California, agosto 2003. Tom Anderson, Chris DeWare e un manipolo di programmatori lanciano la prima versione di MySpace tra gli impiegati dell’agenzia di marketing Intermix Media (prima conosciuta come eUniverse). La piattaforma negli anni successivi sarebbe esplosa diventando un colosso che avrebbe reso pubblico il concetto di “social network”.
Nello stesso anno, sempre in California, i Blink-182 registrano quello che sarebbe stato il loro ultimo album fino al 2011, quando si sarebbero riuniti per incidere il mediocre Neighborhoods. Conosciuto come Untitled o semplicemente Blink-182, rappresenta il momento in cui una generazione di preadolescenti perennemente arrapati, fissati con lo skate e i vestiti della Atticus, assistono al rito di passaggio di tre figure rappresentative dell’ideale pop-punk di un’adolescenza eterna nel corso di quasi 50 minuti (il disco più lungo della loro carriera) il suono diventa più intenso, strano, per nulla consonante con pezzi tipo “All the Small Things” e “The Rock Show”.
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L’immaginario della band è cambiato, e viene riversato in 15 pezzi che uniranno tutta la generazione gradualmente sempre più interconnessa di MySpace: piena di colori ma fondamentalmente malinconica, in cerca di armonia attraverso la rete ma fortemente dissonante. L’estate infinita del pop-punk mainstream era finita, e a darle il colpo finale furono tre dei suoi figli più devoti.
In seguito al successo planetario di Enema Of The State nel 1999, i Blink-182 erano la band pop-punk per eccellenza: una fabbrica di anthem da classifica e umorismo greve, perfetti per i pomeriggi dei ragazzini brufolosi di mezzo mondo e per le colonne sonore di commedie generazionali come American Pie. In apparenza tre amici idioti con un talento bastardo in comune, in realtà nascondevavano una crescente tensione tra i due frontman Mark Hoppus (basso, voce) e Tom DeLonge (chitarra, voce), con loro che cercavano di “superarsi” nella scrittura della canzone pop punk perfetta; “All the small things”, ad esempio, è la risposta di DeLonge a “What’s my age again?”, scritta da Hoppus.
Le cose proseguono bene con il successivo Take Off Your Pants & Jacket del 2001, praticamente una mezza copia carbone dell’album precedente già a partire dal titolo. Stesso grosso successo, questa volta un pezzo (“Everytime I Look For You”) entra dritto nella colonna sonora di American Pie 2, quindi l’assonanza tra Blink-182 e disimpegno cazzone è ancora più definita. Non che loro si fossero mai impegnati a far credere il contrario, soprattutto durante i live dove Mark e Tom tiravano su uno spettacolo di barzellette, toilet humor, grosse risate e divertimento da confraternita pecoreccia.
Certo, c’erano canzoni come “Adam’s Song” e “Stay Together for the Kids” ad affrontare tematiche come suicidio e famiglie distrutte, oppure canzoni d’amore come “First date”, ma senza mai prendersi eccessivamente sul serio. La festa doveva continuare, e il rapporto conflittuale tra Mark e Tom era sempre protetto da un’amicizia ritenuta eterna (soprattutto da Mark); come si fa spesso dando per scontati i rapporti, non si vede lo scazzo dell’altra persona. E a Tom DeLonge i Blink iniziano a stare stretti, il suo morale viene fiaccato da ernie del disco lancinanti, vengono cancellate delle date.
Dopo l’11 settembre, il clima di orrore e sconfitta accelera ogni risentimento, e Tom decide di andare oltre le limitazioni del pop punk fondando una nuova band.
Introdotto al post-hardcore di band come Fugazi, Quicksand e Refused dal batterista Travis Barker, (l’elemento più “pacato” del trio), DeLonge decide di esplorare sonorità a lui aliene fondando i Box Car Racer nel 2002. Alla batteria c’è Travis, viene lasciato fuori Mark perché ritenuto “non compatibile” con il loro sound. Box Car Racer è effettivamente come suonerebbe un ragazzino fissato con i Lagwagon che sente per la prima volta New Noise e decide di far conciliare pop e sperimentazione, a conti fatti un esperimento innocuo fortemente voluto da Tom per affrontare un periodo oscuro della sua vita segnata dall’abuso di anti dolorifici; ci sono pezzi validi come “I Feel So”, “Sorrow” e “Tiny Voices”, a conti fatti versioni sgangherate di qualcosa dei Sunny Day Real Estate, ma tanto basta per esaltare Tom e Travis.
Concluso un mini tour con i The Used si riuniscono con Mark, ma la frattura è già lì, nascosta in bella vista; il trio eterno del pop punk è stato distrutto da uno dei sui elementi essenziali. Nonostante la sua presenza in “Elevator”, Hoppus avverte il senso di tradimento di quando il tuo migliore amico se ne va con una ragazza e tu resti lì, appeso. I tre chiariscono, e decidono di usare le nuove influenze per far evolvere il loro sound in quello che sarebbe poi diventato Untitled.
Registrato tra gennaio e ottobre, sempre prodotto dal compianto Jerry Finn, l’album “finale” dei Blink-182 abbraccia totalmente il concetto di sperimentazione, ampliando la sfida anche nello studio; vengono usate un numero spropositato di chitarre, tastiere, batterie, qualsiasi strumento musicale viene inglobato. Mark e Tom scrivono il primo pezzo, “Feeling this”, in due stanze separate, scoprendo come si fossero perfettamente bilanciati nel dare lo stesso tono alla canzone, che celebra la passione e la sua fine (“Your smile fades in the summer”), e il tono di tutto il disco viene settato. Durante la scrittura dell’album entra di tutto, dalle velleità post-hardcore allo space-rock di band come Failure e Hum, alla passione di Mark Hoppus per la new-wave, al punto che tentano l’impossibile: chiedere a Robert Smith dei Cure di partecipare a un pezzo, “All of This”, un lento costruito attorno a un giro di chitarra che sembra preso di peso da “The Head in the Door”. La risposta di Smith alla richiesta della band, che temeva in un rifiuto per via del loro passato da cazzoni, è sorprendente e racchiude perfettamente la volontà del gruppo di dimostrare un percorso di crescita sia umano che musicale: “Nessuno può prevedere quali canzoni scriverete in futuro e nessuno conosce il potenziale di una band. La vostra canzone mi piace molto”.
“Violence”, forse uno dei pezzi migliori dell’album, è un’anomalia vera: apertura strana con un riff sbilenco, parti in spoken word, ritornello punk rock velocissimo da stadio. Forse il brano manifesto di un gruppo che vuole togliersi di mezzo tutte le zavorre del passato.
La traccia più famosa è senza dubbio “I miss you”. Vuoi per la voce di Tom che ha generato dei preistorici meme, o per l’incessante diffusione via radio, è senza dubbio il momento “iconico” di Untitled. Con i riferimenti diretti alla mitologia del gotico per ragazzi di Tim Burton sia nel video musicale che nel testo (“we can do like Jack and Sally”), rappresenta la messa in musica di un’estetica che poi avrebbe definito le pagine MySpace di milioni di ragazzi e ragazze; tutto Untitled è un ripescaggio primordiale del goth, dei new romantic (“Always”, conosciuta anche come “The 80s Song”, con un riff ispirato dagli Only Ones), permettendo la diffusione su larghissima scala di sonorità quasi dimenticate, amplificate dall’essere oramai parte di una band come i Blink.
Un pezzo come “Down” ripresenta le vecchie sonorità ma uno spazio di decadenza e rassegnazione (si dice che la prima versione contenesse un intermezzo Drum & Bass), mentre con “Stockholm Syndrome” la band presenta forse uno dei pezzi più intensi e ambiziosi presenti in un album pop punk, con la lettura di una lettera scritta durante la Seconda Guerra Mondiale dal nonno di Mark; per citare le note di Hoppus al pezzo, contenute nel libretto dell’album, l’intento era di dare un sentimento di “profondità e grandiosità” al pezzo, manipolando la velocità delle parti di batteria registrate da Travis. La composizione di ogni brano è curatissima, sentita, dove niente è lasciato al caso o al disimpegno assoluto del pop punk; anche il testo di un pezzo velocissimo come “Go” si riferisce al vissuto di Mark, precisamente a sua madre. La leggerezza è quella di una band con una voce già istituzionalizzata, Untitled arriva subito come qualsiasi cosa pop, ma sondandolo escono fuori un alone di miseria e sconfitta, amori finiti e ricordi stracciati. Come l’estate appena trascorsa, oppure quando la smetti di fare l’imbecille perché, alla fine, sei troppo stanco per continuare.
Non a caso l’album esce a novembre, in pieno autunno, come a lanciare un messaggio anche ai fan che non riescono accettarlo; il tempo del divertimento è finito. E con “I’m lost without you” il gruppo si congeda con il pezzo più lungo della sua carriera, “che suona come qualcosa dei Pink Floyd o dei Failure” (sempre dalle note del libretto); una sparata a caso, oppure la volontà sincera di un gruppo che tenta di emulare i loro miti, magari scoperti due mesi prima? Non importa, perché l’album riscuote per la prima volta un successo di critica quasi unanime, con il trio che dopo 5 anni riesce a concludere un rito e dimostrare al mondo del pop di avere qualcosa da offrire in futuro. Giustamente si sciolgono, perché con questo album hanno dato tutto, detto tutto.
Hanno tentato la reunion, fallendo; Tom DeLonge ha portato all’estremo la sua megalomania fondando gli Angels & Airwaves prima (con velleità da eredi degli U2, vabbè) e poi con la sua compagnia per fare ricerche sugli UFO, ossessione presente dai tempi di “Aliens Exist”. Mark Hoppus e Travis Barker hanno deciso di macinare soldi sull’onda della nostalgia infinita, con una versione cadavere della band mettendo Matt Skiba degli Alkaline Trio alla chitarra. Per molti la band è finita 15 anni fa, anche per me.
Untitled suona come la redenzione e l’accettazione di una frattura, ma anche come il desiderio di lasciare al mondo qualcosa di trasversale, capace di essere riassaporato con il passare degli anni; certo, bastassero le intenzioni, con Tom che nelle interviste prima della pubblicazione rivela come titolo fasullo Our Pet Sounds, e il paragone potrebbe anche starci. Forse.
Una band abituata a sfornare perfette canzoni pop che decide di osare, riempiendo lo studio di strumenti nuovi per abbattere una percezione precostituita, e creare qualcosa che “suoni” come un rito di passaggio. Lasciando da parte il paragone (resta, ma non ci pensiamo), con Untitled i Blink-182 portano nelle classifiche l’inizio di una mutazione generazionale; consegnandogli estetica, musica e spunti non scontati per la loro identità che si sarebbe definita su MySpace: usando la palette cromatica della copertina, le ragnatele di “I miss you” per idealizzare l’amore, la rabbia di “Stockholm Syndrome” come manifesto, la voce di Robert Smith come qualcosa di perturbante proveniente da un sogno dimenticato. In perenne contatto, ma con il rischio di essere sempre più soli. Come per qualsiasi band, non è mai possibile prevedere come si evolverà una generazione in futuro, ma ascoltando Untitled si può avere un’idea del momento in cui una stagione andava a morire.