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Come il computer ha distrutto il corpo umano

effetti negativi del computer sulla salute

Nel 1981, Henry Getson di Cherry Hill, in New Jersey, ha mandato una lettera alla sua rivista di computer preferita, Softalk. Descrivendosi come un utente “non esperto,” Getson si complimentava con la rivista per gli articoli accessibili per persone come lui, che aveva appena iniziato a programmare. La sua lettera si chiudeva con una domanda semplice: “P.S. Che rimedi consigliate per gli occhi stanchi?”

I redattori di Softalk sapevano esattamente di cosa parlava Getson e hanno risposto per esteso al “problema che molti amanti del computer condividono.”

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“Un certo sollievo è dato dall’immergere in acqua tiepida un panno e tenerlo sugli occhi per qualche minuto,” scrivevano. Nei numeri successivi, altri lettori hanno inviato i loro consigli e rimedi per l’affaticamento agli occhi, come modificare lo schermo con un pannello di plexiglass coperto dal “materiale che si usa per schermare dal sole le automobili,” o comprare una gelatina da luci di teatro color verde chiaro e incollarla al monitor.

Ciò che Getson stava scoprendo all’epoca, come il resto dei primi pionieri dei PC, è quanto usare un computer faccia male. I problemi di vista erano il residuo incarnato dell’interazione tra luce, vetro, plastica, colore e le altre proprietà dell’ambiente circostante.

visual display terminal
Illustrazione di un monitor da computer (chiamato Visual Display Terminal), 1980

Quando una luce dall’alto, da ufficio, o quella del sole proiettata da dietro le spalle della persona colpivano la curvatura di uno schermo CRT (o a tubo catodico), il risultato era un riflesso sulla superficie speculare del dispositivo. La forte illuminazione dall’alto tipica del 20esimo secolo—congeniale a scartoffie, lettura e lavoro da ufficio tradizionale—condizionava negativamente la vista umana quando una persona sedeva davanti al vetro scuro di un computer.

Decenni prima che la “Zoom fatigue” consumasse le nostre anime, la cosiddetta rivoluzione informatica ha portato con sé un mondo di dolore fisico senza precedenti. A differenza della televisione, che viene guardata a distanza, in qualsiasi posizione e non prevede interazioni, i computer implicano una profondità di campo ridotta, movimenti oculari ripetitivi, e l’estensione costante delle braccia verso tastiera e mouse. Il dolore esperito da Getson era intrinseco a una vita vissuta sullo schermo e sarebbe diventato sempre più comune con il diffondersi, nei decenni successivi, dei personal computer nelle case di tutti.

Quarant’anni dopo, gli effetti collaterali dell’uso del computer giocano un ruolo spropositato nella nostra salute fisica (e sempre più anche mentale), mentre l’esigenza di lavorare da casa ci costringe a costanti adattamenti. Ci massaggiamo i polsi e sistemiamo meglio lo schermo, spendiamo soldi per sedie ergonomiche e alzatine per portatili, standing desk, mentre fisioterapisti e osteopati fanno del loro meglio per tenere a bada una valanga di disfunzioni fisiche che nessuno di noi ha scelto. Ma chi non può permettersi mobili costosi e supporto medico costante, resta gobbo su un tavolino da caffè o impila libri uno sull’altro per alzare il computer come può. I nostri corpi non sono fatti, letteralmente, per lavorare in questo modo.

Ovviamente, esistevano problemi di salute legati ai computer anche prima dell’arrivo dei PC alla fine degli anni Settanta. I grandi mainframe—con le loro esigenze energetiche e di raffreddamento—e le rumorose telescriventi di metà secolo erano noti per lo stress che causavano sull’apparato uditivo. Un articolo del New York Times datato 1969 elencava “computer, macchine da scrivere e tabulatori,” tra le miriadi di macchine che inquinavano il panorama sonoro di New York. Nel 1970, il magazine Datamation illustrava un report governativo su perdita di udito e centri informatici.

Poi, come dimostra il caso di Getson, l’attenzione si è spostata dall’udito alla vista, non appena sono stati introdotti i monitor CRT e la loro scarsa risoluzione.

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Il terminal DEC VT52 (non ancora un personal computer come li intendiamo noi oggi). Immagine: Wikimedia Commons.

Con l’avvento dei microprocessori, i primi designer iniziarono a progettare computer in cui CPU, schermo e tastiera convergevano in un unico prodotto per consumatori. L’Apple 1 di Steve Wozniak, presentato nel 1976, era uno dei primi microcomputer a includere un adattatore video, insieme al SOL-20 di Processor Technology, uscito lo stesso anno.

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Un manifesto pubblicitario del primo computer Apple, uscito nel 1976. Non aveva periferiche incluse, ma un adattatore a cui attaccare schermo e tastiera. Immagine: Wikimedia Commons.

L’Apple 1 non includeva monitor e tastiera nel prezzo d’acquisto, ma il fatto che avesse integrati gli adattatori per entrambe le periferiche era di per sé innovativo.

Il SOL-20, invece, includeva la tastiera nel computer, tutto manufatto in un unico case di metallo e legno. Nel 1977, l’uscita della prima vera ondata di personal computer sul mercato—Apple II, TRS-80 e Commodore PET—ha determinato l’omologazione di tastiera e schermo come periferiche essenziali a una CPU.

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TRS-80, Apple II, e Commodore PET. Immagini: Wikimedia Commons

È stato allora, alla fine degli anni Settanta, che i computer sono diventati “desktop” (da scrivania) e hanno determinato la postura fisica che conosciamo oggi: i polsi piegati sulla tastiera, gli occhi incollati al monitor, la mano sul mouse che scivola a lato. Col diffondersi dei desktop computer in uffici, scuole e case negli anni Ottanta, il dolore cronico ne è diventato residuo imprevisto, con un aumento esponenziale dei casi di tendini infiammati, problemi di vista e mal di schiena.

Guardare la storia dell’informatica attraverso la lente del dolore da computer è centrarla su corpi, utenti e azioni anziché su hardware, software e inventori. Questa prospettiva impone alla storia dell’informatica di dialogare con un mondo che va oltre il carisma del computer come oggetto, e riguarda invece la cultura materiale, la storia del design, l’etnografia del posto di lavoro, gli studi sul tempo libero. Per tutti quei “computeristi dagli occhi stanchi,” la cultura dei computer non era ciò che accadeva sullo schermo, ma ciò che accadeva ovunque tranne che lì: sopra e sotto tastiere, televisioni, joystick, scrivanie, uffici, cucine, tavoli letti, mani, occhiali, lampadine, finestre, supporti per la schiena, prese elettriche e così all’infinito.

Il punto di questo discorso è arrivare a una consapevolezza espansa della relazione tra il corpo e i molti ambienti costruiti che occupa, tra chi aveva la libertà di costruire il proprio mondo e chi ha dovuto sopportarne il peso.

Come capita spesso, questo peso è ricaduto sulle donne e in particolare, in molti casi, sulle donne di colore. Nonostante la storia abbia raccontato l’ascesa dell’informatica come un’attività di invenzioni prettamente maschili, le donne erano presenti ovunque—e i loro corpi sono stati in prima linea nelle trasformazioni drammatiche dell’automazione del lavoro rappresentate dai terminali negli anni Settanta e dai PC negli anni Ottanta. A differenza di amatori e autodidatti come Henry Getson, tanto per le donne bianche quando per quelle di colore l’uso del computer era legato al lavoro, poiché la tecnologia informatica passava prima di tutto da quei compiti amministrativi tradizionalmente affidati alle donne, come il calcolo, l’inserimento dati, l’archiviazione di libri e via dicendo.

Se anziché guardare al computer guardiamo al corpo, la storia cambia. Non c’è nessuna grande narrativa, solo frammenti e scampoli di un archivio decentralizzato, ma uno che, per giustapposizione, offre la verità su come abbiamo imparato a convivere con i computer. Non è la storia di app geniali, hack pirotecnici e di maghi del codice che stanno svegli tutta la notte; è una storia più quieta e difficile da ricostruire, intima: una storia di abitudini, usi e soluzioni. Il dolore che senti al collo, il formicolio delle dita, ha una storia molto più capillare e impattante di quella di qualsiasi grande innovatore. Nessun computer da solo ha cambiato il mondo, ma il dolore provocato dai computer ha cambiato tutto.

Documentare gli effetti negativi sulla salute causati dai computer

nel 1981—16 mesi prima che il Time decretasse il PC macchina dell’anno 1982—la rivista Human Factors pubblicava un volume sul problema dei computer sul luogo di lavoro, sottolineando come “il numero di lavoratori che usa terminali a schermo è già ampio e in rapida crescita.” L’intero numero è una finestra indietro nel tempo, sui lavoratori che per primi hanno negoziato l’arrivo dei computer nei loro uffici.

Tra le ricerche riportate, c’è un paper intitolato ““An Investigation of Health Complaints and Job Stress in Video Display Operations,” che si concentra sulla relazione tra le lamentele relative alla salute e l’uso dei monitor in ufficio.

Per condurre la loro analisi, i ricercatori hanno intervistato e dato questionari sia a “professionisti” che “impiegati” di diverse aziende dove si usavano i terminali. Per avere un confronto, i ricercatori hanno sottoposto le stesse domande anche a un gruppo di persone che facevano lavori simili ma ancora manualmente. Degli impiegati coinvolti nel primo gruppo, il 67 percento era donna, di cui gran parte di colore. La distinzione tra impiegati e professionisti è fondamentale, nel momento in cui il primo gruppo ha molto meno controllo sul tipo di lavoro chiamato a svolgere o sulla gestione del tempo al monitor.

Nell’analizzare i dati, i ricercatori hanno scoperto che “Gli operatori impiegati che usano terminali a schermo mostrano livelli significativamente più alti di disagio visivo, muscolo-scheletrico ed emotivo, oltre a livelli più alti di stress lavorativo, rispetto ai soggetti nel gruppo di controllo e ai professionisti che usano i terminali a schermo.” In ogni categoria—dagli svenimenti al dolore allo stomaco alla pressione cervicale fino ai crampi alle mani—la percentuale di lamentele era il doppio, il triplo o il quadruplo per gli impiegati stazionati davanti ai monitor.

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Tavola 8 da “AN INVESTIGATION OF HEALTH COMPLAINTS AND JOB STRESS IN VIDEO DISPLAY TERMINALS.”

Tra il 70 e il 90 percento dei partecipanti riportava vista appannata o sfocata e stanchezza agli occhi, e alcune delle differenze più evidenti tra gli impiegati e i soggetti nel gruppo di controllo—come cambiamenti nella percezione dei colori e crampi ai polsi—erano chiari indici delle conseguenze dell’uso ripetitivo e continuato del computer. Queste donne rappresentavano la fascia di lavoratori con il minor grado di autonomia sul proprio lavoro e, per questo, i loro corpi pagavano il prezzo più alto.

C’era anche un altro elemento lamentato dai soggetti del test e documentato dagli scienziati, che non sapevano però che cosa farsene precisamente. I ricercatori hanno infatti determinato che gli impiegati che usavano i computer denunciavano livelli più alti di monotonia, stanchezza e scontento del proprio lavoro rispetto a chi faceva lo stesso lavoro ma ancora manualmente. Per dirlo con le loro parole, “i problemi di stress riportati dagli impiegati che operano un terminale non sono solo legati all’uso dello stesso, ma a tutto il sistema.” Incaricate di svolgere compiti noiosi e ripetivi, queste persone sentivano di essere “poco coinvolti dal loro lavoro,” e di avere poco controllo sulle proprie mansioni. Per le donne incollate ai monitor dei computer, il problema non era solo il computer, ma che la produttività imposta dalle macchine incideva negativamente sulla soddisfazione che il loro lavoro dava.

Ma cos’era esattamente dei computer che rendeva il lavoro più doloroso? La risposta è arrivata solo nel 1988, con la pubblicazione di In the Age of the Smart Machine: The Future of Work and Power di Shoshana Zuboff.

Le indagini di Zuboff hanno rivelato il vero prezzo psico-fisico dei computer sul posto di lavoro. Nel quarto capitolo del libro, intitolato “Office Technology as Exile and Integration,” Zuboff documenta il tempo passato a osservare due uffici amministrativi i cui impiegati usavano i computer (Zuboff non offre statistiche quantitative sui lavoratori osservati, ma sottolinea che erano prevalentemente donne). Prima dei computer, queste donne hanno descritto la relazione con il proprio lavoro come molto materiale. Si muovevano per recuperare documenti e compilarne di nuovi tra archivi fisici, lasciavano note e aggiornamenti a mano e facevano uso della loro conoscenza dei clienti, del mestiere e consultandosi con colleghe e superiori. I computer sono stati introdotti per ottimizzare il lavoro di queste donne, cancellando le piccole abitudini fisiche, le discussioni, il riordino di fogli e le pratiche personalizzate di annotazione.

Con l’arrivo dei computer, spiega Zuboff, improvvisamente effettuare modifiche al profilo di un cliente significava inserire dati secondo categorie preimpostate. Il lavoro è diventato un riempimento di spazi vuoti e per le impiegate e gli impiegati non c’era più spazio per prendere decisioni. Il coinvolgimento intellettuale è diminuito drasticamente, ma la necessità di concentrazione è aumentata, diventando uno sforzo. Questa transizione—dal lavoro come applicare conoscenza al lavoro come applicare attenzione—ha avuto un impatto fisico e psicologico profondo sui lavoratori d’ufficio.

Zuboff ha tracciato il peso del cambiamento chiedendo ai suoi soggetti di disegnare se stesse al lavoro prima e dopo i computer. Le immagini parlano chiaro: i lavoratori si ritraevano felici prima dei computer, spesso in compagnia di altre persone. 

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Figura 4.8 estrapolata da ‘Age of the Smart Machine’, pagina 145

I computer hanno portato una sorta di desolazione: una persona che è diventata niente più della sua nuca, intrisa di un senso di solitudine. Uno dei disegni è accompagnato dalla descrizione: “non parlare, non guardare, non camminare. Ho un tappo in bocca, tende sugli occhi, catene alle braccia. Ho perso i capelli per le radiazioni. L’unico modo per raggiungere gli obiettivi di produttività è rinunciare alla libertà.” Il lato della scrivania è coperto dalla freccia in salita di un grafico di produttività. Un’altra immagine ritrae una lavoratrice con addosso una divisa a righe da carcerato. Un telefono squilla insistentemente sul tavolo e un vaso di fiori marcisce di fianco al computer. Il calendario è vuoto e il suo superiore la controlla dall’alto.

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Figura 4.12 da ‘Age of the Smart Machine,’ pagina 147

Queste immagini tradiscono la vera ragione dell’introduzione dei computer in ufficio: promesse di efficienza e produttività—la cantilena dell’automazione. Con i computer a ottimizzare la quantità di dati che un lavoratore poteva elaborare, il corpo umano non avrebbe più condizionato i profitti con i suoi stupidi limiti fisiologici.

Lavorare per contrastare i dolori da computer

Mantenere le operazioni profittevoli, però, significava trovare modi per mitigare, negoziare e riconoscere le crescenti lamentele di dolore fisico delle persone. Alla metà degli anni Ottanta, specialisti di ergonomia e salute fisica hanno iniziato a interessarsi all’uso dei computer da scrivania.

Ne sono testimonianza libri come Zap!: How Your Computer Can Hurt You and What You Can Do About It, che presenta l’ufficio o come un’ecologia in cui le relazioni tra monitor, tastiere, luci, sedie, qualità dell’aria e orari di lavoro devono essere costantemente manipolati per ottenere la perfetta “postazione di lavoro”. Anche gli specialisti di fitness hanno lucrato sulla nuova attenzione data ai corpi dei lavoratori da computer: la guida di Denise Austin intitolata Tone Up at the Terminals: An Exercise Guide for High-Tech Automated Office Workers ne è un perfetto esempio.

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Denise Austin, ‘Tone up at the Terminals,’ fine anni Ottanta
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Denise Austin, ‘Tone up at the Terminals,’ fine anni Ottanta

Il ruolo di Austin—e del suo manuale—è fungere da guida entusiastica, spiegando al lavoratore come ridurre la tensione e la “fatica nervosa.” Spalle, braccia, polsi, mani, vita, schiena, gambe, caviglie, piedi e postura sono tutte parti considerate in una serie di posizioni sempre più tendenti all’assurdo che Austin assume, pur restando seduta alla scrivania.

Austin non si alza mai: di certo i capi di un ufficio non avrebbero gradito vedere i propri dipendenti stiracchiarsi camminando verso il distributore dell’acqua. Il decoro femminile di Austin ci ricorda delle donne dello studio di Zuboff: l’enfasi sul non interrompersi, sul non occupare troppo spazio, sul continuare a lavorare. Il manuale si conclude con un auto-abbraccio. Infondo, “TE LO MERITI!”

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Denise Austin, ‘Tone up at the Terminals,’ fine anni Ottanta

Sappiamo che questo manuale è stato progettato per disciplinare un tipo specifico di corpi. Come Zuboff ha documentato nel suo lavoro, l’arrivo dei computer era parte di una spinta ad automatizzare soprattutto lavori amministrativi tipicamente femminili, come l’inserimento dati e l’elaborazione di testi—la dattilografia e la scrittura a macchina erano lavori insegnati alle scuole femminili, non in quelle maschili per tutto il Ventesimo secolo.

Come sottolineano storici dell’informatica come Paul Atkinson e Jesse Adams Stein, le pubblicità riflettevano a loro volta questa visione ansiosa dei ruoli di genere sul lavoro anche negli anni Ottanta: le donne erano spesso rappresentate sedute al computer, gli uomini in piedi, dietro le loro spalle, a indicare qualcosa sullo schermo. Solo con l’arrivo del mouse, alla fine degli anni Ottanta, questa tensione ha iniziato ad allentarsi: con un mouse, un responsabile uomo poteva usare un computer senza adottare la stessa postura “umiliante” della sua segretaria.

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Annuncio per il Cummins KeyScan System. Prima dell’arrivo dei personal computer, le donne erano ritratte come le persone che tipicamente lavorano a computer. Datamation, giugno 1976 pagina 91
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Pubblicità del Macintosh di Apple. Il capo uomo siede comodo dietro il computer, senza toccare né il mouse né la tastiera, evitando le caratteristiche “femminili” associate al lavoro amministrativo.

Il risultato finale è una lotta decennale tra il corpo e la macchina che, un tempo legata a un solo genere, ha poi conquistato la popolazione indiscriminatamente. Il computer ha riorganizzato il modo in cui usiamo i nostri corpi quotidianamente—e le conseguenze sul lungo periodo sono ancora sconosciute. Ma dolori cronici e stanchezza agli occhi sono una realtà già fin troppo comune per le generazioni attuali.

Gestire il dolore causato dalla tecnologia è la nostra quotidianità

Come nel manuale di esercizi da ufficio di Denise Austine, anche le soluzioni di oggi ai dolori da computer ci chiedono di interiorizzare la responsabilità del nostro benessere, e non diventare un peso per il posto di lavoro o la produttività. Il nostro dolore nutre nuove industrie, fiorendo sottoforma di scrivanie per lavorare in piedi, scrivanie con le ruote, tastiere aggiustabili e mouse ergonomici, software di riconoscimento vocale. E cerchiamo aiuto anche oltre.

Una delle personalità più popolari dello yoga su YouTube, Adriene Mishler, offre diversi video che ricalcano l’eredità di Austin, compreso ““Yoga alla scrivania,” “Yoga per la pausa in ufficio” e ““Yoga for il torcicollo da smartphone.” E non è la sola a produrre contenuti simili. Il fatto che risalgano quasi tutti a un tempo pre-pandemia, in aggiunta, dimostra che per quanto la nostra condizione fisica si sia aggravata lavorando da casa, il problema precede di gran lunga le chiamate su Zoom o il dover lavorare seduti su una sedia scomoda della cucina. Queste pratiche sono diventate parte integrante del modo lavoriamo—passando poi il tempo rimanente a riparare il danno fatto dai nostri lavori— e si evolvono con l’evolversi della tecnologia. Il “torcicollo da smartphone” ne è solo un’ultima variante.

La postura della testa piegata è indice della natura ingombrante del multitasking, un termine ormai sinonimo del significato stesso di usare un dispositivo informatico—scivolare tra applicazioni, spostare l’attenzione da una priorità all’altra senza spazio per un adattamento contestuale, il movimento senza soluzione di continuità che caratterizza la nostra vita persona e quella lavorativa. Il multitasking faceva un tempo riferimento solo al reame del computer: era un termine tecnico, che definiva la capacità dei sistemi di processare le operazioni di diversi utenti. Tra gli anni Ottanta e Novanta, con il rapido diffondersi delle interfacce grafiche e della gig-economy, il termine multitasking ha iniziato ad essere applicato al lavoro umano, allo stato idealizzato del poter lavorare su diversi compiti più o meno simultaneamente.

Perciò, la prossima volta che senti di avere gli “occhi stanchi,” i polsi intorpiditi, un crampo al collo, ricorda che la funzione della tecnologia non è mai stata renderci le vite più semplici, ma solo complicarle in nuovi modi. I dolori da computer e gli sforzi allucinanti che gli esseri umani compiono per alleviarli, gestirli, sopportarli, ci spingono a chiederci quanto i computer siano diventati personali. L’introduzione dei computer nella vita quotidiana, tanto al lavoro quanto in casa, è stato un evento storico che ha portato con sé un’ampio senso di ansia culturale rispetto ai corpi. Per raccontare la storia dell’informatica diversa da quella che conosciamo, dobbiamo pensare alla lettera di Getson e considerare che tipo di racconto giaccia inascoltato intorno ai computer, anziché al loro interno.