Música

Il metal non è morto, è solo diventato techno

Fino a poco tempo fa avevo la percezione di questi anni Dieci come assolutamente poveri dal punto di vista della musica heavy. No, non è colpa di una prospettiva eccessivamente hipster sul fenomeno, ma di un disamore dato dal progressivo impigrirsi di tutta una comunità. Non è nemmeno una constatazione fatta a cuor leggero, credetemi. Sono anzi abbastanza sollevato di essermi accorto che, in un certo qual senso, non era così.

Stabiliamo anzitutto di che parlo quando dico “musica heavy”. Non è un concetto semplice da rendere ma ci proverò. Anzitutto è importante stabilire che si tratta di un’idea bastarda, di un concetto trasversale che attraversa e circonda un grosso calderone di suoni, la cui varietà è assolutamente figlia dei cambiamenti culturali di quest’epoca. Più di ogni altra cosa, a mutare negli ultimi anni sono state le prospettive, gli occhi con cui si guarda soprattutto al passato: ecco appunto che si può parlare di una grossa macro-identità dove un tempo c’erano un sacco di compartimenti stagni. Per “Musica Heavy” si intende quindi un insieme che comprende le forme base di metal e hardcore punk, e tutte le forme ibride in cui queste ultime si sono ricombinate nel corso degli anni.

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È un insieme, come dicevo, che esiste solo grazie alle prospettive che abbiamo ora sulla cosa, che ci permette di dare tanta importanza alle zone grigie che nessuno vent’anni fa si stava necessariamente inculando, e a collegamenti estetici che era più difficile notare. Ad ogni modo, un trait d’union universale tra tutto quello che finisce dentro al recinto può essere la semplice necessità di sviluppare un discorso musicale basato sulla “pesantezza” emozionale prima che concettuale, sulla coppia “violenza”-“potenza” (l’una inseparabile dall’altra) come portatore di una intensità viscerale e spirituale, per quanto più o meno raffinata, più o meno rozza, più o meno incasinata o più o meno limpida a livello espositivo. È roba quasi sempre fatta con strumenti elettrici a corda, semplicemente perché “le chitarre” (o “le chitarrone”) sono il significante perfetto della potenza e della violenza di cui sopra. Mi sentirei quindi di escludere, ad esempio, certa roba che al metal ci arriva per motivi “sbagliati” e con presupposti che finiscono per spurgarlo di tutta la pesantezza. Se serve che ve lo spieghi, parlo dell’hair metal, dell’hard rock da FM e del power metal più popposo. Mi interessa comunque concentrarmi più su quello che sta dentro che su quanto ho estromesso.

Contrariamente ai cliché (e contrariamente a quello che vorrebbero molti ascoltatori, soprattutto metallari), la musica pesante non è per niente un territorio conservatore. O almeno: non lo è stato per un sacco di tempo, ne è la prova proprio la difficoltà che trovo io stesso a darne una definizione e una delimitazione più chiare che credibili. Diciamo che in più o meno quaranta anni di storia recente, l’istinto di cui palavamo ha trovato manifestazioni davvero eclettiche ed evoluzioni di tutti i tipi. Personalmente ho sempre trovato un valore aggiunto quando questo istinto si sposa con una certa concretezza, un “realismo” che non mette da parte intenti più fantasiosi, ma che comunque resta sempre su questioni autenticamente umane e non la mena troppo con evasioni nerd-fantasy. Evitando pure le pose machiste che servono a compensare la sfiga di quella stessa evasione. Un retaggio sicuramente più post-hardcore che altro.

E, appunto, il panorama heavy globale mi sembrava in crisi nera proprio perché mi pareva venuta a mancare un po’ ovunque una capacità di riaggiornare quella stessa intensità in una maniera coerente coi tempi. Ogni sfumatura di quel mondo mi sembrava starsi ripiegando su se stessa in maniera un po’ ignorante. Si veniva forse da un decennio (più o meno tra il 2001 e il 2011) in cui la sbornia di musica metal e hardcore “nuova”, cioé basata su elementi almeno apparentemente innovativi, era stata bella pesante. Eppure sarebbe abbastanza stupido giustificare la stagnazione di un intero modo di intendere la musica con un semplice spostamento di gusto generale. Del resto, non c’era davvero mai stata prima d’ora un’epoca priva del suo metal. Ho comunque capito che non era così quando ho ascoltato per la prima volta Always Offended Never Ashamed, il nuovo album di Samuel Kerridge, che inaugura anche il suo neonato marchio discografico Contort.

Se,, infatti, in questi primi mesi del 2015 è uscito un album metal, è sicuramente quello. Non lo intendo ovviamente in senso letterale, anzi. Se lo avete ascoltato, vi sembrerà abbastanza ovvio che, da un punto di vista strettamente filologico, l’album va ricondotto molto di più alla tradizione post-industrial, al power electronics marchiato Broken Flag, alla disperazione cancerosa dei Brighter Death Now, nella classica asfissia psichica alla Godflesh. A livello strettamente musicale, quindi, Always Offended… sta immerso dall’inizio alla fine nel continuum post-industriale.

Come se non bastasse, viene da un producer e DJ ancora inquadrato dai più come appartenente al mondo della techno, quantomeno a livello di radici sue e delle label su cui sono usciti i suoi primi lavori (Horizontal Ground e Downwards). E quindi? Cazzo c’entra il metal? C’entra, nella stessa misura in cui c’è entrato per gente come Sunn O))) e Wolf Eyes, ovvero le due band che più di tutte hanno fatto “il metal” dei primi dieci anni del 2000 senza tecnicamente suonare metal.

Per entrambe le band, infatti, gran parte del discorso musicale era consistito nel prendere un mucchio di elementi estetici fondamentali (musicali, ma pure extra-musicali) e ingigantirli, dilatarli fino all’inverosimile, con un’attitudine che qualcuno ai tempi chiamava “d’avanguardia”, ma che in realtà era solo figlia di una scimmia pazzesca per un certo tipo di musica. Entrambe le band (e tutti quelli che li hanno seguiti) sentivano quindi il bisogno di glorificare al massimo quello che amavano del metal, fossero anche elementi minimi o del tutto superficiali, rifacendolo con mezzi che prendevano in prestito da mondi sperimentali con cui questo apparentemente non comunicava. Nel caso dei Sunn O))) si trattava di prendere finalmente sul serio carattere rituale e la spiritualità oscura e cialtrona di tutto quello che sta tra doom e black metal, di venerare l’idea stessa di pesantezza e feedback dentro il linguaggio del minimalismo. Per i Wolf Eyes, invece, era tutta questione di riappropriarsi di un segno di ferocia pura in chiave magari vagamente ironica, ma sempre sinceramente appassionata e brutale. Metallo riforgiato nel disumanesimo operaio di Detroit, suonato con macchinette autocostruite da dei freak che vivono in una roulotte, appaiato allo spirito free-improv “brutto” e primitivista degli anni Novanta.

La storia di Kerridge è leggermente diversa, non gli interessa tanto giocare coi cliché dell’estremismo sonico, tranne forse nei titoli del precedente A Fallen Empire, tra cui spiccava proprio una traccia chiamata “Heavy Metal”. Soprattutto mi pare sia importante per lui fare musica con un mood che contenga pura e semplice pesantezza, oltre ogni idea di genere, anche quelle metatestuali alla Sunn. Renderla quasi astratta, se mai qualcosa del genere fosse possibile. Tutto il disco suona come una muraglia di potenza accecante e densa, energia di resistenza a un vuoto completo, elementale ed elettronica. Un po’ come dichiarò una volta Justin Broadrick a proposito della sua musica: “volevo prendere solo la disperazione del metal e portarla fuori dalla struttura del genere.”

Ecco, i Godflesh stessi sono stati una vera e propria chiave di volta per l’idea di contaminazione nel metal. E, per l’appunto, oggi non vengono più visti come la chimera che parevano rappresentare un tempo per la maggior parte del pubblico, dato che è molto più semplice ricostruire quell’ampia rete storica di discendenze e affinità che ha formato il loro suono, eppure restano emblematici in quanto metal band non-metal. Più metal del metal, addirittura, capaci di trovare una forma sintetica e molto più consistente di heavy music che ricercava quella stessa brutalità nei beat dinamitardi dei Public Enemy e nel basso pesante del dub più annebbiato, restando comunque una metal band per approccio. Molto meno canonica di quanto la controparte americana Ministry sia mai stata, ma comunque una metal band.

Allo stesso modo, anche l’approccio di Kerridge e di tanti altri che si sono impegnati in percorsi simili al suo è piuttosto “metal” o quantomeno “heavy”, soprattutto dal momento che nel loro suono non sussistono più gli elementi de-strutturanti e dissacratori dell’industrial classico, ma neanche la purezza no-fi dell’underground a seguire. A questo, il momento storico unisce la—oramai—compelta normalità del processo produttivo elettronico: oramai ben lontano dai tempi in cui era uno statement preciso, è anzi diventato norma. Paradossalmente, anzi, a rendere “metal” il suono di Kerridge è proprio la sua esperienza sul dancefloor: lì ha imparato a sfruttare in maniera efficace l’impatto e il trasporto viscerale tramite volume e dinamica. Interessante notare anche che è proprio sul dancefloor che sembrano ritrovarsi praticamene tutte le esperienze musicali più interessanti degli ultimi anni, forse per un mero bisogno di sostituire il groove rock disperso con un equivalente libidinale elettronico. Questo anche alla luce del fatto che i cambiamenti tecnologici e relazionali stanno praticamente imponendo a chiunque voglia fare musica di lavorare da solo nel proprio studio, o al limite in duo. Questi cambiamenti stanno finendo per rivoluzionare il dancefloor molto più di quanto non stiano dancefloorizzando (chiedo scusa) il resto della musica.

Viene da chiedersi, infatti, come muoversi, dato che stiamo comunque attribuendo tantissima importanza alla risposta del corpo. Una riforma dello spazio del club passa anche per questo, e ce ne sono già vari esempi in giro. Ecco, un altro grande “metallaro” dell’elettronica di oggi è sicuramente Vessel, specialmente in sede live: di lui, durante un’intervista, Visionist mi ha detto che è molto evidente il suo “background rock”, anche nella maniera in cui si muove quando suona. Headbanging selvaggio su un suono che parte dal dub britannico (senza mai dimenticarne la lezione) per trasformarsi in un assalto di lamiere serrato ed epico. E tutti i discorsi sulla presenza fisica del performer che ha fatto in questa intervista vanno a finire lì. Altri che si stanno muovendo in direzione simile (una strada che negli ultimi anni è stata illuminata, è importante dirlo, soprattutto dalle malinconie doomy dei Raime e dalla potenza di fuoco di Pete Swanson) sono sicuramente Stave, Oake, Shapednoise e, in una certa misura, anche Untold e Paula Temple. Lo stesso Stephen O’Malley dei Sunn O))) ha mostrato interesse per mutazioni post-techno nel progetto che ha messo su con Mika Vainio, Äänipää.

In effetti quello che la musica heavy ne ha, almeno apparentemente, perso in fisicità spicciola lo guadagna in potenza omnidirezionale. L’uso delle potenzialità offerte dallo spazio del club “da ballo” rivela risvolti aggiuntivi a quella stessa pesantezza, liberandola da quegli stessi rischi caricaturali che già i Wolf Eyes o gli Hair Police avevano esorcizzato sublimandoli. Scompaiono anche parte dei rischi machisti che avevano trasformato le chitarre in significanti di virilità. In qualche modo, in tutta questa ondata di producer—e soprattutto in Always Offended Never Ashamed—si porta avanti quanto seminato a loro tempo da band “heavier than metal” come Swans e Skullflower: la violenza affermativa di un suono che prescinde dalla fissa per gli elementi “tecnici” di certe parti del corpo (tradizionalmente maschile) per tornare alla totalità del corpo stesso (oramai maschile e femminile insieme), filtrato dall’elettronica e riassemblato dall’altra parte dell’impianto. Un rimbalzo di emotività che distrugge audience e performer in maniera equivalente, senza cazzate, senza pietà.

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