Sono le tre di notte a Los Angeles e sono su un tetto in zona Echo Park. Poche ore fa, Archy Marshall AKA King Krule ha suonato il suo secondo live sold out all’Echo, ora è sparito con una tipa.
Non appena gli prende la mano e sparisce con lui in fondo alle scale, la sento dire, “Devo darti qualcosa.” Partono i segnali di pericolo—ha solo diciannove anni, amica!—ma dieci minuti dopo lui torna su con addosso un ciondolo a forma di occhio. Al collo ha anche un’affascinante collana a forma di Africa che abbiamo raccattato a una serata dacehall poco prima, e qualcuno gli ha disegnato un quadrato con l’eyeliner attorno agli occhi.
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A un certo punto guardo il mio orologio. Sono le quattro, Archy è sparito di nuovo. Decido di avviarmi verso casa, e di dare uno strappo al manager di Archy, Theo, fino al suo hotel, che era per la via.
Il giorno dopo mi dirigo verso l’hotel di Archy, per salutarlo prima che faccia ritorno nel Regno Unito. Non lo trovo, ma vedo Theo, mi dice che ha appena ricevuto un sms: “Ma Archy è nel deserto? lol”
“Oh, è strano,” dico io. “Anche io ho ricevuto un messaggio stamattina in cui mi chiedevano se fossi nel deserto con Archy.”
Ci siamo guardati, capendo velocemente che non era per niente strano, e mancava un’ora al suo volo.
Quarantotto ore prima ho conosciuto Archy da Amoeba Records, a West Hollywood. Doveva essere una breve intervista di venti minuti (anche se speravo di avere qualche botta di fortuna e ottenere una foto di lui in uno stradone a caso). La faccia di Archy attualmente è stata vista in ogni isolato da qui a cinque miglia, lungo West Sunset Boulevard. I suoi live in entrambe le coste sono andati sold out in breve tempo, e ha anche fatto un’apparizione da solista a New York, parallalelamente all’uscita del disco (6 Feet Beneath the Moon è uscito il 24 agosto). Il suo tour di ritorno è così pieno di date e prenotazioni che sarò costretta a usare l’espressione “senza precedenti”, e il brusio che si lascia dietro è paragonabile solo a quello di Lorde, ma lui non ha nemmeno un singolo in radio.
Così mi sono chiesta per un po’ come abbia fatto King Krule a far impazzire gli Stati Uniti, concludendo che doveva rappresentare proprio un bel motivo di orgoglio per il sud di Londra, un’area che, a parer mio, si incarna bene nella sua musica. Quando mi sono seduta con Archy, gli ho detto che ero di Londra, che mi mancava e che ne avrei voluto parlare con lui. Ci è stato.
Noisey: È la tua prima volta a Los Angeles?
Archy: Sì.
La gente sembra davvero recepire la tua musica qui, te ne sei accorto?
Penso che sia strano. La mia musica è cupa, molto metropolitana. Qui invece è tutto luminoso, so che ci succedono un sacco di robe strane in giro, ma vabe’, è difficile sentirsi in trappola in un posto così.
Lo pensavo anch’io all’inizio, ma mentre guidavo per arrivare qui ho sentito il tuo disco e ho capito perché funziona. C’è un che di crooner nelle tue canzoni, una certo romanticismo, e si adatta bene a queste strade immense e a questa landa desolata venuta su solo a rock and roll.
Il romanticismo c’è di sicuro—lo vedo ovunque. Non credo tu mi possa nominare qualcosa all’interno della quale non trovi del romanticismo, che sia un oggetto, una situazione o un’idea.
Credo sia qualcosa che sviluppi se provieni da una certa zona di Londra. Non hai a disposizione troppa bellezza e sei obbligato a trovarla in cose come il cemento.
Sì, tipo i mattoni, il fatto che qualcuno sia vissuto qui impilando mattoni per anni. È romantico.
Hai notato quanto sold out siano i tuoi concerti?
Sì. Cioè, adoro io stesso la mia musica, la amo. Non mi stupisce che qualcun altro la ami. Lo faccio per me stesso. Lo faccio per una mia volontà di esibirmi e di interpretare queste canzoni. Neanche, è come una terapia, in grado di alleviare lo stress e di farmi dormire la notte.
Ci sono un sacco di thread che si succedono nel disco, musicalmente.
È molto incasinato. È calcolato male. Ho impeigato così tanti mesi della mia vita su questo disco cercando di elaborare una narrativa strana, nascosta, che lo attraversasse, poi ho capito che ha già un fondamento naturale così com’è.
Per via di come l’hai scritto?
Sì, parlo dell’uso di metafore diverse corrispondenti a diversi stati d’animo.
Musicalmente o liricamente?
Entrambi. Musicalmente dovrebbe scorrere.
Sì, è figo vedere quanti diversi stili si possono trovare nelle canzoni mano a mano che le ascolti…
È tipico di Londra anche questo. Crescere nel sud di Londra ed essere esposti a tutte quelle culture diverse fin da giovane, ha fatto sì che la mia conoscenza fosse già ampia a dieci anni. Avevo un sacco di amici attorno che mi educavano alle diverse culture. Tipo la mia prima ragazza, è stata deportata ed era Nigeriana. Ho saputo della Nigeria grazie a lei, avevo sette anni. Questo è Peckham, Londra Sud, amica.
Hai avuto influenze musicali da parte dei tuoi?
Ho vissuto con mia mamma. Quando andavo da mio padre ascoltavo i Led Zeppelin e roba così, ma mia mamma era molto più legata a ska, reggae, rocksteady, hip-hop e dancehall. Tanta musica africana e caraibica. Le influenze maggiori le ho avute da lei.
È il tipo di musica che mi manca quando sono qui. Standone lontana ho cominciato a rendermi conto di quanto sia Jamaicana la nostra cultura, specialmente la musica.
Londra è la seconda Babilonia, questo è certo.
Anche per quanto riguarda il punk, una sorta di orizzonte degli eventi per la cultura londinese—che è emersa quasi subito con ska e reggae.
È folle che la gente associ ideologie di estrema destra agli skinhead, ma loro ascoltavano ska e rocksteady fin dagli anni Sessanta. È un prova chiara del fatto che, “Merda, questo posto è un melting pot di idee.”
Sì, perfino i razzisti ascoltano musica nera degli anni Sessanta.
Soprattutto a Londra Ovest. Ormai non sono così tanti, ma le radici sono decisamente ancora lì.
Penso al carnevale come spirito di Londra Ovest.
È spirito di tutta l’Inghilterra ormai, porta coesione.
Pensi che manch coesione al momento?
La tensione a sud di Londra oggi, tra il proletariato bianco e quello musulmano, è folle. Stavo rilasciando un’altra intervista qualche mese fa—abito praticamente nella via in cui è avvenuto l’omicidio di Rigby a Woolwich—e mentre parlavo, era pieno di estremisti musulmani in mezzo alla strada. Vivo di fronte al Millwall Pub—covo di lavoratori bianchi—e tutti quei musulmani con gli altoparlanti a un certo punto hanno semplicemente sparato a quel tipo bianco. E dicevo “Guarda, proprio sotto i nostri occhi.”
Credo che nel Regno Unito le persone siano perlopiù depresse, così cominciano a cercare qualcuno a cui dare la colpa.
Qui [negli Stati Uniti] sembra essere diverso. L’aggressività è più individuale, non collettiva.
Ci sono dei casini simili anche qui comunque, Trayvon Martin e Oscar Grant probabilmente sono solo la punta dell’iceberg. Non sappiamo molto di cosa accade negli Stati Uniti perché il territorio è così vasto, è facile che una notizia si perda.
Qui ci si basa sull’individuo. Non ci sarà mai una rivoluzione perché hai Fat Joe che dice, “Yo, perché questi tipi stanno venendo qui?” con i tipi che rispondono “E perché questi altri non alzano il culo?” È fondato sull’individuo e tutti sono contro tutti. Ognuno ha il proprio piccolo impero, il proprio lavoro e il proprio sogno.
Specialmente qui a Los Angeles. Questa città è tutta volta alla realizzazione dei desideri personali. Il che può essere favoloso, fino a quando non ti senti male per strada e nessuno ti aiuta…
Sei fottuto per sempre.
Abiti ancora a Peckham?
Vivo a Bermondsey ora. Vicino al fiume, più carino che a Peckham. Bei posti. Presto mi trasferirò, però. Non so ancora dove, forse a New York.
Amo New York, ma devi entrare nella mentalità della città per sopravviverci.
Nessun problema. Ci entrerò.
Quando hai cominciato a fare musica, hai mai pensato che ti avrebbe portato a questo stile di vita, e a questi viaggi?
Per niente.
Perché hai iniziato?
L’ho fatto perché la vedevo come unica attività valida, a eccezione forse dell’arte. Arte e musica. Era la cosa più figa che potessi fare, così l’ho fatta. La musica è il mio amore. Non mi sarei aspettato di essere qui, nè in nessun altro posto, ma più lo facevo e più ci credevo. Più mi convincevo che sarebbe andata bene. Ecco perché abbiamo passato gli ultimi due, tre anni a costruire questa cosa di King Krule. Abbiamo avuto un sacco di opportunità per decollare, ma ci siamo trattenuti, e penso sia per questo che abbiamo ottenuto tanta ospitalità, in tutto il mondo. Sono passati tre anni da quando è uscito il mio primo lavoro, e ora posso guardare la discografia e dire che sono a quota quattro dischi, ho lavorato a un sacco di robe, ma il mio debutto è solo adesso. Sono pronto a presentarmi. Abbiamo il fuoco dentro, siamo combattivi.
Sembri davvero in simbiosi con la tua band. Sono tuoi amici?
Abbiamo passato momenti difficili. Sono cari vecchi amici, sicuramente. Matt non è neanche nella band, è solo un amico. È giusto girare con i tuoi compari. Ma puoi sempre avere rapporti con altri musicisti. Penso che questa generazione stia davvero dando il massimo. Ho girato il mondo e conosciuto diverse persone della mia età che fanno musica figa.
Qualcuno in particolare?
Tipo Ratking, Sporting Life, Ear Sweatshirt—ero con lui l’altro giorno. Anche Tyler. E un bel po’ di gente di Londra.
Hai notato che i fighetti di Londra stanno tutti bazzicando a Peckham in questi giorni?
Sì, e mi girano anche i coglioni. Peckham è diventata la nuova Shoreditch. È sempre stato uno dei più orribili buchi di culo di Londra. Quando torno—tutti i miei amici sono a Peckham—cammino un po’ e ci sono hipster dappertutto. Trovo i miei amici in un angolo, e ci diciamo, “Che è successo?” È diventato un posto per gente che ci crede.
Come siete finiti tu e i tuoi amici di Peckham a fare musica insieme?
Credo che non sia nemmeno Peckham, ma l’intero sud di Londra. C’è un sacco di gente come me a cui non piace svendere o essere svenduti. C’è un sacco di gente della mia età, giovane e tranquilla, con un passato umile, ma con una mentalità aperta, tanto aperta. C’era un evento chamato Steaz, ed era organizzata da un tipo di nome Luke Newman. Era pieno di musicisti ben preparati in quella zona, così all’inizio è diventata una serata jam, principalmente jazz, con standard o ogni tanto un po’ di hip-hop e roba così. Poi si è trasformata in una specie di open mic. C’erano un sacco di poeti che si esibivano, buttavano giù parole, la cosa ci ha stupiti…
Sento un’indole poetica nella tua musica.
Si be’, di sicuro. Non ho mai letto le mie poesie in pubblico, ma ne ho scritte tante. So il lavoro che ho fatto, mi piacerebbe vederlo in un libro. Sarebbe abbastanza bello.
Scrivi a mano?
[Muove la mano] “Fallo, dai. Liberati dello schifo. Imbratta tutto”.
Ho così tante modalità di scrittura che continuo a non trovarne una realmente mia.
Ho vissuto un’esperienza simile. Per “Out Getting Ribs” avevo un setup di merda. Avevo quattro tracce e un pc, il pc aveva la batteria che durava poco e doveva sempre stare sotto carica. Il programma che stavo usando era una versione di prova di FruityLoops, ma ci potevi solo aprire i file e non salvarli. Così ho passato notti—per la precisione dalle sei di sera alle sei di mattina—a cercare di finire le tracce. Se mi addormentavo, o succedeva qualcosa, perdevo tutto. Era tutto mega instabile. Dovevo comporre, mixare e registrare in una notte. Eppure è così che ho scritto le migliori canzoni di sempre. Poi questo sistema è andato a puttane perché la 679 Records mi ha procurato un nuovo pc e una nuova interfaccia. All’inizio mi dicevo “Cazzo sì.” Poi ho capito che potevo salvare qualsiasi cagata. E pensavo, ho scritto trecento tracce ma nessuna è completa.
Dopo questa intervista, ci siamo messi d’accordo su dove uscire. Archy e la sua band erano troppo giovani per andare in un bar, così siamo finiti nella loro stanza al Comfort Inn, a Silverlake, fregandocene dei divieti di fumo e cercando del jazz su Youtube.Questa è una foto di quella stanza. Da notare le bustine di tè Twinings che Archy poi ha cominciato a distribuire come regali:
In quella stanza ho scoperto che la madre di Archy negli anni Settanta era in una band punk dotata di clarinettista. Aveva militato in un’altra band punk-reggae chiamata The Ruts. Aveva un nonno artista a New York. Tutto questo ha spiegato in qualche modo da dove tragga tutta l’ispirazione, e come, a un’età indiscutibilmente giovane, abbia sviluppato un’etica della musica così ferma e rigorosa. Si è seduto sul letto e ci ha intrattenuto, affrontando dibattiti sui PiL vs. i Mescaleros, mandando in visibilio il suo bassista con Sade (evidentemente esistono persone che non hanno mai sentito parlare di Sade).
A questo punto ho avuto un vago sospetto che Archy potesse essere qualcosa più del tipico menestrello figlio della globalizzazione. Forse era autentico. La notte successiva, all’Echo, ho avuto la risposta.
La band si è cimentata in un blando pezzo jazz, e Archy se la guaiva fino in fondo, suonando subito familiare e cristallino. Ci sono molto stili nella loro musica—anche il jazz sembra balzare da New York al Sud America—così sarete perdonati se vi vengono in mente solo artisti che hanno un qualche significato personale. Per Sasha Frere Jones del New Yorker, era Tom Waits; per me The Roots e Billy Bragg. Ho anche percepito un accenno della grezza eccitazione di cui doveva essere intrisa l’aria a uno dei primi live di Jeff Buckley, abbiamo le prove che si trattava di un’atmosfera più che speciale.
Vedo ancora King Krule come un riflesso delle sue origini sud londinesi, ma ora realizzo che in lui possiamo trovare tutto ciò che ci serve. Se prima mi chiedevo come mai, qui, la sua musica assumesse tutto questo significato, adesso non me lo chiedo più. L’America, Los Angeles in particolare, è invasa da gente talentuosa. Non c’è spazio per i fake, e tutti bramano l’eccellenza.
Ci siamo spostati dalla festa e siamo finiti in cima al tetto di questa tipa, ad Echo Park. Bevevamo tutti alcolici da bottiglie di acqua, i membri della band erano ricoperti dal merchandise Rastafariano che avevamo appena comprato a caso da un tavolo pieno di roba dancehall. Se, all’arrivo, questi ragazzi si sentivano stranieri, adesso erano un tutt’uno con la città e con questa calda notte Californiana. Nell’andarmene, mi sono ricordata che Joe Strummer ai falò di Glastonbury si piazzava al centro e invitava la gente ad unirsi a lui, anche Archy, che non è propriamente Joe Strummer, lo fa. “Bella storia”, ho pensato.
Siamo al giorno dopo e io e il manager stiamo impazzendo. Dov’è Archy? Scrivo ad alcune persone e alla fine vengo a sapere che Archy ha guidato fino al deserto, alle sei di mattina, con due ragazze e il suo batterista George. Nessuno ha potuto trattenerlo. Torniamo all’hotel e troviamo Jack, uno della band, nella sua stanza. “Ah sì,” dice con noncuranza. “Ho pensato di rimanere qui, almeno non avreste dato Archy per disperso. Se l’è meritato, no?”
Infine, senza spiegazioni o scuse, appare Archy. È tornato in tempo per il volo, ma in ritardo per il checkout. Il manager del Comfort Inn non gli dice niente, ma anzi lo aiuta a entrare e a raccogliere i vestiti, buttando via le scatole della pizza e le bustine sparse in giro. Anche lei, come tutti noi, è affascinata dal carismatico giovane cantante.
Oh e qui c’è una foto di loro poco prima di partire per l’aeroporto. Come vedete, l’America è iuscita a conquistarli.