Mia sorella sta cercando casa a Milano, perciò ultimamente non passa giorno senza che non mi venga lanciata almeno un’informazione nuova sui quartieri emergenti, sui prezzi sconsiderati e sui “rammendi” delle periferie. A sorprendermi, però, è stata la quantità di volte in cui qualche agente immobiliare paragona Milano a Londra, con sottintesi contrastanti: ci sono da una parte quelli che descrivono la città come il prossimo mercato in cui investire, e dall’altra i siti specializzati che si chiedono se non sia una bolla e, conseguentemente, quando esploderà.
E non è certo solo il mondo immobiliare a fare continuamente uso di questo paragone, ultimamente: la Brexit ha generato il panico ovunque, tranne in Beppe Sala, il neoeletto sindaco di Milano. Poco dopo l’annuncio dell’uscita del Regno Unito dall’Europa, infatti, Sala twittava che si era appena creata la situazione giusta per fare di “Milano la nuova Londra“—con una puntualità che se non fosse politica sarebbe sciacallaggio.
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Sala vorrebbe portare a Milano “i giganti dell’alta finanza“, e ha motivato le sue speranze per il futuro della città con frasi come “tra Milano e Francoforte i manager scelgono Milano perché si vive meglio.” Anche se a giudicare dall’entusiasmo di Khan nella foto di rito del loro incontro non si direbbe, sembra che ci stia riuscendo: l’Agenzia dei medicinali e l’Autorità bancaria starebbero per varcare la Manica diretti nel capoluogo lombardo.
A parte Sala e gli agenti immobiliari, ovvero chi ha da guadagnarci, comunque, di solito chi parla di “Milano come Londra” lo fa per sottintendere che la città starebbe pericolosamente orbitando sempre più vicino ai seguenti fenomeni: centro direzionale prima che residenziale, gentrificazione, suddetta bolla immobiliare.
Il mercato immobiliare di Londra è una bolla nel senso che i prezzi degli immobili sono saliti molto rapidamente e senza nessun rapporto con le effettive possibilità di acquisto. Questo anche—ma non solo—perché la città è stata “venduta” a investitori stranieri, fondi sovrani, potentati che possono permettersi di tenere interi palazzi sfitti finché qualcuno pagherà quello che richiedono.
Ma la città è davvero davanti a un bivio tra gentrificazione e sottomissione agli interessi dei grandi potentati da una parte e abbandono dall’altra? In effetti, considerando la situazione “di pancia”, non si può negare che le due realtà sembrino comparabili, anche se le condizioni del mercato immobiliare sono strutturalmente diverse. A partire dalla percentuale di persone che vivono in case di proprietà—altissima a Milano, bassissima a Londra. Perciò quella che per Londra è già a tutti gli effetti una bolla—affitti alti nonostante la grande disponibilità di immobili—per Milano è rimasta a lungo una condizione “normale”: poche richieste, prezzi alti.
Tuttavia, dicevo delle somiglianze. A partire dall’ingerenza di grandi società immobiliari come la Hines, che nella figura di Manfredi Catella ha prima agito come socio nella costruzione del nuovo polo di Porta Nuova, e poi ha ceduto il proprio 60 percento di proprietà al fondo sovrano del Qatar, che ha così ottenuto la piena proprietà dei palazzi. Più recentemente la Hines ha ceduto palazzo Turati al fondo sovrano dell’Azerbaigian. Ma non sono solo i fondi sovrani stranieri a spingere i prezzi in alto senza creare un’effettiva rete di servizi commisurati—senza creare, per così dire, una città che valga il prezzo dell’appartamento. Spulciando tra gli elenchi di proprietà di fondi come quelli bancari, l’ENPAM e altre organizzazioni provvidenziali si possono trovare interi quartieri.
“Quando vado in Gae Aulenti, pensare di camminare in una piazza di proprietà del Qatar non mi fa piacere—vendere i palazzi non è così grave, mentre la vendita dello spazio pubblico mi preoccupa eccome,” mi ha detto la sociologa urbana Marianna d’Ovidio. “Mi sembra di perdere però un po’ il diritto alla città, ma anche se fosse un milanese a possederla.”
“Però io credo, forse perché sono ottimista,” ha continuato, “che potrebbe essere questo il momento in cui la politica prende veramente in mano le direzioni di questi flussi. Si è sempre detto che non è il sindaco ma la giunta a fare un’amministrazione, e sebbene non conosca Sala, i suoi assessori mi piacciono.” Insomma, potrebbe essere l’occasione di prendere il buono del “modello Londra” da sinistra. “Dobbiamo smettere di fare i fricchettoni e dirci che il mercato fa schifo—Livingstone per Londra ha fatto anche cose molto positive,” aggiunge.
In ogni caso, non possiamo fare finta che queste realtà non esistano. L’importante è che non si ripeta quello che è successo con Porta Nuova: spersonalizzazione del quartiere, affitti alle stelle, “hype” intorno a un posto dove nessuno sa chi vive—credo che ultimamente tra Repubblica, Corriere e rispettive edizioni locali ci siamo sciroppati una quantità incredibile di articoli sul Bosco Verticale, su chi ci vive etc. Per impedirlo, è centrale che il comune monitori sempre l’attinenza ai piani regolatori—che non si riproponga, insomma, quello che era successo con la giunta Moratti. Il punto è che comunque il comune non ha i fondi per fare quello che fanno i privati, e per questo deve cercare di trarre il massimo beneficio dall’alleanza con loro.
Sul piano pratico, d’Ovidio propone una soluzione: le case popolari. Nelle aree dove si annuncia una forte spinta di gentrificazione si dovrebbero “seminare quartieri di case popolari che servono a mantenere un nucleo di ‘popolazione vera’, ad ancorarsi alla realtà.” A patto che anche le case popolari vengano salvate dal degrado in cui di solito sono abbandonate.
Un’altra spinta di cui ultimamente si sente molto parlare è quella della riqualificazione delle periferie, ma in questo caso indicare un modello è impossibile, dal momento che le differenze strutturali sono tante. Se già da qualche anno la Milano “città metropolitana“, centro di servizi con prezzi non abbordabili e periferie sempre più “fuori”, è un’immagine che fa paura, la realtà sembra un po’ diversa: se è vero che il centro città è sempre meno abbordabile, è vero dall’altra parte che parlare di “periferie” potrebbe presto non avere più un senso, mentre la città si organizza in tanti centri ciascuno con la sua periferia—e, auspicabilmente, anche una maggiore autonomia (come i borough a Londra, come la Barcellona di Colau). “È vero che è una città che si sta un po’ polarizzando, ma si stanno anche creando tanti piccoli centri,” aggiunge d’Ovidio. Questo sembra essere il trend.
Zone come NoLo, Ripamonti ma anche via Savona stanno diventando “the place to be” perché la commistione di fattori come gli spazi aperti, il collegamento diretto con il centro, e la vicinanza di nuovi poli culturali li rende appetibili sia per i giovani e i creativi—che sono la miccia del più classico processo di gentrificazione—sia per le imprese di real estate, che non si fanno scrupoli a cominciare a speculare sui prezzi ancora prima che i quartieri siano effettivamente riqualificati. “Io immagino che i real estate abbiano già cominciato a fare grandi investimenti, con grandi interessi e grande attività di lobbying sui giornali—tipo l’articolo su NoLo comparso su D Repubblica.”
Diversa è la situazione di periferie “poco appetibili” come il Giambellino, o Ponte Lambro, dove case popolari fatiscenti, corridoi di palazzoni, difficoltà di collegamento con il centro e una situazione antisociale ormai incancrenita alienano gli interessi dei potenziali investitori privati. In quel caso deve essere il comune a intervenire—magari basandosi su progetti d’eccezione come quello del gruppo di ricerca fondato da Renzo Piano o del Politecnico per la zona nord-ovest, quella intorno al Portello.
Ovviamente non è un processo a compartimenti stagni, soprattutto perché l’iniziativa privata cerca di pescare ovunque possibile—anche in zone che, strutturalmente, farebbero poco sperare ma che traggono vantaggio dall’abbandono di vecchi magazzini industriali e dalla vicinanza con zone in veloce riqualificazione: è il caso per esempio della Maggiolina, zona tradizionalmente operaia e lontana dal centro ma che, mentre si espandono Isola e Garibaldi e grazie alla riabilitazione della vecchia sede de Il Giorno, fa capolino tra le futuribili zone da tenere d’occhio. Con il rischio di non riuscire a far risultare appetibili al mercato alcune zone—come Bovisa, che è rimasto un quartiere operaio, nonostante i tentativi di riqualifica.
Forse l’alleanza tra privato e pubblico potrebbe avere un primo, tangibile effetto positivo: che vengano impiegate risorse per la riqualificazione delle periferie “poco attraenti” e per una ristrutturazione dell’ALER, la società che si occupa della distribuzione delle case popolari e che periodicamente si trova al centro di burrasche e proteste. “Sono d’accordo con quello che aveva detto Balducci [assessore all’urbanistica per la giunta Pisapia], che vendere pezzi di città al capitale è una soluzione,” commenta d’Ovidio. “Ma solo se i soldi che in questo modo entrano nelle casse del comune vengono poi impiegati per la riqualificazione delle case popolari o delle periferie. È ancora solo un wishful thinking, ma io mi aspetto che una giunta di sinistra lo faccia.”
Con pro e contro, la congiuntura positiva che ha trasformato Milano nell’ultimo decennio è anche dovuta all’iniziativa dei privati, e forse dovremmo smettere di demonizzarla a tutti i costi. Tuttavia, ci sono stati segnali ancora più importanti. Anzitutto la fortuna: “Ci sono state le grandi costruzioni urbanistiche della giunta Moratti, che le ha approvate, e forse sono state meno peggio di quello che pensavamo. Dubito che ci sia stata una strategia pubblica in questo, ci è andato bene, forse avevamo voglia di qualcosa di nuovo e quindi ce lo siamo fatti andare bene. Ma credo che questa aria nuova che si respira a Milano sia soprattutto merito della giunta Pisapia, che ha attivato la cittadinanza—responsabilizzandola e facendo vedere che il comune era disposto a sostenere e creare una rete con le iniziative private, per esempio il coworking privato a cui si può accedere tramite voucher comunali.”
Quello che ci aspetta—se la giunta sarà davvero di sinistra e se i quartieri in via di sviluppo manterranno le promesse di coesistenza di vecchio e nuovo—lo vedremo presto, ma solo nella pratica: con la riqualifica delle aree ex scali ferroviari, per esempio, primo tra tutti lo scalo Farini, su cui il progetto di riqualifica del comune (se verrà presentato) dovrà scontrarsi con gli interessi dei monopoli che possono comprarli. Intanto, se non altro la stampa locale ha qualcosa di cui parlare, ogni santo giorno.
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