La copertina alternativa di Blond, nella versione allegata a Boys Don’t Cry.
Frank Ocean, nato Christopher Breaux, è un caso unico nel panorama pop contemporaneo. Questo non (solo) per la mera qualità della sua proposta musicale, ma per il suo ruolo di prima grande figura moderna di intersezione tra hip-hop e comunità LGBT—due insiemi che non sono mai andati storicamente molto d’accordo e solo recentemente hanno iniziato a trovare punti di contatto. Resta che per creare un immaginario adatto a parlare ad entrambi, è necessario avere stile e delicatezza. Cioè le esatte qualità che Blond, il suo nuovo LP, dimostra.
Certo, non che sia una sorpresa: è dai tempi di Nostalgia, Ultra che le capacità di scrittura di Ocean non possono realisticamente venire messe in dubbio. In fondo, prima ancora di unirsi alla Odd Future nel 2009, il Frank diciottenne appena trasferitosi a Los Angeles era riuscito a trovare lavoro come ghostwriter, finendo nel giro di poco a scrivere per nomi enormi del pop americano (Beyoncè! John Legend! Justin Bieber!). Già il suo primo tape fu abbastanza per far suonare un campanello d’allarme nel dipartimento A&R di Def Jam, che lo mise sotto contratto in zero due e, nel 2012, fece uscire il suo album di debutto. In retrospettiva, l’immenso valore di channel ORANGE è riscontrabile nella capacità che ebbe di far vibrare alcune corde che nessun cantautore della nostra generazione era ancora riuscito a pizzicare in modo così intenso. Non solo presentava un impianto musicale di prim’ordine che andava a rilavorare R&B, soul, funk, elettronica, hip-hop e qualsiasi altro genere mai nato dall’eredità musicale dell’emigrazione africana in un nuova formula pop onnicomprensiva e mutaforme, ma lo iniettava di una pregnanza espressiva che andava oltre il mero confessionale da cuore spezzato e/o da scopatore folle a cui tanti ragazzi di colore dalle voci incredibili ci avevano storicamente abituato.
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Questo, principalmente, per due motivi. Innanzitutto un vocabolario, e un modo di usarlo, che suonava e suona tuttora brutalmente fresco, adatto ai nostri tempi nel suo sciorinare frasi adatte ad essere applicate alle esperienze emotive di noi millennials o quasi. In secondo luogo la rivelazione, tramite una lettera postata sei giorni prima dell’uscita del disco, della sua omosessualità—che non dovrebbe essere di per sé una cosa clamorosa, anzi. Ma contribuì ad avvolgere i suoi testi di un’aura ancor più adatta a un presente sempre più attento a combattere e sottolineare le discriminazioni in un’ottica di progressiva inclusione e normalizzazione di qualsiasi cosa la cultura dominante abbia considerato “strana” nell’ultimo secolo. “Penso che quest’amore non corrisposto sia, per me, solo culto della personalità / Cianuro nel mio bicchiere di plastica / Non riuscirò mai a farlo innamorare di me,” cantava Frank in “Bad Religion”, cementandosi in un attimo sia come interprete della complessità sentimentale insita nell’esperienza della nostra generazione che come icona LGBT principale del mondo hip-hop.
Poi, una lunghissima attesa: dopo i suoi contributi a Watch the Throne di Kanye e Jay Z, Ocean annunciò ufficialmente a febbraio 2013 di aver iniziato a lavorare al suo nuovo album. A fine 2014 dichiarò di averlo “quasi finito”; ad aprile 2015, con “Memrise” come unico inedito pubblicato ufficialmente, vennero fuori il titolo Boys Don’t Cry e una serie di indizi per cui il disco sarebbe uscito a luglio. Alla fine è arrivato ad agosto, con il titolo Blond (o Blonde, non si capisce bene) e accompagnato da Endless, un secondo intero LP (un “visual album”, dice) legato invece allo stream che ha tenuto mezzo mondo ore e ore a guardare un video in loop di un falegname in bianco e nero. “Boys Don’t Cry” è invece il titolo di una fanzine legata all’album, rilasciata gratuitamente in alcuni negozi in giro per il mondo, terminata nel giro di poche ore e già su eBay a prezzi clamorosi (che però la mamma di Ocean dice di non pagare, mi raccomando).
In uno scenario in cui pubblicare un album non significa più annunciare una data d’uscita, buttar fuori uno/due singoli e poi andare in tour, l’uscita di Endless, Blond e Boys Don’t Cry si è rivelata, in fondo, decisamente efficace. Innanzitutto sono arrivati due album quando tutti ce ne aspettavamo uno; ed entrambi sono stati incorniciati da un artefatto tangibile in cui il Frank-autore raccoglie tutte le suggestioni che sono andate a creare la sua nuova forma. Un conto è far uscire un disco con delle liner notes molto ricche; un altro usare un’intera rivista per rivelare collaboratori, pubblicare una versione alternativa dell’album (perché il Blond che trovate con la rivista è leggermente diverso da quello che trovate su iTunes), inserire poesie (tra cui una, a firma di Kanye West, con tema il McDonald’s), fotografie, pezzi di vita.
Il che acquista un senso ancora maggiore se pensiamo al processo di personalizzazione che sta animando i grandi dischi neri americani della nostra generazione: parlo della narrazione di Kanye come post-divinità scesa nei panni di padre e marito, quella di Beyoncé-matriarca capace di perdonare il marito traditore in LEMONADE, quella di Kendrick come nuovo 2Pac che metterà fine alla guerra tra gang, quella di Drake come 6 God gelido e inscalfibile, quella di Future come figlio perduto dell’underground tornato alla vita da gangster dopo un album su major fallito e un divorzio alle spalle e così via. In quest’ottica, Blond ci presenta un Frank Ocean sfaccettato, conscio del suo ruolo nella cultura contemporanea e quindi capace di giocare con la sua identità ma al contempo riflessivo, sagace, sobrio.
“Suono queste canzoni ed è come una terapia, mamma / Sarei io a dover pagare loro, sarei io a dovevi pagare tutti, lo giuro su Dio / Sono solo una persona, non sono un Dio / A volte mi sento un Dio ma non sono un Dio / Se lo fossi non so quale paradiso mi prenderebbe, mamma,” canta ad esempio Frank su “Futura Free”; canzone dopo canzone, è glorioso sentirlo sciorinare racconti di amore non corrisposto come quello che animava un classicone come “Thinkin Bout You” ma tramite la lente della maturità, bellissimo rendersi conto di come abbia reso la sua famiglia, sua madre e suo fratello minore, parte del disco in un gesto di estrema tenerezza, sorprendente ascoltarlo parlare delle sue esperienze passate con acidi, coca, erba e così via e di come sia arrivato ad una semi-astinenza. Ho provato, pezzo per pezzo, a tirare un po’ le somme.
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NIKES
Contando che channel ORANGE iniziava con il suono della Playstation e le parole “Un tornado girava per la mia stanza prima che tu arrivassi”, ascoltare “Nikes” è un’esperienza straniante. Primo singolo del disco e suo primo pezzo con video ufficiale dai tempi di “Swim Good”, il brano non parla (solo) di cuori spezzati ma anche e soprattutto di tentazioni, edonismo, soldi buttati. Modificarsi pesantemente la voce per la prima metà del pezzo, poi, è una scelta ancor più rischiosa: Non sono la mia voce ma il mio messaggio, dice, rompendo il topos del cantante R&B identificato nella sua bella, bellissima voce. Soprattutto, “Nikes” non è una hit: è un pezzo lento, nebbioso, suddiviso in due parti ben distinte; una prima meditativa e una seconda dirompente, ugualmente vibranti ma tutto tranne che orecchiabili come poteva esserlo una “Lost” o una “Pyramids”.
Dato l’hype che lo circondava e le enormi connessioni sviluppate in questi anni, Ocean ci avrebbe messo davvero poco a diventare una popstar se avesse voluto—un po’ come ha fatto The Weeknd, passando dal mistero che avvolgeva la sua trilogia di tape al successo clamoroso di Beauty Behind the Madness. E invece, come “Nikes” e il resto dell’album dimostrano, ha deciso di uscirsene con un disco quieto, delicato, multimediale: perfetto per cementare il suo status e, al contempo, non alienare chi lo ascolta da anni.
IVY
“Ivy” è praticamente l’equivalente musicale contemporaneo americano di Amici miei, tutto ricordi dolceamari un po’ struggenti e un po’ no. Ma con la Odd Future come argomento, il che rende la cosa decisamente più interessante di un generico amarcord d’infanzia: “Andavamo in macchina da Syd, avevamo la X6 / Qualsiasi cosa facessi non riuscivo ad avere capelli decenti / Tutto faceva schifo ed eravamo amici.” Nessuno di voi è mai stato in una crew rap di successo, ok, ma pensate a quando avevate i capelli che stavano crescendo e non stavano né giù né su e dovevate tornare a casa a mezzanotte e non avevate ancora fatto l’amore e fatevi scendere una lacrimuccia. Poi: le chitarre! Come ha fatto notare Sheldon Pearce di Pitchfork, su Blond ce ne sono un sacco. E dopo tutto il post-R&B lagnoso che ha infestato il rap degli ultimi anni, sentire riff, giri di accordi e arpeggi come questi è quasi un sollievo.
PINK + WHITE
Nonostante sia prodotta da Pharrell, “Pink + White” sembra uscita da un disco di D’Angelo—batteria in shuffle, tastiere calde e umide come la vagina del rosa del titolo (il bianco potete arrivarci da soli). Il brano non esplode particolarmente di per sé, ed è probabilmente il più anonimo del disco, ma mette bene in chiaro uno dei suoi temi focali: Blond è un album di Frank e basta, nonostante la clamorosa lista di collaboratori e sample che è stata rilasciata assieme al disco. Nessuno dei featuring è dichiarato chiaramente nel titolo dei pezzi, e sta all’ascoltatore—o, più realisticamente, alla community di Genius—capire chi fa cosa e dove. Qua, ad esempio, c’è Beyoncé: ma la sua voce si limita a fare qualche “aaah” e “oooh” per abbellire il ritornello, e niente più. Il che è particolarmente apprezzabile, dato che i featuring a caso sono (credo, personalmente) una delle principali piaghe della musica contemporanea. Al posto di infarcire il suo album di nomi altisonanti, Frank li ha inseriti con cura e gentilezza, in modo perlopiù sottile e sussurrato.
BE YOURSELF
Mettere la mamma sul proprio album non è affatto una cosa innovativa nel fantastico mondo del rap, anzi—è quasi un abitudine del genere parlarne in termini d’amore incondizionato. Ma farle scrivere e recitare un mini-monologo anti-alcool e anti-droga (“Non fumare marijuana, non bere alcool, non salire in macchina con un ubriaco alla guida!”) è la cosa meno conformista che Frank potesse fare. Tutti cantano dei blunt che si sparano, della coca che tirano e del purple drank che buttano giù: Ocean, invece, ne parla in modo distaccato, filtrandoli attraverso il tempo passato e la voce della persona a lui più vicina.
SOLO
Due secondi dopo la pubblicità progresso della signora Breaux, ecco un brano che parla di fumare erba presi male mentre si aspetta la chiamata di un tizio conosciuto a ballare che non arriverà, costellato da frasi epico/visionarie come “Inala, nell’inferno trovi anche il paradiso / Ci sono un toro e un matador che duellano nel cielo.” Siamo al quinto pezzo e ancora non c’è stata la minima concessione alla radiofonia—e sarà così fino alla fine. Nota: gli accordi di sintetizzatore di questa canzone sono pacifici come un enorme batuffolo di cotone rosa su cui rimbalza un branco di corgi.
SKYLINE TO
Se avete mai fatto all’amore completamente fatti per poi risvegliarvi con un sole diafano che vi illumina tra le lenzuola e vi chiedete come cazzo siete finiti lì ma in fondo siete felici allora ecco la canzone perfetta per farvi sentire esattamente come in quel momento. Altrimenti muovetevi a comprare un ventello e cercare qualcuno con cui unirvi carnalmente ora che fa ancora un caldo fottuto ed è tutto più sudato e confuso e lento e splendido.
SELF CONTROL
Chitarre, dicevamo: in “Self Control” sembra di stare a sentire una versione contemporanea semplificata di Hendrix. Il risultato è una ballata sulla perdita dell’autocontrollo in cui l’ambivalenza di un rapporto sessuale a cazzo viene rappresentata da una doppia voce; da un lato quella di Ocean, pulita ed espressiva, a dichiarare “Stanotte, nei tuoi sogni bagnati, sarò il tuo ragazzo”; dall’altra quelle di Yung Lean e Austin Feinstein, chitarrista collaboratore di Ocean, pitchate in alto fino a risultare quasi disumane nella loro richiesta di “Tenere un posto” libero nel suo letto. Morale: se perdere l’autocontrollo suona così datemi subito una carta di credito aziendale e una connessione TOR per acquistare qualche migliaio di euro di sostanze illegali, per favore.
GOOD GUY
Collegata tematicamente al pezzo precedente, “Good Guy” è praticamente “Only One” di Kanye ma che parla di sesso da una notte e via con un po’ di malinconia e un po’ no, e dura solo un minuto. Il che comunque basta a Frank per uscirsene con un assassino “So che, ora come ora, non hai bisogno di me / E che per te questa notte non è altro che un’uscita come un’altra.”.
NIGHTS
Probabilmente “Nights” è il brano più pop dell’album, nel senso più sonoro del termine—forse perché è uno dei pochi ad avere anche delle percussioni a tirarlo avanti. Al contempo, è uno dei brani più amari dell’album: mentre in altri momenti le droghe sono un impedimento comunque accettabile, se non addirittura suggestivo nella loro capacità di far partorire a Frank immagini suggestive, in “Nights” sembrano più un ostacolo, una sfida da superare: “Inspiro fino a evaporare / Il mio corpo si fa trasparente”, “È come se avessi preso un sonnifero / Ma non c’è sonno nel mio corpo”, “Voglio vedere il nirvana ma non voglio morire.”
Al contempo, Frank trova orgoglio e senso nel prendere possesso della notte e della sua ambivalenza come punto focale del suo messaggio: “Zitto, cazzo, non voglio sentire quello che hai da dire / Se non hai soldi per andare in vacanza puoi sempre fare su / È quello che faccio ogni giorno, quello che faccio ogni notte.” La seconda parte del brano, però, mette tutto in prospettiva dando una cornice temporale al brano: Frank sta solo ricordando il periodo passato in università, in Texas, prima di unirsi alla Odd Future: mesi di confusione, mesi di gioia. “Dopo Katrina dovetti cambiare uni / E restai ad aspettare nel tuo appartamento di Houston / Stavo da te quando non avevo un indirizzo / Scopavo con te quando non avevo un materasso.”
SOLO (REPRISE)
Ogni volta che una strofa di André 3000 viene pubblicata ufficialmente la ricerca contro il cancro fa un passo avanti, un bambino povero vince una borsa di studio, una stella cadente passa nel cielo e a una vecchietta viene restituito il suo portafogli con dentro la pensione che le era caduto mentre pagava la spesa. A parte le cazzate: André è l’unico rapper a cui viene affidata una strofa a tutti gli effetti sul disco, e la scelta di dare questo tipo di spazio a una leggenda notoriamente avara di versi è un piccolo, apprezzabilissimo gesto di forza da parte di Frank.
PRETTY SWEET
“Pretty Sweet” è una sorta di intermezzo sperimentale destrutturato in cui si affastellano cori epici, muri di rumore, feedback, voci laceranti, chitarre e persino una sezione IDM. Potrebbe rappresentare l’eccitazione della fama, una sorta di flusso che si intensifica all’improvviso ed esplode in mille rivoli diversi: “Questo è il sangue, il corpo, questa è la vita / L’hype potrebbe essere esattamente quello di cui ho bisogno, ora come ora.”
FACEBOOK STORY
Un altro skit in cui il francese Sebastian, uno dei produttori dell’album, racconta di una sua ex ragazza: “Quando arrivò Facebook lei mi chiese di accettarla, ma io non volevo. Ero di fronte a lei, e mi disse, “Accettami su Facebook.” Ma era qualcosa di virtuale, non aveva senso. Quindi le risposi, “Sono di fronte a te, non ho bisogno di accettarti su Facebook.” E lei impazzì, pensava che non volevo accettarla perché la stavo tradendo. “È finita”, mi disse.”
Aneddoto a parte: la figura di Ocean è ormai sinonimo di sincerità, coraggio e fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità. Questo semi-dissing a chi affida a un social il potere di causargli/le ansie e dolori prende quindi un significato di racconto ammonitorio, a ricordarci quanto la virtualità sia sì una parte fondamentale della nostra esistenza ma al contempo potenzialmente straniante.
CLOSE TO YOU
Per la serie “rubiamo i titoli ai Cure, pt.2”, Frank arriva con un altro intermezzo riflessivo su un amante incapace di gestire bene una rottura, ma al contempo gioca sul fatto che questo pezzo è una cover, e quindi “vicino”, dell’omonimo brano di Stevie Wonder, che a sua volta era basato su uno dei Carpenters.
WHITE FERRARI
Un altro crocevia al cui centro sta Ocean è quello tra mondo cantautorale alternativo/indie/chitarristico americano e quello hip-hop. In un certo senso possiamo identificare l’inizio dell’ibridazione tra questi due mondi negli interventi di Justin Vernon su My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye, e il risultato oggi è che si può tranquillamente diventare famosi facendo folk, o synthpop, o cantautorato per poi entrare nell’orbita delle grandi sfere del rap così come dell’underground; vedi James Blake e Chance the Rapper, i Purity Ring e Danny Brown, Samuel T. Herring dei Future Islands e milo. E channel ORANGE fu universalmente considerato un capolavoro alla sua uscita, a coronare un processo di riconoscimento critico del valore dell’hip-hop contemporaneo dai media americani iniziato con Tha Carter III di Lil Wayne e proseguito con il sopracitato MBDTF.
“White Ferrari”, oggi, si inserisce esattamente in quel filone: Blake e Vernon, ormai collaboratori di lunga data, se ne escono con un pezzo che distilla in cinque minuti i loro immaginari, tutto sognante e fragile come un filo d’erba, che Ocean usa per ricordare un compagno di giri in macchina nei suoi sedici anni e il modo in cui il loro rapporto si è evoluto col passare del tempo—la Ferrari bianca come metafora della possibilità di prendere e andarsene da un Texas ormai privo di stimoli. Voci e voci si intrecciano sulle note di chitarra più scarne e semplici del disco e le percussioni sembrano quasi quelle della cassa di legno di un’acustica. Esattamente il contrario di quello che il titolo avrebbe fatto presagire.
(via)
SEIGFRIED
“Seigfried” prende tutto quello che abbiamo detto finora e lo concentra in cinque minuti e mezzo: un’auto-analisi tipo flagellazione sulle cose che forse mai faremo tipo avere una famiglia e una casa, paranoie su Dio e sui sogni e sul significato del mondo, pianti causati da funghetti, la possibile estinzione della razza umana per un brillamento e un “Farei qualsiasi cosa per te” ripetuto un sacco di volte per finire, il tutto in cinque minuti e mezzo con un titolo ispirato alla mitologia nordica.
GODSPEED
In una nota pubblicata sulla zine, Frank ha definito “Godspeed” “una storia” in cui reimmagina “parti della sua infanzia”: “i ragazzi piangono eccome, ma non credo di aver versato una singola lacrima per buona parte della mia adolescenza. Sorprendentemente, è stata la parte della mia vita che ho preferito finora. Sorprendente, dico, perché la fase che sto vivendo ora è esattamente quello che chiedevo al cosmo quando ero un ragazzino. Forse anche allora ci sono stati momenti difficili, ma se guardo nel mio specchietto retrovisore è come se si stesse facendo così piccola da convincermi che è stato tutto bello.”
Di per sé, i tre minuti di “Godspeed” sono i più accorati dell’intero disco: presente quando siete felicissimi perché vi siete resi conto che tutto il dolore che avete provato per qualcosa—una storia finita, un’occasione mancata, una persona scomparsa—si è dissipato nel nulla e vi resta solo una sorta di sentimento di pienezza e soddisfazione, come se foste riusciti a scalare una montagna e ora riuscite a vedere tutto dall’alto e il cielo è limpidissimo e non fa freddo ma neanche caldo e c’è un venticello leggero che vi soffia sul collo? Ecco.
FUTURA FREE
Tornando alle tendenze narrative-personalizzanti dell’hip-hop contemporaneo “grosso”, quello mega-prodotto e complesso su cui si scrivono 9716021 pezzi di opinione, quello con le esclusive su TIDAL e i pop-up shop e così via: è abitudine, in quest’ottica, inserire negli album, spesso alla loro fine, dei brani confessionali in cui l’autore tira le fila dell’esperienza-LP e, in un certo senso, del periodo della sua vita che questo rappresenta. Drake l’ha reso regola con “The Ride”, “Paris Morton Music 2” e “Views”; Kendrick ha concluso “Mortal Man” immaginandosi in dialogo con 2Pac, per parlare di fama e del ruolo del rapper nella società contemporanea; Kanye aveva iniziato qualche anno fa con “Pinocchio Story”, era passato per la voce di Gil Scott-Heron in “Who Will Survive in America”; e sono arrivate poi “Bound 2” e “Wolves” a farci entrare nella sua nuova vita di uomo sposato prima e di padre poi.
Ecco, “Futura Free” è il pezzo in cui Frank mette dentro tutto quello che Blonde dovrebbe rappresentare. Si rivolge alla madre, pensa alla povertà della sua giovinezza e alla ricchezza che ora gli permette di sentirsi quasi un Dio. Gioca ad esserlo, quel Dio, e a distruggere giocosamente l’universo per un capriccio. Saluta Tyler, saluta il suo quartiere, parla dell’uragano Katrina, racconta consigli di vita arrivati da Jay Z, spiega di non aver fumato per un anno intero e di aver deciso di farsi un bel cannone per festeggiare l’effettiva fine dell’album, mette dentro un’intervista a suo fratello registrata quando aveva 11 anni in cui parla del suo futuro e dei suoi sogni. È la fine della stasi post-channel Orange e l’inizio di un nuovo capitolo più complesso, ugualmente emotivo, ancor più emozionante.
Elia era in vacanza quando Frank Ocean ha deciso di tornare. Che tempismo, eh? Seguilo su Twitter.