“we agreed it was inevitable
(…)
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he promised night
such a sickness
nerver known
‘this planet rotten’
some future some futility one future”
(Genesis, P-Orridge, “Poem For Uncle Bill”)
I versi con cui ho aperto il post furono scritti da un giovane Genesis P-Orridge, ancora barbuto e capellosissimo, in piena immersione controculturale e presissimo dalla performance art del collettivo COUM, prima che questo si trasformasse nella macchina di morte Throbbing Gristle. Un’elegia hippie per celebrare il primissimo incontro tra l’artista-non-ancora-musicista e William S. Burroughs, a Londra, nell’appartamento che questo condivideva con un giovane marchettaro irlandese di nome John. Per P-Orridge, che aveva attirato l’attenzione dello scrittore mandandogli un incomprensibile e provocatorio bigliettino in cui insultava a caso sia lui che Allen Ginsberg, si trattò di una specie di epifania, di comunione spirituale tra identità che avevano da sempre condiviso uno stesso spazio mentale senza saperlo.
Ci sono decine e decine di fotografie che ritraggono Burroughs a fianco di musicisti rock famosi, molte delle quali mi hanno fatto chiedere cosa volessero davvero quelle rockstar da lui, cosa sperassero di condividere almeno artisticamente, visto che umanamente era fin troppo noto per essere impenetrabile, severo come uno strumento chirurgico. Non ho mai capito in che modo un socialdemocratico buonista come Joe Strummer o un buffone rancoroso come Frank Zappa intendessero relazionarsi con una figura come la sua. Quella di P-Orridge, pur rimanendo il tributo di un fanboy ventenne al suo idolo, mi è sempre sembrata uno dei pochi tentativi di raccontare la maniera e le motivazioni che avevano caratterizzato questo incontro. Un esperimento di creazione di un linguaggio (o anti-linguaggio, meglio) comune in cui ficcare pulsioni comuni.
Le connessioni tra l’autore di Naked Lunch il mondo della musica sono innumerevoli: anche quando non si limitavano a farcisi una foto insieme al party mattissimo di turno, musicisti pop di almeno un paio di generazioni si sono messi in fila per cercarlo, pagargli tributo o semplicemente cercare di comprenderlo. Per un sacco di tempo, il suo mix di vita ai margini, posizioni artistiche “oltraggiose”, e iconografia minimalista lo hanno reso cool agli occhi dei giovani, tanto che per gran parte degli anni Settanta lo scrittore finì a guadagnarsi da vivere firmando pezzi per Rolling Stone e sottoprodotti vari (“Perché hai fatto quella merdosa intervista con Bowie?” gli chiese Genesis, risposta: “Per farmi pubblicità”). Curioso notare quanto, comunque, Burroughs fosse già anagraficamente lontano da quei pischelli, al tempo in cui l’indecifrabilità tragica della sua vita lo aveva costretto a diventare uno scrittore, e allo stesso tempo avanti di almeno una generazione in quanto a posizioni poilitiche e artistiche. Come un Rimbaud in negativo, come se solo un’età dolorosa come la vecchiaia, immatura quanto l’adolescenza se non peggio, potesse fornire la pazzia necessaria per scrivere in maniera così atroce e splendida. Qualcuno dice che anticipò attitudinalmente il punk, ma neanche questo è del tutto vero. Ad ogni modo, è questa connessione il motivo per cui oggi, a cento anni esatti dalla nascita di William Seward Burroughs, scrivo un articolo su di lui per un magazine musicale, ma non è affatto questo il motivo per cui considero fondamentale il suo contributo al mondo della musica contemporanea.
No, ha più a che fare con la maniera in cui, per tutta la sua vita artistica, Burroughs ha messo in gioco un modo di scrivere basato su una scansione ritmica e di idee apertamente contraddittoria, in cui il rumore—inteso come disturbo dell’informazione, malattia incomprensibile che interrompe il normale svolgersi della comunicazione—ha un ruolo di primo piano. La coscienza umana la vedeva come un agglomerato di virus linguistici, un mucchio di creature parassitarie che si riproducono a nostra insaputa e sostengono le basi della società, della violenza non-dicibile del potere e del controllo. La dipendenza da eroina che lo aveva accompagnato per tutta la vita adulta gli aveva insegnato un mondo in cui le pulsioni umane fluiscono dagli organi a delle gelide protesi desideranti: la siringa, la forchetta, la pistola.
È molto difficile spiegare la sua arte a chi ha letto i suoi libri, figuriamoci a chi non li ha letti. Basti sapere che tutto quello che ha scritto è insieme eccitante e pesante, osceno e sarcastico, violento e divertente: riesce a usare momenti di humor assurdo e deficiente per esprimere invece quella tristezza dell’irrisolto che ogni grande artista dovrebbe avere. I suoi libri sono tutti un unico flusso di ossessioni personali e demonologie ricorrenti, ma in qualche modo sembrano raccontare tutta la storia della civiltà occidentale.
Tantissima musica jazz aveva già sperimentato lo stesso modo di fare arte combinando dei “blocchi” di suono o idee, sfruttando ripetizione, dissonanze e libera intuizione, e influenzando tutti gli amici beat di Burroughs. La prima cosa rock a sfiorare la sua potenza metallica, però, furono gli Stooges. A parte la citazione esplicita in “Gimme Some Skin”, direi più per l’incarnato di Iggy Pop come prototipo originale dei Wild Boys del romanzo, per l’animalità del loro casino infernale. Sono stati la prima band in assoluto a non separare l’erotismo umano dalla pesantezza delle macchine, ma neanche dalle profondità psichedeliche dello spirito. “Penso che, in realtà, considerasse il rock’n’roll una gran merda, e per lo più lo è davvero” dice Iggy di William, e come dargli torto. Dopo di loro, dopo la sessualità aliena di certo glam e le derive paranoiche della psichedelia, arrivò la musica industriale degli stessi Throbbing Gristle di prima, e da lì in poi tutta la musica, elettronica e non, che ha messo il corpo al centro del rumore e sparpagliato la coscienza tutto attorno. La negazione totale delle forme rock e, insieme, l’affermazione totale della potenza dei suoi mezzi. In diversi suoi libri ricorre l’immagine (tutt’altro che retorica) degli “heavy metal kids”: “With their diseases and orgasm drugs and their sexless parasite life forms – Heavy Metal People of Uranus wrapped in cool blue mist of vaporized bank notes – And the Insect People of Minraud with metal music” almeno vent’anni prima che comparisse sulla terra qualcosa chiamato effettivamente heavy metal, lui immagina già una forma estatica di aggressività, affaticata da pulsazioni tonali martellanti e feedback.
La nostra vita di tutti i giorni sembra avere ereditato il più possibile dalle sue visioni. Nel momento in cui i nostri pensieri si fanno costantemente informazione accessibile a tutti, non riusciamo nemmeno più a farci un’idea quanto della nostra identità e delle nostre azioni stia invece nutrendo una macchina che ci avvelena e tiene in vita allo stesso tempo. La violenza e la guerra sono rimosse, confinate in uno spazio virtuale di informazioni finendo allo stesso tempo per essere una presenza costante, nutrendo col cucchiaino la promessa di un crollo che non arriva mai. In un’epoca del genere, la musica pop vive uno stato di sovraeccitazione in cui tutte le epoche si stanno sovrapponendo, e prodotti del consumo più becero del passato oggi diventano mitologia. Produciamo, ascoltiamo e balliamo suoni interfacciandoci con le stesse macchine con cui accediamo il flusso di dati che ci serve a svolgere qualsiasi altra attività. L’atto di fare musica è ormai consapevolmente quello di prendere oggetti e spazi di suono dalla realtà e metterli in relazione tra loro, più per contrasto che armonia, a prescindere da quanto accessibile sia il risultato.
Quello che non dobbiamo mai dimenticare è che la chiave per sviluppare queste conquiste in senso positivo, per passare da uno stato di smarrimento angosciante a uno smarrimento magico, sta lì nei suoi libri, sta in tutte le parole scritte da quell’uomo dagli occhi tristi nato cento anni fa, che per tutta la sua vita sembrò averne già cento.
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