La cultura alcolica tropicale nasce da un retaggio storico preciso, che fonde europei, africani e Caraibi. Cresce con il popolo, con gli schiavi, con i contadini, nelle piantagioni caraibiche di canna da zucchero.
“Hey Mr. Mixologist! Did you have to go college for this?”
“Hey, Mr. Mixologist, ma sei andato all’università per far tutto questo?” è il ritornello di un video rap parodia del 2012, realizzato dal gruppo Fog and Smog, che prende in giro i barman più impegnati di Los Angeles. Ma, forse, è la stessa cosa che hai pensato anche tu, mentre assistevi alla preparazione del tuo ultimo drink in un locale che sperimenta.
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No, chiaramente, non nel bar sotto casa dove ti fai uno Spritz o ti scoli una Tennent’s.
La parodia sottolinea la crescita esponenziale del mondo del buon bere, ma d’altra parte enfatizza la distanza accumulatasi negli ultimi anni con il cliente profano. Tipo quelli che si vogliono soltanto rilassare davanti a un buon cocktail, senza doversi sorbire un pippone che li fa sentire ignoranti e inetti sull’argomento.
Ecco, proprio per quel tipo di cliente – in cui un po’ mi riconosco anche io – , all’ultimo appuntamento alcolico con la sesta edizione di The Rum Day, organizzato da BARTENDER.it, è stato organizzato un incontro con una cultura e uno stile di miscelazione che promettono di riavvicinare l’ospite più pigro al bancone, senza inutili ansie da prestazione.
Sto parlando dei Tiki Bar, sbarcati anche a Milano con tanto di camicie hawaiane, carta da parati floreale e mug in ceramica, raffiguranti divinità dalle sembianze umane, nelle aperture del Jungle Tiki e del Rita’s Tiki Room, i primi due cocktail bar a tema della città. Colorati, beverini e dal forte richiamo esotico, i Tiki non dovrebbero incontrare difficoltà nell’affermarsi a Milano
Per capire come e perché una tradizione, nata negli Stati Uniti degli anni Trenta, stia formando un vero e proprio movimento in Italia, ottant’anni dopo, ho chiesto vita, morte e miracoli della cultura Tiki a Gianni Zottola, bartender e ricercatore specializzato che si occupa di formazione professionale per addetti del settore o aspiranti. Ma, soprattutto, grande protagonista della prima avventura Tiki su territorio italiano, maturata al Nu Lounge di Bologna.
“Negli Stati Uniti era nata una passione sfrenata per la Polinesia, per l’esotico sconosciuto. Don the Beachcomber rende tangibile il desiderio degli americani, creando dei finti drink polinesiani – i tiki- che restituiscono un sapore inesistente”
Tutto l’universo Tiki si fonda su una menzogna e su una figura dai contorni mitologici, tal Don the Beachcomber , un viaggiatore piuttosto avventuriero per l’epoca, “che all’inizio degli anni Trenta impronta uno stile di miscelazione studiato a tavolino con prodotti già finiti, evoluto dalle basi cubano-giamaicane e dalla fusione delle culture tropicali affrontate in prima persona nel suo girovagare”, inizia a spiegarmi Gianni. “Da prima degli anni Venti, negli Stati Uniti era nata una passione sfrenata per la Polinesia, per l’esotico sconosciuto, un sogno ereditato dai racconti dei reduci della Grande Guerra, che potevano raccontare di aver sostato in quei paradisi tropicali. Don the Beachcomber rende tangibile il desiderio degli americani, creando dei finti drink polinesiani -i ‘tiki’ appunto- che restituiscono un sapore inesistente, perché naturalmente in Polinesia non si produceva rum e non si consumavano bevande alcoliche miscelate”.
Per i caraibici, e ancor più nella cultura africana, l’alcol è un tramite spirituale e accompagna un rituale festoso, come uno funerario, in una sorta di concetto escatologico
La miscelazione Tiki amplia le fondamenta cubane ‘rum, lime e zucchero’ e apre un’innovazione nella secolare storia alcolica americana, proprio al termine del Proibizionismo, ma è doveroso scindere lo sviluppo Tiki e la miscelazione tropicale, perché la differenza è sostanziale.
“La cultura alcolica tropicale nasce da un retaggio storico preciso, che fonde europei, africani e Caraibi. Cresce con il popolo, con gli schiavi, con i contadini, nelle piantagioni caraibiche di canna da zucchero, dove c’erano dei mini alambicchi artigianali che servivano per ottenere un distillato molto forte, quasi imbevibile, da distribuire nella piantagione stessa. Per i caraibici, e ancor più nella cultura africana, l’alcol è un tramite spirituale e accompagna un rituale festoso, come uno funerario, in una sorta di concetto escatologico”, continua Gianni. “Così ,nel corso degli anni, rum, lime e zucchero diventa Planter’s Punch in Giamaica, Tea Punch nelle Antille francesi, la Canchanchara cubana, il Daiquiri stesso, la base per qualsiasi cocktail d’origine tropicale. La sua origine anticipa il movimento Tiki di tre-quattrocento anni”.
“Il Tiki non arriva in Europa, perché muore di fatto negli anni Settanta, con un decorso graduale, a livello qualitativo e di interesse. La miscelazione che arriva oggi in Italia è la riscoperta di quello che facevano negli Stati Uniti fra i ’30 e i ’50”
Chiedo a Gianni perché in Italia si inizia a parlare di Tiki soltanto dai primi Duemila, considerando che negli USA raggiunge l’auge fra il 1957 e il 1963. “In Italia e in Europa la cultura Tiki non è mai arrivata, se non di sfuggita. Qualcuno ci ha provato, perché il Mai Tai, per esempio, è diventato un grande classico.
A mio avviso, bisogna considerare due fattori: in primis, l’Italia non produceva rum e non aveva bisogno di miscelare. Eravamo abituati al Bitter, al Vermouth, bevande già finite, complete: il Vermouth è di per sé un drink, perché ha il dolce, l’amaro, il secco. In più – prosegue Gianni- il Tiki non arriva in Europa, perché muore di fatto negli anni Settanta, con un decorso graduale, a livello qualitativo e di interesse.
La miscelazione che arriva oggi in Italia è la riscoperta di quello che facevano negli Stati Uniti fra i ’30 e i ’50, né più né meno. Sembra paradossale, ma il Tiki è diventato una parte integrante dell’identità americana, della loro storia, della loro cultura e del loro modo di bere. Nessuno negli Stati Uniti ha bisogno di riscoprire il Tiki, come in Italia nessuno ha bisogno di riscoprire la carbonara, a prescindere che sia fatta bene o meno. A New Orleans, la patria del cocktail, alla gente interessa bere. Che lo faccia bene o male è una sfaccettatura secondaria”.
Un intervallo spazio temporale che definisce l’alta qualità delle offerte Tiki, presenti oggi in Italia, perché “quando io mi sono avvicinato al Tiki per passione, più di dieci anni fa, ho dovuto studiare e fare ricerca, senza poter consultare materiale online” racconta Gianni. “Mi sono procurato libri originali, articoli di giornale e attrezzature adatte, prima di arrivare all’esperienza diretta sul campo”.
“Il Nu Lounge, che non era un Tiki bar, è nato nel periodo in cui tutta Italia beveva Mojito. Insieme a Daniele Dalla Pola e Matteo Palladino, preparammo una sezione del menu dedicata alla ricerca e alla sperimentazione del Tiki, proponendo il nostro Mai Tai, seppur ci costasse di più che fare un Mojito. Ci credi che non è mai tornato indietro un solo Mai Tai: questo perché lavoravamo bene e la gente lo capiva”.
“Detto questo – chiosa Gianni- in Italia non troverai mai, salvo rare eccezioni, un locale completamente Tiki, nell’arredamento, nella costruzione, nella filosofia, nello stato d’animo delle persone che lo frequentano. Il Tiki, secondo la sociologia americana, è la corrente che ha coinvolto attivamente più cittadini dopo lo sbarco sulla Luna, nel ‘900, perché riuniva tutti i reduci di guerra, in cerca di una via di fuga collettiva dai ricordi più tragici e dal malessere quotidiano. Il tutto veniva annegato nell’alcol, in un ambiente il più lontano possibile dalla realtà”.
“Il Tiki può ridurre il gap quel gap che esiste fra barman e cliente, trasportandolo fuori dalla quotidianità e proiettandolo per qualche ora su una spiaggia di Malibù”
Per azzardare un parallelismo, fra la Los Angeles degli anni ’30 e la Milano di oggi, mi affido a Stefano Nincevich, firma della redazione di Bargiornale, curatore della selezione Tiki presente al The Rum Day, in uno spazio appositamente allestito, autore di Cocktail Safari, un libro sulla storia di settanta drink. “Prima bisogna precisare che parliamo di due contesti storico sociali molto diversi, però potremmo paragonare il ritorno della giungla vera, rispetto alle giungle di cemento in cui viviamo, come una via di fuga dall’alienazione quotidiana. Rita’s Tiki Room è un posto che ti fa evadere dalla realtà milanese, che ti proietta per qualche ora su una spiaggia di Malibù. Una forma di escapismo che ci allontana dai rumori metropolitani, che ci libera dai grandi classici con i profumi, i colori e l’energia degli exotic cocktails”.
Secondo Stefano la ricomparsa della miscelazione Tiki si può contestualizzare “partendo dalla metà dei primi Duemila, grazie a Jeff Berry, autore e storico della cultura Tiki, al suo lavoro giornalistico e alle masterclass in Italia, che hanno rispolverato uno stile démodé. Succede in tutti i campi artistici.
E ora il cliente vuole fuoco e fiamme, vuole giocare con il naming dei Tiki, rivivere attraverso il Suffering Bastard o morire con lo Zombie (il cocktail a base di rum chiaro e scuro, inventato proprio da Donn Beach del Donn the Beachcomber bar) e lo Scorpion (uno dei primi drink dove appare il brandy insieme a dei sapori fruttati citrici). E il tiki può andare a ridurre anche quel gap, quello iato che esiste fra bartender e cliente, aiutando a rilassare quest’ultimo, trasportandolo fuori dal quotidiano, senza obbligarlo a concentrarsi sulla difficoltà del drink”.
Il rischio di confondere Tiki bar e chiringuiti esiste, ma “per alimentare un grande fenomeno ci vuole una massa critica, quelli che non lavorano propriamente ad hoc, ma possono favorire l’espansione. Noi qua abbiamo portato le eccellenze, ma vogliamo stimolare anche i segnali delle antenne che si vogliono collegare a questo campo. La promozione dell’avanguardia come detonatore di ulteriori iniziative”.
Alla fine di questa giornata, ho capito che solo tramite la storia si può fare un ottimo drink: per quanto tu sia un bravo mixologist, per quanto tu abbia il tocco, ma se non lo contestualizzi, rischi di non comprenderne il senso. Così anch’io, dopo aver studiato a fondo tutto il mondo Tiki, da bevitore attento e consapevole, sono pronto per andare a ubriacarmi e capire il senso della mia prossima sbornia a suon di Zombie e Scorpion, e forse qualche intramontabile Mai Tai.
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