Música

I Rosetta esplorano le nuove tecnologie e i contatti umani nel nuovo album “Quintessential Ephemera”


Foto di Matt Weed

È dal 2003 che i Rosetta esplorano le galassie più sconfinate del post-metal, hardcore, doom, ambient, prog, e similari. Il gruppo ha una lunga storia d’amore con la label Translation Loss responsabile dell’uscita di tre album e un bel po’ di EP prima che scadesse il contratto e decidessero di continuare a militare come indipendenti. Poi c’è stato un periodo difficile in cui la band stava per tracollare, appena dopo l’uscita del tetroThe Anaesthete via Bandcamp nel 2013. L’album, a sorpresa della band, è diventato un best seller sul loro sito, e il merito è stato principalmente del passaparola dei fan.

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Rinvigoriti da questi riscontri positivi, i Rosetta, hanno ingaggiato Eric Jernigan, amico di vecchia data e compagno di tour con la sua band City of Ships. Il risultato, Quintessential Ephemera, scuote via gran parte dell’oscurità del suo predecessore per approdare a masse turbinose di melodie post-rock e metalliche.

Abbiamo parlato con il chitarrista Matt Weed di questo nuovo album, dello scossone apportato dalla tecnologia alla musica indipendente, e di come i cambiamenti siano essenziali in ambito musicale.

Noisey: I primi Rosetta avevano una vibe positiva, poi è diventato tutto più dark. Ora con Quintessential Ephemera siete tornati alla carica iniziale. Sembra più aperto a interpretazioni del precedente.
Matt Weed: È una convergenza di tante cose. Certo, conta un sacco il fatto che abbiamo un membro in più in questo disco. Ogni altra release ha sempre avuto la stessa lineup di quattro persone… Eric è sia chitarrista che vocalist, e un talentuosissimo compositore, così il suo contributo è arrivato attraverso più canali. The Anaesthete era mega dark. C’entrava molto il posto in cui ci trovavamo ai tempi, sia a livello umano che economico. L’abbiamo pensato e composto in un garage senza riscaldamento da cui ogni volta venivamo cacciati malamente perché i vicini si lamentavano del casino. Abbiamo speso tutti i nostri soldi per noleggiare un van, che ha vissuto giusto le due settimane in cui l’abbiamo usato per il tour e poi semplicemente ha tirato le cuoia. Abbiamo finanziato l’album letteralmente con i nostri ultimi averi e abbiamo pensato, “Se a questo giro non va bene è finita davvero.” È andata strabene invece, e quell’esperienza, consistita quasi esclusivamente in fan entusiasti che si rigiravano il disco e lo dicevano agli amici degli amici, ci ha incoraggiati molto. Sicuramente avrà ripercussioni sui prossimi processi creativi.

Puoi dirmi di più su questa esperienza? Che idea hai del rapporto tra band e ascoltatore?
La relazione tra band e ascoltatore è cruciale. Abbiamo deciso di diventare indipendenti, quando il contratto con la nostra ultima label è scaduto, perché ci siamo accorti di aver passato tutti questi anni a fare le cose sbagliate. Cioè non c’era niente di male nello sbagliare, ma eravamo sempre vincolati dall’idea in sé di fare musica. Osservavamo tutto pensando al futuro. Quale poteva essere la via più affidabile, stabile e duratura per fare musica con i ritmi che ha l’industria musicale? La tendenza è quella a tagliare fuori gli intermediari e puntare alla diretta relazione tra band e ascoltatore. È stata una decisione estremamente cerebrale da prendere sul momento, e realizzare che avevamo avuto tutto quel successo senza esserci dovuti sbattere—l’abbiamo comunicato solo sui social—ha aggiunto una componente emotiva che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. Mi ricordo di aver sentito il discorso di apertura di Steve Albini a una conferenza musicale in Australia in cui diceva, “I fan oggi sono più vicini alla musica,” molto più di venti anni fa. Tutto ciò accade anche grazie a Internet e alla possibilità di entrare in diretto contatto con gli artisti che comporta. Questa volta ero molto più cosciente del rapporto con gli ascoltatori, mentre scrivevo. Non che volessi tirare fuori un album che rendesse felici tutti, ma devo a queste persone il mio impegno più assoluto e sincero, e dare il meglio che posso è fondamentale perché voglio essere sicuro di meritarmi il loro rispetto e supporto.

È interessante che citi Albini, perché quello che hai detto sembra rievocare i vecchi principi punk e hardcore in cui l’industria era accessoria rispetto al legame band/ascoltatore. Anche a te sembra così o lo ritieni solo un prodotto di questi tempi in cui conviviamo con la tecnologia?
Forse entrambi, ora che la tecnologia è finalmente diventata alla portata di tutti facilita la comprensione e la messa in pratica degli ideali che i punk avevano venti o venticinque anni fa, quando non potevano essere compresi… Quando abbiamo cominciato a fare musica, per dire, era bello comprare un disco dei Fugazi. C’era il loro indirizzo nelle note sul retro. Potevi spedirgli una lettera, eppure di tecnologia neanche l’ombra. Era impensabile che quel tipo di contatto si diffondesse in larga scala, cosa che ora invece accade regolarmente. Ma non mi piace provare eccessiva nostalgia nei confronti di un determinato periodo storico. Mi sento davvero privilegiato di fare musica adesso, in un momento in cui finalmente anche chi non si porta appresso enormi apparati di marketing può essere sentito da tutto il mondo.

Uno degli argomenti trattati nell’album è se la tecnologia ha migliorato o no la nostra vita. Come hai esplorato musicalmente questo tema?
C’è un certo ottimismo riguardo al grado di connessione a cui siamo esposti adesso, ma anche tristezza nel realizzare che questo compromette la fisicità dei contatti, cinquant’anni fa onnipresente in ogni comunità, e tutto avviene tramite schermi e piattaforme virtuali. La tecnologia non è davvero responsabile di tutto ciò che diciamo o pensiamo. Ha riempito le nostre vite di casino e distrazione. Da una parte riesco ad avere contatti e scambi basati sulla musica con qualcuno che vive in Russia, che è una dinamica a cui posso tenere molto, ma il prezzo da pagare per tenere in piedi questa relazione è alto. Siamo sommersi da un oceano di video di gatti, meme, e immagini stupide, che in definitiva non vogliono dire niente. Vogliamo che si intuisca che c’è dell’ambiguità a riguardo, che non siamo al cento percento entusiasti, ecco.

Sarebbe stato più facile sotto vari punti di vista non inserire nuovi elementi nella formazione. Cosa vi ha spinto ad accollarvi questa ulteriore sfida con voi stessi?
Eric ha cantato in una traccia del nostro ultimo album. È stato deciso tutto sul momento perché quando stavamo registrando il disco nuovo a Brooklyn, Eric viveva lì vicino e ci ha chiesto se di tanto in tanto poteva passare dallo studio. Gli abbiamo chiesto di suonare in una traccia. Doveva suonare la chitarra, ma all’ultimo ha provato i vocal e ha stravolto la canzone. È stata un’esperienza meravigliosa, dato che era tempo che ci chiedevamo “Cosa potremmo fare per smuovere un po’ le acque?” Il nostro bassista Dave Grossman ha suggerito di chiedere a Eric di passare sempre nei weekend e registrare con noi. Non so per quanto ancora avrà voglia di stare con noi. Dipende da lui, se gli va o no di suonare nei nostri dischi. Sicuro ora che abbiamo avuto questa esperienza siamo apertissimi a nuove collaborazioni in modalità che non avevamo mai sperimentato prima. Mi immagino i Rosetta fra un paio di anni a porte spalancate, pieni di collaborazioni con gente che va e viene e contribuisce in modo sempre diverso.

È davvero unico scegliere di cambiare la propria struttura e conformazione dopo così tanti anni. È qui che volevate arrivare? Cos’altro state programmando?
Sì, credo di sì. Accettare e rapportarsi con questa transizione, inizialmente, ha provocato ansia, ma una volta imparato ad allontanarla rimane uno splendido senso di libertà. Tipo, “Posso lavorare con chi mi pare, fare la musica che mi pare, gestire il processo nella sua interezza, e non sentirmi come se stessi compromettendo il lavoro fatto fino ad ora insieme.” Nessuno lo mette in dubbio quello, che abbiamo cambiato il modo in cui svolgiamo quel lavoro è irrilevante. Ogni nuova collaborazione apporta qualcosa a chi sei, diventa un’estensione. Non mi sentivo così felice per un mio lavoro da tempo, ed è una sensazione meravigliosa.