Fu Davide, più di un anno fa, a raccontarmi la storia di Tony King e del suo sogno di sfondare nel mondo della musica. Davide fa l’educatore di strada per minori a rischio nel Rione Sanità, uno storico quartiere popolare situato nel ventre antico di Napoli.
Un tempo periferia urbana, oggi queste strade sono l’epicentro di una rivoluzione artistica e culturale portata avanti tra gli altri da Padre Antonio Loffredo, un prete innovatore che ha focalizzato ogni suo sforzo degli ultimi quindici anni nella salvaguardia dei più giovani, grazie alla creazione di diversi centri di aggregazione. Una funzione che in effetti risulta essenziale tra questi vicoli, tanto più che la dispersione scolastica è uno dei problemi maggiori che affligge il capoluogo campano nei quartieri più “a rischio” e la presenza di questi centri permette in parte di arginare le vulnerabilità dei più giovani.
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Il Rione Sanità conta circa 32.000 abitanti in meno di 2 km², di cui la maggior parte è costituita da anziani e proprio da minori: “un ghetto a ridosso del centro storico della città“. E luoghi come la sagrestia della Basilica di Santa Maria alla Sanità—trasformata in una palestra di boxe per minori a rischio—, oppure l’NTS—il Nuovo Teatro Sanità che ha sede in una chiesa sconsacrata—, diventano nei fatti posti elettivi dove i ragazzi possono concentrare e sfogare le proprie energie creative.
Per questo, quando incontro Tony per la prima volta—proprio grazie a Davide, che nel Rione Sanità mi fa spesso da fixer e mi porta verso quelle storie che poi racconto grazie al mio lavoro di fotoreporter—mi colpisce sin da subito la sua determinazione, ma soprattutto la pacatezza che allo stesso tempo riesce a dimostrare. Iniziamo a camminare per i vicoli del suo, del nostro quartiere.
“Diventare un cantante professionista oggi è molto difficile, c’è tantissima concorrenza sul mercato,” mi dice, “e in più contano molto le etichette che ti producono”. È innegabile, e lo dimostra anche il fatto che la musica trap ha sostituito persino quelle storiche tendenze neomelodiche tanto amate nei quartieri popolari—almeno a livello formale e musicale, perché poi spesso i testi e gli argomenti sono rimasti pressappoco gli stessi.
Mi risulta difficile non pensare a quanto questo contesto in cui è cresciuto abbia influenzato il suo percorso. D’altronde, per Tony la musica è sempre stata una sorta di rifugio, uno spazio personale che lo allontanava tanto dai problemi sociali che interessavano il suo quartiere quanto dalla sua vita famigliare spesso troppo complicata, tra un divorzio dei genitori quando ancora era piccolissimo e la figura della nonna scomparsa da poco, che l’ha cresciuto come una madre.
Eppure Tony in realtà ha iniziato in maniera un po’ atipica il suo rapporto con la musica, con il rap e con la trap, visto che suonava il violino in un’orchestra sinfonica voluta e creata proprio da Padre Antonio per i ragazzini del Rione Sanità, quando il suo nome non era ancora quello attuale: “Ai tempi dell’orchestra ero ancora ‘Naomi’, fu soltanto successivamente che decisi una volta per tutte di essere Antonio.”
“Alla trap ci sono arrivato con un background musicale un po’ insolito rispetto alla media, visto che per anni ho ascoltato moltissima musica classica, alternandola però a Michael Jackson, 2Pac, 50 Cent e tutti i mostri sacri della scena pop e hip hop mondiale. Ora ascolto molta trap napoletana, in particolare Nicola Siciliano, ma anche Enzo Dong. O Emis Killa.” Mentre continuiamo la nostra camminata nel ventre di Napoli, Tony inizia a parlarmi della sua storia.
Mi racconta di quando già da bambino si sentiva a disagio nei vestiti che gli facevano indossare e nel ruolo di genere in cui si era ritrovato, il primo bacio a un’amica, l’impossibilità di sentirsi al meglio all’interno di un corpo visto e considerato come femminile. Il processo di accettazione personale, nonché da parte di quella stessa famiglia che oggi lo supporta in ogni scelta e decisione personale e professionale, è stato lungo e difficile.
“Ci tenevo a fare un pezzo contro l’omofobia, visto che troppo spesso nei testi dei rapper vengono lanciati messaggi omofobi e razzisti per il solo gusto di fare tendenza.”
Arriviamo a un bar per farci un caffè e mi accorgo di quanti lo conoscono e riconoscono, dei tanti che non possono fare a meno di salutarlo. “Ciao Tony, troppo forte l’ultimo pezzo tuo!”, gli urla un ragazzino di passaggio su uno scooter. Parla di “L’ammore è ammore”, il suo ultimo singolo, dedicato all’amore negato, proprio quello che spesso tocca in dote alle coppie composte da ragazz* transgender.
“La storia di Ciro Migliore e Maria Paola Gaglione ha aperto in me una ferita profonda,” mi rivela. “Anche io avevo poco tempo fa una fidanzata a cui è stato vietato di vedermi quando la storia è diventata pubblica. Eravamo costretti a incontrarci di nascosto, all’ombra dei portoni e nei vicoletti bui del quartiere. Ma quando la sua famiglia venne a conoscenza della relazione fui bandito totalmente dalla sua vita, in modo diverso, eppure in continuità rispetto a quanto accadde a Ciro. Per fortuna, non con lo stesso esito tragico.”
Proprio Ciro è parte del videoclip di “L’Ammore è ammore”. I due si sono incontrati dopo essersi scritti via Instagram dopo la morte di Maria Paola: Tony inviò un messaggio di vicinanza e di solidarietà a Ciro e così è nato un sentito rapporto di amicizia.
“Ci tenevo a fare un pezzo contro l’omofobia, visto che troppo spesso nei testi dei rapper vengono lanciati messaggi omofobi e razzisti per il solo gusto di fare tendenza. Per fortuna però esistono anche diversi artisti sensibili al tema, come Mahmood, Ghali o Roshelle.” In effetti, seguendo Tony su vari social, mi è capitato spesso di leggere messaggi offensivi, violenti e discriminatori nei suoi riguardi.
“Oramai su internet si vive una vita parallela. Sui social, anche se eviti lo scontro frontale, ognuno si sente nella posizione di dire la sua, offendendo senza badare alle conseguenze emotive sulla persona colpita. Con la mia musica voglio realizzarmi, ma allo stesso tempo voglio aiutare chi come me deve affrontare una condizione di vita simile,” mi racconta. “Troppo spesso la società ghettizza i più deboli, lasciandoli da soli in balia del bullismo, reale e virtuale. Attraverso i miei pezzi voglio dare voce alle decine di migliaia di Naomi che si nascondono e soffrono questa condizione sociale e culturale.”
La pandemia ha però rallentato o fermato ogni tipo di attività e questo vale anche per Tony e i suoi tanti concerti forzatamente saltati. Presto, tuttavia, dovrebbe riuscire a girare il video per il suo prossimo singolo. Quel che è certo è che la sua quotidianità è incentrata tutta sulla musica, sullo scrivere e sul godersi gli affetti famigliari, in un momento in cui è giusto avere queste priorità, viste le tante incertezze del futuro.
“Magari un giorno diventerò anche famoso e potrò ritornare nel mio quartiere da vincente. Camminerò nella piazza del mio quartiere in cui sono stato abituato a ricevere sputi e insulti, e i gruppi di ragazzi che mi vedranno, chiedendosi chi sono, non potranno che rispondersi: ‘È Tony uaju’, è Tony King’.” Prima di salutarlo gli scatto un altro paio di foto e mi soffermo sulla scritta “KING” che ha sulle mani, nonché sul suo sguardo, intenso e malinconico.
Mi incammino verso casa immergendomi nei vicoli stretti del Rione Sanità. Da una finestra aperta sento cantare un ragazzino con la musica a tutto volume. Sta ascoltando l’ultimo pezzo di Geolier.