“È come se fossimo in grado di plasmare noi stessi dalle punta delle nostre dita.”
Viviamo nell’era digitale. Il che significa che Internet e i social media non sono solo una parte del nostro spazio virtuale, ma anche questo spazio è una parte di noi. La producer svizzero-italiana IOKOI gioca in quel territorio. Le sue tracce parlano proprio delle infinite possibilità di auto-modulazione e manipolazione di cui oggi disponiamo. Il suo nuovo singolo, di cui vi presentiamo il video, si intitola appunto BODY/HEAD e uscirà il prossimo 6 maggio per l’etichetta di Zurigo -OUS di cui IOKOI è co-fondatrice.
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Prima di leggere la sua intervista, eccovi il video di Body/Head, di cui i registi ci hanno detto:
Partendo dal concetto di liquefazione, abbiamo scelto di accostare la freddezza dell’alta definizione a un’anima analogica, proiettando queste riprese perfette e digitali sull’acqua, liquido fisico e incontrollabile. Soggetto: una colata di liquido “irreale” multicolore su una statua di carne, Iokoi. Oggetto: l’io, ostaggio statico fra realtà fisica e realtà virtuale.
Regia: MOUTH / DoP: Matteo Zoppis / VFX: Naro Watanabe
IOKOI vive tra la Svizzera e Milano, città a cui è affezionata da anni e che ha contribuito a influenzare il suo percorso. In quest’intervista parleremo di #HYPERCYBEREALISM e della scena di Milano, che sta cambiando e assumendo sembianze quasi interessanti.
Noisey: Ciao, partiamo dal concetto di corpo/testa—come descriveresti la relazione tra questi due elementi, nel momento storico in cui viviamo?
IOKOI: Penso che ci sia stato uno sbilanciamento, nell’era digitale. Quantomeno un cambio di prospettiva. A volte sembra che siano più disconnesse di prima, proprio ora che le connessioni sono sempre di più e sempre più importanti per noi. Vedo che stiamo diventando sempre più statici, che il nostro spazio fisico è sempre più costretto, a volte le nostre relazioni interpersonali ci paralizzano—mentre nello spazio virtuale ci dimostriamo molto rapidi e spavaldi anche al primo incontro. Qui traduciamo i nostri pensieri in movimenti—ma in realtà soltanto i nostri polpastrelli compiono dei micro-movimenti. Anche se ne abbiamo l’intenzione, probabilmente il grosso rimarrà in potenza e poco verrà messo in atto. Che poi non si tratta di sbilanciamento generale, penso sia più una questione che riguarda i nostri bisogni personali. Ognuno ha la propria percezione del sé nello spazio, virtuale o reale che sia, e ultimamente lo sbilanciamento ci porta più dalla parte della testa che da quella del corpo, di cui dimentichiamo le funzioni e forse perdiamo alcune sfumature del linguaggio puramente fisico.
Nel tuo nuovo video, sulla cover del tuo EP e anche quando ti esibisci live ci sono diversi strati—materiali o visuali—che si sommano al tuo corpo. Come mai fai uso di queste manipolazioni e modulazioni?
Comunicare un pensiero o una sensazione attraverso questi strati è sempre stato di vitale importanza per me. L’intento è sempre quello di manifestarmi, e la mia musica è solo una parte di questa esposizione. Non mi sono mai vista come una cantante, anche se la mia voce è il mio strumento principale. E poi a volte ho bisogno di starmene nell’ombra, forse perché non concepisco il mio lavoro come esclusivamente mio. È una parte di me—una proiezione emotiva, un’osservazione o una sensazione che posso sentire oggi e che domani se ne sarà andata o sarà diventata qualcos’altro.
Secondo te è giusto considerare i nostri smartphone, o qualsiasi prolungamento della nostra persona nel mondo virtuale, come parti del nostro corpo? Tu stessa citi il termine #HYPERCYBEREALISM.
Sì, penso che questi oggetti e quello che siamo online siano parte di noi, come dei pezzi aggiuntivi del nostro corpo. Mi piace usare il termine #HYPERCYBEREALISM: descrive perfettamente il modo in cui percepiamo una realtà aumentata che si sta fondendo e mescolando con la nostra realtà fisica. Il più delle volte vediamo questa realtà aumentata nello spazio virtuale che occupiamo proiettandovi il nostro “sé”, rischiando in questo modo di perdere il contatto con la nostra persona fisica—alcuni si perdono completamente. È come se la nostra vita virtuale fosse più intensa, se in quello spazio ci sentiamo di essere chi vogliamo e agire in maniera più libera, senza filtri. Lì ci sembra più facile reinventarci e ricreare noi stessi nella forma che desideriamo prendere. L’anonimato che la distanza effettiva dal virtuale ci garantisce ci permette allo stesso tempo di vivercela con più coraggio. È come se rinascessimo ogni giorno dalla punta delle nostre dita, come se fossimo in grado di plasmare noi stessi in una nuova forma. Per questo non è sbagliato considerare tutti gli oggetti che ci permettono di farlo come strumenti per estendere il nostro io. La parte difficile sta nel trovare un equilibrio nell’utilizzo di questi oggetti.
Quindi stiamo andando verso un’era in cui l’io è modulabile a piacimento?
Non la stiamo già vivendo?
Riparliamo del rapporto tra visual e musica—secondo te anche questa relazione sta prendendo nuove forme nell’era digitale?
È dall’epoca d’oro dei videoclip che i visual hanno cominciato a pesare qualcosa, ed ora sono sempre più centrali, anche grazie alle nuove tecnologie. Il modo in cui visual e musica si bilanciano varia a seconda della visione del singolo artista, a come si vuole rapportare alle infinite possibilità che la tecnologia ha da offrire. Non credo ci sia un modo giusto per bilanciare le cose, credo può essere fondamentale per un artista sfruttare il potenziale comunicativo dei visual per potenziare la propria comunicazione. Nel mio caso il canale audio e quello visual sono ugualmente importanti e anzi, l’uno non ha senso senza l’altro.
Come nasce OUS? E com’è nata la storia del tour in Cina?
La mia prima release su 7”, il singolo “Growing Young”, era uscita per la label di Zurigo Hula Honeys, gestita da amici. Un anno fa, con loro, abbiamo iniziato a parlare di iniziare insieme un nuovo progetto per cercare di abbattere alcune barriere concettuali, oltre che nazionali (ai tempi vivevo già anche a Milano). Così è nata -OUS: un’etichetta di cui, oltre a far parte, sono co-fondatrice. Il progetto del tour in Cina è nato in collaborazione con l’IOIC (Institute for Incoherent Cinematography Zurich). In pratica ho fatto il live-scoring di film muti per circa un mese a Pechino, Shanghai e Hong Kong insieme a 15 musicisti svizzeri e altri 5 musicisti cinesi. È stata un’esperienza incredibile e sono molto orgogliosa di averne preso parte.
Come hai iniziato a far musica?
La colpa è di un piccolo violino rosso della Fisher Price. È stato il mio primo incontro d’amore con la musica e me lo ricordo ancora molto bene.
Parliamo di Milano: probabilmente alcuni credono ancora che gli unici punti interessanti di questa città siano la moda e il design, invece c’è un bel panorama musicale, soprattutto ultimamente. Come ha influito sulla tua musica questa città?
La prima impressione che ho avuto di Milano quando mi ci sono trasferita è stata quella di una città vagamente superficiale, molto concentrata sulle mode. Non mi ci trovavo bene, onestamente. Poi però sono cominciate a succedere cose che mi hanno stupito in positivo, e ho capito che bastava scavare un po’ più a fondo, tanto che ho deciso di fermarmi in questa città. È un posto in costante movimento, le cose cambiano molto in fretta e ci sono davvero un sacco di realtà e comunità underground che stanno pian piano crescendo e ottenendo l’attenzione che meritano, anche oltre i confini nazionali. Parlo di Macao, S/V/N, Terraforma, della BUKA. Ci sono anche etichette fantastiche come Presto?!, Hundebiss o Haunter Records e luoghi come Spazio O’ e SOTTO La Sacrestia che portano un sacco di freschezze ed energie interessanti alla città.
Comunque, anche la Milano più superficiale e modaiola, in un certo senso, ha avuto un impatto sul mio lavoro. Sono sicura di una cosa: oggi questa città è un melting pot e sono davvero felice di viverla e farne parte in prima persona.
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