È successo probabilmente un po’ a tutti di essersi presentati frettolosamente a un gruppo di sconosciuti e averne dimenticato le facce nel giro di poche ore—ma alcune persone hanno più difficoltà di altre a riconoscere e ricordare i volti, che siano quelli di celebrità o di conoscenti.
“Nonostante la sensazione sia sempre che apriamo gli occhi e riconosciamo tutto, e che quindi la percezione sia un processo semplice, è un processo molto complesso, soprattutto per discriminare stimoli come i volti, che sono molto simili tra di loro perché condividono le caratteristiche principali,” dice Roberta Daini, professoressa di neuropsicologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
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Riconosciamo un volto attraverso quella che Daini definisce una una percezione olistica, globale, configurale, ovvero analizzando le facce in quanto organizzate effettivamente più o meno tutte allo stesso modo ma distinte attraverso il colore degli occhi, la forma della labbra, eccetera. “[Con altri oggetti,] il riconoscimento può avvenire anche sulla base di singole caratteristiche distinte l’una dall’altra. Per il volto, le singole caratteristiche non mi permettono di riconoscerlo, anche se fanno parte del processo di riconoscimento.”
Si tratta di un processo che, per quanto complicato, siamo abituati a compiere in maniera spontanea e praticamente automatica sin dalla nascita, ma con risultati diversi da persona a persona. “Qualsiasi abilità è distribuita nella popolazione,” dice la professoressa. “Alcune persone sono più brave a fare una cosa, altre meno, e la maggior parte è più o meno brava nella media.”
In ambito neuropsicologico, chi non dimentica praticamente mai un volto viene chiamato “super-recognizer”, mentre all’estremo opposto dello spettro, un problema di una certa gravità (e che riconoscerà chi ha letto per esempio Oliver Sacks) prende il nome di prosopagnosia.
Non esistono studi epidemiologici sufficientemente accurati, chiarisce Daini, ma alcune ricerche suggeriscono che il 2-2,5 percento della popolazione conviva con una prosopagnosia congenita (presente dalla nascita), a cui andrebbero poi a sommarsi quelle con prosopagnosia acquisita—ovvero causata in seguito, per esempio, da una lesione cerebrale. È ragionevole pensare che le persone con una lieve difficoltà possano essere molte di più, ma in quel caso il problema non sarebbe tale da incidere sulla loro vita quotidiana.
Chiariamo subito che non riuscire a memorizzare facilmente i volti non significa automaticamente essere prosopagnosici. “La prosopagnosia è un po’ un’etichetta che viene data sulla base di valori normativi statistici. [Per] alcune persone è invalidante, per altre non lo è,” prosegue la professoressa.
E l’esperienza non c’entra. Di volti ne vediamo tutti tantissimi, da sempre e continuamente, dal vivo e riprodotti, ma non è come fare pratica per imparare a giocare a calcio, insomma. “Gli studi sembrano aver dimostrato sufficientemente che è un’abilità che richiede un patrimonio genetico specifico, quindi sono i geni a portare a una maggiore o minore potenzialità di riconoscimento,” spiega Daini.
Le difficoltà che sperimentano alcune persone sarebbero dunque dovute a fattori genetici, e anche alla capacità di utilizzare strategie alternative—come memorizzare la capigliatura, la voce, la postura, ad esempio—per compensare un deficit più o meno grande.
Se la difficoltà è molto pronunciata, le persone possono far fatica a seguire gli attori su uno schermo, perché ne perdono l’identità. Nei casi più gravi non riescono a riconoscere i propri familiari e loro stessi allo specchio. Ma lo scenario più comune è quello in cui si hanno problemi a identificare le persone che si sono viste poco, magari fuori dall’ambiente in cui siamo soliti incontrarle e soprattutto perché non si possono utilizzare altri riferimenti. Se si tratta di un problema ricorrente, ad ogni modo, l’esperta esclude che possa essere legato a timidezza o distrazione.
La gravità dipende molto da quanto questo incide sulla vita e sul lavoro. “Conosco una persona che sicuramente ha una prosopagnosia congenita [ma] poi è molto brava a utilizzare strategie compensative, quindi per lei non è mai stato un particolare problema nella vita,” dice Daini. La psicologa ricorda però anche il caso di una docente che aveva sempre utilizzato come strategia per riconoscere gli studenti la loro posizione nell’aula, finita in una scuola in cui per favorire la socializzazione tra gli alunni ogni settimana questi cambiavano di banco: “Questa insegnante ha vissuto molto male la situazione, non è stata compresa a livello di dirigenza scolastica e dopo un po’ di tempo ha dato le dimissioni.”
Se ci si rende conto di avere una difficoltà a riconoscere i volti che è particolarmente fastidiosa per motivi personali o lavorativi, è possibile sottoporsi a test per valutare l’eventuale entità del problema. “In alcuni casi può aiutare avere un riconoscimento esterno delle difficoltà, anche per poter trovare strumenti [di supporto]. Ma non ritengo che, in assoluto, tutti dovrebbero avere questo tipo di valutazione ed eventualmente diagnosi,” dice Daini.
In alcuni casi e per professioni specifiche, aggiunge, “si può pensare magari di essere sottoposti a training cognitivi che facilitino il riconoscimento.” Mentre la ricerca, aggiunge, sta studiando anche possibili soluzioni farmacologiche a base di ossitocina, che potrebbero facilitare e migliorare le prestazioni.
Secondo l’esperta sarebbe utile però una maggiore sensibilizzazione. “Lo dico perché è possibile confondere, all’inizio dello sviluppo, [questo] tipo di problematica con quello che viene definito autismo, che oggi comprende un range di difficoltà molto ampio,” spiega la psicologa. “Magari il bambino non guarda negli occhi le persone perché lo trova poco informativo. Magari guarda intorno al volto, altri aspetti—e non perché abbia un problema sociale, ma perché ha una difficoltà a utilizzare quell’informazione per capire chi l’altro sia. Possono esserci diagnosi sbagliate che poi uno si porta dietro nella vita.”
Nella stragrande maggioranza dei casi, comunque, le persone semplicemente percepiscono di non essere particolarmente capaci a riconoscere i volti, e basta. In molti, anche tra i prosopagnosici, imparano presto e in modo naturale a mettere a punto strategie alternative per orientarsi, vivendo più o meno consapevolmente questa difficoltà come parte del proprio modo di essere.