, in cui “cittadini esasperati” e fascisti si scagliano contro una famiglia assegnataria perché rom, nella totale impunità. Ed è il paese in cui passa come assolutamente normale il fatto che un ministro dell’interno pubblichi un libro-intervista con una casa editrice fascista, senza più alcun bisogno di “mascherarsi dietro editori rispettabili.”

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Questa è la cosa più preoccupante: non ci sono strategia occulte, o sofisticati raggiri; è tutto alla luce del sole.

Per questo, è assolutamente salutare che sia scoppiato questo putiferio intorno al Salone. Chiaramente, esistono diverse sensibilità e ognuno si oppone come meglio crede, in base alla propria storia personale e collettiva. Nulla, del resto, vieta che lo sciopero (che non c’entra nulla con l’Aventino) e la protesta dall’interno non possano essere complementari.

Il punto cruciale è contrastare questa normalizzazione con ogni mezzo possibile, senza troppi distinguo e in ogni luogo. E lo si fa anche trasformando il Salone in un campo di battaglia politico e culturale.

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