The Blue Quicksand Is Going Now, piombato sulla terra da un paio di mesi, è il primo LP che il neozelandese Oliver Peryman ha registrato e firmato col monicker FIS, Forever In Search. Da quello che ho capito parlandoci, Oli non fa troppa fatica a tenere fede a questa dichiarazione di intenti: il discorso iniziato coi singoli su Samurai Horo e sviluppato con gli EP Preparation e Iteration per Tri Angle si è arricchito ulteriormente passando per questo nuovo LP su Loopy, affrontato dichiaratemente come una svolta organica e cruciale. Le radici post-punk allagate di dub & bass hanno iniziato ad aprirsi per far germogliare una vitalità enorme, malinconica e meravigliata, rumorosa, piena di micro-dettagli digitali. È un album che soverchia e rapisce, che rimesta tra le emozioni, la memoria e le idee, usandole per nutrire un nuovo ecosistema (o exo-sistema) tonale. Nelle sue mani, l’informazione digitale segue il corso imprevedibile e potente degli elementi.
Parlare di FIS in termini ecologici non è per niente improprio: oltre a suonare, Oliver nella vita fa il progettista di permacolture e giardini, quindi cura e gestisce organismi viventi per farli proliferare, trasforma gli spazi in sistemi in cui creature di diversi regni possano inserirsi a vantaggio comune. Uguale per la musica: i suoi suoni vivono, crescono e si sviluppano autonomamente scambiandosi materia e risorse, mentre lui fa del suo meglio perché si armonizzino ai suoi istinti. In The Blue Quicksand c’è un senso profondo di solitudine e tristezza, affrontati entrambi col coraggio di chi vuole riconvertirli in una crescita rigogliosa.
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Oliver si è spostato dalla Nuova Zelanda a Berlino, e al momento si prepara a partecipare alla prossima edizione di Berlin Atonal (insieme a robine come Tony Conrad & Faust, Ugandan Methods, Clock DVA, Lustmord, Powell, Chra, Samuel Kerridge, Puce Mary…). Non contento di suonare e basta, per quest’anno ha chiesto di poter includere nella sua patecipazione anche il resto del suo lavoro, agire direttamente sullo spazio e creare un suo giardino nel cortile del Kraftwerk, il casermone post-industriale attaccato al Tresor in cui Atonal si tiene tutti gli anni.
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Come va, ti stai preparando ad Atonal?
Sì, a dire il vero ho appena iniziato a pensarci, a rendermi conto che il festival è solo tra tre settimane.
Mi incuriosisce molto questa cosa che stai preparando… Non ho capito bene cos’è, un’istallazione?
Oh intendi il giardinaggio?
Sì, quello.
Be’, non è tecnicamente parte del programma di Atonal, semplicemente qualcosa che porterò avanti durante il festival. Mi sono piazzato in una piccolo spazio fuori dal Kraftwerk che fino a quel punto era stato solo un angolo in cui buttare rifiuti e merda varia. L’ho ripulita, ho costruito un forno di pietra per la pizza e un barbecue a partire dai rifuti che c’erano: mattoni, pietre. Per ora, quindi, è una specie di angolo ristoro, ma sto iniziando a trasformarla in un giardino. Inizierò anche a coltivarci qualcosa, credo.
Ecco, come ti è venuta questa idea? È senz’altro un progetto abbastanza inconsueto…
Be’, è solo che mi piace il giardinaggio! È da sempre parte della mia vita e della vita della mia famiglia, è una cosa che mi da molto conforto. È anche un bel modo per completare l’esperienza del fare musica, uscire dallo studio e sporcarsi le mani.
Ecco, immaginavo poi tutto questo poi avesse qualche effetto sulla tua musica.
Sì, infatti. L’ambiente è importantissimo per me, credo che gli ecosistemi siano una cosa molto importante, dopotutto sono qualcosa da cui dipendiamo. Mi piacciono, mi interessano tantissimo. Quando crei musica sicuramente quello che ami ci si infila dentro, per cui credo che possa essere questa la connessione. Non so… La tua vita risuona in te, per cui, quando esponi ciò che hai dentro di sicuro certe cose ne faranno parte.
Sinceramente, già dal primo ascolto ho pensato che il nuovo disco suonasse come una specie di ecosistema o di organismo, qualcosa di vivo ma di vasto e antichissimo, che genera sià meraviglia che confusione. Ti ci ritrovi?
Guarda, credo che per essere davvero in grado di esprimere qualcosa del genere si debba evitare di concettualizzarla troppo. Non è qualcosa che puoi progettare a tavolino. In passato ho fatto molte interviste, nel periodo in cui lavoravo per l’università e avevo una mentalità molto accademica, e questo mi portava sicuramente a pensare troppo. Mi ritrovavo a riflettere molto su come poter spiegare che, quando faccio musica, non rifletto molto. Quindi penso che, se ci hai sentito qualcosa del genere, sia perché probabilmente ho provato a fare musica che mi facesse sentire in quel modo: le cose che amo nella vita le amerò anche nei suoni che ricavo producendo, immagino. Negli ultimi tempi mi sono semplicemente sentito molto contento di essere vivo. Guardare il cielo, osservare la forma che un albero o degli arbusti possono assumere… le possibilità e lo spettro dinamico che possiedono sono enormi. Volendo potremmo descriverle come un interessantissimo brano musicale, no? È semplicemente una figata da osservare e da vivere, ed è una passione che ho sicuramente inserito nelle mie tracce.
Nel disco sembra spesso di trovarsi completamente sovrastati da questa complessità e grandezza. Anche un certo senso di solitudine e tristezza, ma non necessariamente con un tono negativo. La stessa “blue quicksand” del titolo…
Sì.. Be’, è relativo, nel senso che non stavo certo a dirmi “oh, perché io solo al mondo soffro così tanto”. Diciamo che è frutto del periodo in cui rimuginavo troppo sulle cose e vivevo troppo dentro la mia testa. Se vivi troppo all’interno della tua testa hai bisogno di trovare pensieri con cui intrattenerti, e quella era la direzione in cui io stavo andando. In quelle condizioni non riesci più a evitare un mucchio di pensieri che non ti aiutano affatto. Per un lungo periodo della mia vita non ho tenuto sotto controllo queste cose. Facevo musica che rifletteva questo stato e dopo un po’ il mio stato ha iniziato a riflettere la musica. Ecco le sabbie mobili: qualcosa in cui più ti muovi più affondi. Non è sano, ho composto della musica in quel periodo che non farei mai uscire, perché sarebbe quasi un atto di violenza nei confronti di qualcuno.
Il che in realtà potrebbe anche essere abbastanza interessante…
Be’, sì, hehe… Comunque, mi sono reso conto che la musica è una strada a doppio senso, e ho provato ad alleggerire un po’ i toni, provando a vedere se ne avrei ricavato qualcosa.
Come produci le tue tracce?
Ho un solo synth, un Roland SH-201 che ho lasciato in Nuova Zelanda, non potevo portarlo a Berlino. Poi uso un registratore d’ambiente con cui catturo field recordings e suoni vari, un casino di campioni, e ovviamente il laptop. Tutto qua. In sostanza, registro dei suoni in giro e poi li incasino.
E li incasini improvvisando o hai idea di cosa vuoi ottenere da queste manipolazioni?
Be’, dopo un po’ inizi a sapere in che modo un sample risponderà a quello che puoi fargli, per cui in questo senso c’è un po’ di consapevolezza. Ma il punto è che io ho sempre lavorato a tempo pieno, la musica non è mai stata la mia attività principale, l’ho sempre considerata un gran divertimento, tipo “che bello, sono in studio, non sto lavorando”. L’improvvisazione fa parte di questo divertimento: gioco coi suoni per divertirmi a trasformarle in dei brani.
E live quanto improvvisi?
Prima usavo un campionatore MPC, che mi permetteva di improvvisare molto, ma quel tipo di macchine hanno una memoria piuttosto limitata, ho dovuto cambiare set up. Ora do più importanza al suono, nel senso che usando l’MPC davo sicuramente l’idea di stare facendo più cose, di stare davvero “suonando uno strumento”, il che è anche vero, ma la memoria dell’MPC limitava la qualità di quello che usciva dall’impianto. Mi sembrava più importante fare un live che suonasse bene.
Ma ci sono artisti a cui ti senti particolarmente vicino come attitudine?
Certo. Se ti interessa ascoltare lo spazio o ascoltare le vibrazioni della Nuova Zelanda, dovresti ascoltare questo tipo di nome Rob Thorne. L’ho contattato di recente, ed è probabile che finiremo a collaborare molto presto. Non credo stia a me dare una definizione della sua musica, diciamo che usa un po’ di elettronica, ma principalmente fa del Toi Pūoro, che è una parola Maori che significa “tesori sonori”, anche se la traduzione più accreditata è “strumenti tradizionali”. È incredibile. La sua musica è letteralmente fatta con pezzi della Nuova Zelanda: conchiglie, legno, pietra… È davvero incredibile.
Ma tu invece non senti una contraddizione nel cercare di rendere lo stesso spazio e le stesse vibrazioni con una strumentazione esclusivamente elettronica e digitale?
Decisamente. E ci sono anche altri elementi che fanno parte di questa contraddizione. Ad esempio, il mio lavoro di permacultura e giardinaggio, un lavoro che mette in primo piano gli organismi viventi… Si potrebbe dire che attraverso la musica arrivo ad includere anche gli ambienti digitali nell’ecosistema. Voglio dire, esistono, sono parte di un tutto. Sono qui, presenti, dove altro dovrebbero essere?
E nella tua esperienza quotidiana, quanto esiste questa integrazione? C’è un limite ideale che metti alla tua vita digitale?
Lo metto, sì, ma non saprei dirti bene dove. La tecnologia spinge ancora troppo verso una vita che mette la mente al centro delle cose, il che ti tiene tropo lontano dal resto della tua esistenza. Preferisco uno stile di vita in cui si sta più in contatto con il resto del corpo, in cui il tuo ambiente personale interagisce direttamente con l’ambiente circostante. Credo sia pericoloso se l’azione è controllata esclusivamente dal pensiero.
Capisco, si de-eroticizza la realtà. È questo che ti era successo nel periodo di cui mi hai appena parlato?
Già, credo si possa dire che a quel tempo ero proprio un cazzo di nevrotico. Non riuscivo a placare i miei pensieri, a calmarmi e a mantenere il controllo del mio sistema vitale. Credo che passare molto tempo all’università mi abbia influenzato in quel senso: in un mondo del genere il corpo serve solo a portare in giro la testa.
Che diventa anche un fardello piuttosto pesante.
Esatto, in più nessuno ti insegna a convivere con una tale quantità di pensiero. Sarebbe extracurriculare, se mai ci fosse un professore che ti dice “ok, ora hai la mente molto occupata, e la stai affinando, ecco come puoi conviverci”.
Ecco, questo è molto interessante: ascoltandoli ho trovato alcune cose in comune tra il tuo album e quello di M.E.S.H., in realtà sembrano arrivare da prospettive piuttosto diverse, ma mi pare che in entrambi ci sia lo stesso senso di soverchiamento, che può essere dato da un eccesso di stimoli intellettuali, o anche dal percepire la natura. L’hai ascoltato?
Non molto approfonditamente, a dire il vero. Credo sia molto bello che qualcuno possa ascoltare parallelamente due album e farli dialogare tra loro. Probabilmente non conosco abbastanza bene la sua musica, non vorrei sbilanciarmi troppo a parlare del lavoro di un altro artista non sapendone abbastanza. Probabilmente, qualcosa che stiamo entrambi facendo è prendere coscienza di un punto di vista privilegiato che abbiamo nei confronti dell’ambiente che ci circonda, che sia fisico o informazionale. In comune abbiamo questo senso di confronto tra il particolare e il generale. In un certo senso sono entrambe forme di musica folk.
Hai già una vaga idea di che strade prenderà il tuo lavoro da qui in poi?
In parte. Credo che, dopo avere fatto un disco che così incentrato su di me, sia ora di andare oltre. Non si può rimanere con lo sguardo così concentrato per troppo tempo. Voglio ricominciare a giocare coi suoni in maniera più libera, più fine a sé stessa. Divertirmi e imparare. È per questo che mi chiamo FIS, “Forever In Search”, la chiave è cercare continuamente di imparare e fare qualcosa di nuovo. Ho un EP pronto che uscirà tra un paio di mesi per Liberation Technologies, e ho tempo e spazio di tornare a giocare. Potrebbe venirne fuori della semplice musica da ascoltare mentre fai giardinaggio. Andrebbe comunque bene, sarebbe divertente.
Tornando al giardinaggio: ti consideri in qualche modo ambientalista? Ritieni che la salvaguardia dell’ambiente faccia parte del tuo lavoro?
Certo che sì, è proprio per questo che lo faccio. Il lavoro al Kraftwerk dovrebbe portarmi a creare una specie di fattoria urbana in quella zona. Si può fare. Di questi tempi sono in molti a considerarsi “solo dei musicisti”, mentre io col tempo sono stato portato a credere che la musica dovesse integrarsi con la vita in generale, con la gente e con lil loro modo di vivere. È così che lo voglio fare.
Quindi al momento ti interessa in qualche modo forzare il sistema urbano per trasformarlo in altro?
A Berlino ci sono più di tre milioni di persone, quasi nessuna delle quali provvede da sola al proprio cibo, il che ha portato all’industrializzazione della campagna circostante, è già stata modificata e forzata negli ultimi secoli, dalle fabbriche di manifattura del cibo. Di conseguenza i cittadini non hanno a disposizione del cibo buono. Oltre a questo, Berlino è in una posizione molto interessante, il clima è molto stabile. Sto coltivando vicino a un parcheggio, in una zona che sembra avere un suo microclima particolare. Questa estate è piuttosto calda e c’è un rilascio di calore molto graduale che avviene durante la sera. Queste ecologie in miniatura possono essere molto produttive e interessanti. Pensa anche alla quantità di materia organica che circola per una città, anche solo a partire dal cibo che viene consumato. Dove va a finire? È come se la città fosse una grossissima macchina che produce soprassuolo, la parte di terreno da cui le piante traggono il nutrimento. Se ne potrebbe fare un ottimo uso, una volta che capiamo come poter sviluppare il potenziale ecologico di una città.
Ma bisognerebbe cambiare la mentalità con cui si vive e organizza lo spazio urbano, no? Proprietari, costruttori, istituzioni… È un discorso anche politico.
Tutto lo è, in qualche modo. Ma il terreno, intendo il terreno vero e proprio, non starà meglio se mi concentro solo sulle implicazioni politiche delle informazioni che ricevo. Allo stesso tempo, mi interessa che, appunto, il suolo tragga giovamento dalle posizioni che prendo e dalle idee ambientaliste che mi formo. Suppongo sia questo il punto, no? La mia priorità è che il suolo si arricchisca, o che un frutto cresca bene.
Ripensandoci, questa circolazione di materia è più o meno la stessa cosa del tuo modo di fare musica. Campionare e registrare suoni per fare crescere qualcosa.
Certamente… In quanto musicista contribuisco alla circolazione dell’energia. Le regole sono le stesse.
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