Foto scattata durante una serata al Florida, discoteca in provincia di Brescia dove si svolge una delle più importanti serate hardcore italiane. Immagine per gentile concessione di Anna Adamo e Guido Borso, tratta dal loro progetto sulla subcultura gabber.
Ora che l’ultimo decennio del secolo scorso è arrivato al suo momento di gloria postuma, con tanto di Tumblr a tema e tagli di capelli recuperati, è tornato anche un certo orgoglio per una delle ultime sottoculture in senso stretto, quella dei gabber. Nata e sviluppatasi in maniera del tutto spontanea, diffusasi capillarmente in diversi Paesi e dotata di un impatto sociale, oltre che riconoscibile a occhio e orecchio. Una sottocultura che in Italia ha germogliato come una pianta ibrida tra techno hardcore d’importazione e gusto tutto nostro per l’eccesso, dando frutti musicali esportabili ai livelli del mainstream olandese e un modo strettamente peninsulare di intendere la cosa.
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Ci siamo quindi rivolti a chi potesse spiegarci come i semi della musica hardcore e tutto l’immaginario gabber siano arrivati e abbiano attecchito nel nostro Paese. Ad oggi, troppo poco tempo era passato perché qualcuno potesse pensare un’epopea gabber alla This is England, una visione complessiva e definitoria del fenomeno, sicché abbiamo sentito la necessità di fare i bravi storici e rivolgerci direttamente alle fonti. Che fortunatemente sono ancora vive e attive nella suburbia milanese.
La nostra Bibbia è stato Maxx Monopoli, producer e DJ col nome di Stunned Guys (quelli di “Io sono vivo”, tra le altre cose) e fondatore di Traxtorm Records, forse quello che più di tutti ha lavorato per tirare su le mura dell’edificio hardcore italico—muri di casse. Per dire: quando ci ha fatto da apripista sul dancefloor del Florida abbiamo assistito a vere e proprie scenette idolatriche tipo Alice Cooper in Wayne’s World. Oltre alle danze del Florida, Maxx ci ha aperto le porte dell’ex fabbrica di bottoni in cui sono gli uffici e gli studi della sua label.
Già di per sé l’idea che un’etichetta indipendente italiana campi serenamente senza venire gestita come progetto-cameretta da qualcuno che di lavoro fa altro è una rarità assoluta, figuriamoci nel caso di un genere musicale che è ancora percepito come estremo e riservato a un pubblico di nicchia. Il loro ufficio somiglia a un serio luogo di lavoro molto più di quello di VICE, e gli studi farebbero sbavare chiunque sappia perlomeno cos’è una 909. Sono usciti dall’underground, insomma, per affermarsi in un giro che, in Olanda e Belgio, ha raggiunto i connotati di un business solido e serio senza perdere, ci ha detto Maxx, in credibilità.
Maxx ci ha raccontato che tra il 1989 e il 1990 la techno in Italia era arrivata praticamente solo a Roma, in una scena tra illegale e legale, “che comunque non era regolamentata perché non c’erano le regole.” Nel milanese c’era solo un locale, l’Immaginazione di Pantigliate, un magazzino con un palco dentro “che dopo l’alba diventava un posto di gangster,” quando già la house più canonica si stava distinguendo dai suoni più acidi e pesanti, che diventeranno materiale da rave.
“L’hardcore in Sud Europa ha iniziato ad arrivare all’inizio degli anni Novanta, come una cosa estremissima super rebel underground, e quella è l’immagine che ha lasciato il segno. In realtà in Olanda-Belgio-Germania, comunque in nord Europa, l’approccio è stato completamente diverso: lì l’hardcore nella seconda parte dei Novanta era in classifica, ma in classifica ufficiale; lì è un genere popolare.” Ci ha spiegato Maxx, ma nei primi anni Novanta la settorializzazione della techno secondo correnti e generi doveva ancora arrivare, e fissare dei paletti sulla base dei bpm di un pezzo era un’idea assurda. Ce lo siamo fatto raccontare da Simone KK, frequentatore dei giri techno e hardcore dalla prima ora, enciclopedia della musica elettronica e presenza notturna fissa. Probabilmente, se bazzicate il circuito underground del nord Italia, avete una spilletta con la sua faccia. “La cosa paradossale è che nei primi anni Novanta anche le radio più commerciali si dedicavano a questo genere musicale, senza fare una netta differenza tra l’hardcore e la techno tout court. Gli artisti stessi si calavano in diversi progetti—uno su tutti, Marc Acardipane [quello della prima traccia hardcore della storia dell’uomo, “We Have Arrived”], gli stessi DJ potevano suonare techno, hard trance o hardcore. Certa roba passava anche nelle radio commerciali. Per esempio, nel mitico “Master Quick” di Radio Italia Network e nel “Deejay Time” di Albertino, che passava la primissima rave beat dall’Inghilterra, quella che ha anticipato la jungle e la drum’n’bass. Certe sonorità poi si trovavano già nella belgian rave, in etichette come la R&S, in opposizione alla house, che in Olanda si chiamava ‘mellow’ [mellifluo, lento].” E i dischi HC ad Albertino glieli portava proprio Maxx, all’epoca già tra i pionieri del genere in Italia. Il DJ lo faceva fin da quindicenne al seguito dell’amica DJ Lady Jam Jam, “mettendo quello che andava allora… Italo disco, new beat”, e da un po’ gestiva il piccolo studio negli scantinati di Wimpy Music, il negozio di dischi in cui lavorava.
Maxx Monopoli, fondatore della Traxtorm Records, posa negli uffici della casa discografica. Alle sue spalle due premi per gli Stunned Guys, il suo progetto musicale hardcore.
“Eravamo in pausa pranzo, sarà stato il 1992, sai le piccole riunioni in pausa con i commessi che parlavano delle loro robe, mentre io di solito me ne stavo per i cazzi miei nella mia cantina, all’improvviso panico: è arrivato il corriere e portava dall’Olanda un disco a 180 bpm. E io ero là, l’ho sentito, il sound stava già andando da quella parte, ma quella è stata la svolta. Ho detto, no, senti questi, figa.” Maxx inizia a comprare i dischi HC, se li sente, e scopre che Cirillo e Claudio Lancinhouse del Number One sono già da più di un anno sulla scia di DJ Rob e Paul Elstak, che a Rotterdam avevano iniziato a usare la distorsione—“tutti dicono che è stato Claudio il primo in Italia, invece è stato Cirillo.” Cirillo quello del DC-10 e del Cocoricò. “Paul e Rob avevano scoperto che alla gente in discoteca piaceva se man- davi tutti i canali in rosso con la distorsione, e che più veloce suonavi più erano contenti, si arrivava tranquillamente a 220 bpm—il nostro singolo d’esordio ‘AEIOU’ era a 215 bpm, ed era la norma.” La scena successiva, infatti, ha luogo ancora da Wimpy Music dove Buby, commesso-il-pomeriggio e DJ spalla di Lancinhouse, entra in contatto per ragioni dimenticate con un personaggio della Mid-Town Records, di cui la Rotterdam Records (la label di Paul Elstak) era un imprint, e vuole provare a fare un disco, “solo che doveva produrlo, così è arrivato a me. E l’abbiamo fatto in segreto, oltretutto, perché lui lavorava lì dentro, io lavoravo lì dentro, abbiamo trovato un modo di fare una roba così figa, e ve lo fate per i cazzi vostri?
C’è stato un periodo tra fine 1991 e il 1993 che stavo in università la mattina, poi da Wimpy da pranzo a cena, di notte abbiamo aperto uno studio in una cantina e provavamo a fare HC e mandavamo le demo a questo contatto, finché a fine ‘93 ci hanno dato l’ok per una demo e siamo andati su in uno studio attrezzato a registrarla.” Così, nel ‘94 esce il primo disco su Rotterdam Records, e poi il secondo.
Sono gli anni in cui l’HC si sviluppa anche in una parte commerciale, l’Happy Hardcore, cantata e orecchiabile, 170 bpm, che va in classifica in Olanda, Belgio, Inghilterra e, in misura minore, Germania, arrivando di conseguenza anche a Molella e Albertino.
La reazione al trend non si fa aspettare: “Tra il ‘95 e il ‘97 i bpm precipitano, escono di colpo dischi molto lenti, 145-150, che da 220 bpm è un bel salto, si rallenta tutti, la musica diventa più bella: rallentando si ricreava uno spazio per la tecnica, per fare roba nuova, perché a 220 c’è poco da fare, allora si è tornati indietro e cominciato a fare musica un po’ più dark.” Artefice di questa svolta è ancora una volta Marc Acardipane, a fianco di un nuovo nome come Doctor Macabre dalla Francia, che segna i tempi con la traccia “Poltergeist”. È proprio a questo punto che Maxx apre la Traxtorm Records, produce i primi dischi di gente come Art of Fighters e Tommyknocker, la scena si consolida e, anche in Italia, si iniziano a vedere i “gabber”.
L’hardcore italiana era ancora una nebulosa di azoto e zolfo, come diceva Franchino in una delle sue migliori performance da vocalist per Ricky Le Roi, ma alle serate iniziano a distinguersi le “divise ufficiali gabber 1996”, riprese dallo stile diffusosi in Olanda fin dall’inizio del decennio. A portare in Italia la combo tuta Australian/cappellino/occhiali tondi/Air Max/rasata/pastiglia in corpo sono i primi fan che salgono in Olanda in pullman al seguito della cricca Traxtorm, che nel frattempo aveva messo piede a palazzo: “I gabber olandesi erano uno spettacolo. La prima volta che siamo andati a Rotterdam io, Giangi e Buby [la formazione iniziale degli Stunned Guys] e abbiamo visto 15 mila persone in tuta che ballavano e facevano l’hakken, sta mossa assolutamente innaturale, io ho pensato ma che cazzo stanno facendo, ballano? Era bello… In olandese ‘gabber’ vuole dire compagno, amico. In quel periodo in Olanda avevano trovato il modo di fare l’ecstasy che costava poco, pulita, uno si pigliava una pastiglietta, andava a una festa e non succedeva niente di male a nessuno.” Strano a sentirsi per chi è cresciuto con l’equazione gabber = Lonsdale, cazzotti e Fred Perry. Effettivamente qui i vangeli divergono, e il parere di Riccardo, fondatore di Spacetrip, cioè del negozio ufficiale della scena italiana, è diverso. Secondo lui l’influenza sui gabber del movimento skinhead è sempre stata dominante, considerato anche quanto fosse grossa l’intersezione tra le curve degli stadi di Rotterdam e Amsterdam e il popolo hardcore. Comunque, che l’Australian fosse il paramento sacro degli adepti dell’hardcore ce lo conferma anche Riccardo stesso, che ai tempi viveva ad Amsterdam, nonché l’immediata comparsa del marchio olandese Cavello, a metà anni Novanta, perché l’Australian faceva dei fatturati così grandi che gli olandesi, “ che sono dei figli di puttana, perché questo sono, riescono a tenere insieme un sistema in cui possono esprimere creatività e business ai massimi livelli insieme,” decidono di mordere una fetta della torta.
Ma le tute in acetato sono solo uno dei punti controversi della caduta della bomba HC.
Foto scattata a una serata al Florida, per gentile concessione di Anna Adamo e Guido Borso, tratta dal loro progetto sulla subcultura gabber.
La vecchia storia dei gabber teppisti e dell’hardcore come musica della deprivazione sensoriale e della violenza istintiva è in parte un mito, ma è sicuramente stata accompagnata da episodi che hanno portato, a quasi un decennio di distanza l’una dall’altra, alla decisione di chiudere i locali in cui veniva suonata. Vere e proprie contromisure vengono prese o dalla Legge—accade nel 1995, “annus horribilis” delle discoteche—o dal Gotha dei DJ HC—e questo invece accade nel 2002, quando, come ci racconta Maxx, durante una serata d’agosto a Cervia la situazione sfugge talmente di mano che lui, Randy, Lancinhouse e gli altri chiamati in consolle devono letteralmente abbandonare la discoteca con i dischi in mano. “In tutto il locale si stavano lanciando le sedie, una rissa di 150 persone, e dopo quella rissa, ci siamo trovati tutti a settembre—tutti in teoria eravamo nella line up di quella serata—e abbiamo detto, ragà, adesso non suoniamo più. E allora il Number ha smesso di fare HC, il Florida ha smesso di fare HC, abbiamo tolto tutti le mani.”
La situazione italiana aveva seguito a ruota il degenerare della situazione olandese, dove già dal 2000 tifoserie e skinhead di Amsterdam e Rotterdam se le suonavano di santa ragione in infrasettimanale negli autogrill (ma lì la tensione Amsterdam/Rotterdam era pre-esistente, centenaria, e solo poi si era riversata nel testa a testa Mokum Records/Rotterdam Records), e anche lì la risposta era stata lo stop delle serate gabber. In Italia la questione è, manco a dirlo, diversa: le tifoserie sono, al massimo e solo superficialmente, quelle politiche: il vero problema è di natura tossicologica e antropologica. Che una certa zarritudine sia insita nel DNA de noartri non è da sottovalutare, e uniamo a questo la scelta di droghe come lo speed per creare un cocktail esplosivo che a una certa è, ovviamente, esploso, complici anche gestori di locali che hanno deciso di cavalcare l’onda della dilagante passione musicale senza troppi scrupoli. “Nel 2001 avevamo fatto Hardcore Nation al Filaforum, e da quel momento in poi tantissimi locali hanno iniziato a fare HC, il concetto era ‘pigliamo un DJ che fa HC, facciamoli sfracellare tutti, portano i soldi.’ Non gliene fotteva un cazzo del buono svolgimento della serata. Dopo l’episodio del Ferragosto 2002, abbiamo deciso tutti insieme che per sei mesi non avremmo più suonato in Italia, perché l’HC era diventato un campo di battaglia. Il problema era stato la perdita del controllo di ordine pubblico, anche perché è una musica che, a non viverla nel modo giusto, rischi di interpretarla in modo violento.”
Nei sette anni precedenti la scena si era allargata in maniera esponenziale, per quanto il feeling di libertà creativa e di ibridazione di diversi stili di elettronica si fosse oramai irrimediabilmente perso; di questo si possono incolpare sia la naturale maturazione degli stili che la sensibile diminuzione di club disponibili, aggrediti dal neonato allarme-pasticche e generale allarme-discoteche. Serate ed eventi HC spuntano in tutta Italia, dando vita soprattutto a Roma a una generazione di producers che troveranno casa tutti presso la Traxtorm, ma i templi gabber erano rimasti solo due nell’hinterland bresciano: il già citato Florida a Ghedi, e il Number One di Cortefranca, flagellato negli anni da periodiche chiusure. Un’espansione che, come si è visto, aveva portato a una serie di fraintendimenti e di commistioni che sulle prime si era riusciti a evitare, come il dilagare di sentimenti fascisti o parafascisti, veicolati forse soltanto da un’estetica ambigua. Questo nonostante i DJ di punta e le label rispedissero al mittente ogni tentativo dei gruppi di estrema destra di portarli dalla loro parte. Nello stesso tempo al famigerato Number era nata una corrente di hardcoreofili tutta nuova: gli Hardcore Warriors, completamente diversi dai gabber perché più colorati, più cyber e volutamente esagerati. La loro divisa è fatta di spike variopinte al posto della pelata, Buffalo zeppate anziché Nike, pantaloncini da bici, scaldamuscoli e mezzi guanti. A differenza dei gabber, i warriors pogano, e uno dei loro più antichi riti tribali ha luogo al Number in chiusura di serata: montano uno sulle spalle dell’altro fino a formare una piramide che ambisce—non sempre riesce—a toccare il soffitto. In questo li aiuta il fatto che, da sempre, alle cinque di mattina la security del “loro” club leva le tende e per un’ora, come si dice, vale tutto. Un approccio molto più casinista, apparentemente più violento, anche se spinte e manate sono un gioco e nulla più—così ci hanno detto, sottolineando che al massimo la rissa scoppia quando qualche gabber, “gamberetto” per loro, arriva a fare lo spaccone. Difficile capire, quindi, da dove venga la violenza che da lì in poi iniziò a maledire le serate HC, considerato anche che gabber e warrior si rimbalzano le accuse di essere quelli violenti, drogati, politicizzati e, peggio, quelli pieni di poser. Logico quindi evitare giudizi generalisti su ciascuna delle due parti. La causa sta sicuramente più nell’approccio all’Italiana alle sottoculture, soprattutto quelle che non presentano un codice etico proprio. Non c’è bisogno di ricordare quanti danni ha fatto l’a-ideologico metal estremo, nella persona di chi lo ha interpretato troppo alla lettera, tutt’altra storia rispetto alla dimensione politica tipicamente punk, che in fin dei conti ha generato una conflittualità più ragionata. Oltre a questo, dicevamo, c’è l’influenza delle droghe “sbagliate”.
Parliamo sempre di speed, che non è proprio l’additivo più consigliato se non volete finire per spaccare lo zigomo a quello che ballonzola nello spazio che avete deciso essere vostro. Ma questioni chimiche a parte, un’altra ragione per cui probabilmente l’hardcore in Italia non ha mai raggiunto uno status “pop” ed è quindi sempre rimasta fuori dal circuito della musica che puoi tranquillamente ascoltare senza che l’ascolto sia interpretato da tutti come uno statement di sovversione, violenza e del fatto che non prenderai mai la licenza superiore, è per Maxx il perbenismo culturale delle istituzioni italiane. Che si esplica in tutti i suoi bracci armati, numero uno la SIAE, mentre in Olanda “qualche anno fa l’Exclusive Holland, una serata solo hardcore e hardstyle, è stata inaugurata dalla regina, in ringraziamento ai produttori ai musicisti olandesi che avevano fatto diventare questa scena grande a livello internazionale.” In Italia invece l’HC non è rimasta quello che poteva, e anzi doveva essere, cioè uno dei generi musicali alternativi, e non è la sola. “La trance,” si chiede Maxx, “perché in Italia non è mai andata la trance? Magari negli ultimi due o tre anni la situazione è migliorata, con Guetta, ma sostanzialmente sono anni e anni che nella top ten dei DJ mondiali ci sono solo DJ trance, e in Italia invece niente… Cioè la trance non è l’HC, la puoi sentire tranquillamente in radio, un set di Van Buren o di Tiesto te lo ascolti e stai da paura.”
Cristian degli Art of Fighters negli studi di registrazione della Traxtorm Records.
In fin dei conti, però, non c’è da lamentarsi. Dopo essere rimasta viva soprattutto nel circuito internazionale, dove tuttora porta sempre altissima la bandiera della Hardcore Italia, partecipando da headliner a eventi come il Thunderdome, il Dominator (l’inno del 2011 l’hanno fatto gli Art of Fighters) e altri raduni non per cuori deboli, nel 2007 la Traxtorm è tornata al Florida, assumendo in pieno la direzione artistica della mensile serata gabber e disciplinandone il clima fin dai flyer, dove si legge a chiare lettere l’adozione della politica NO DROGA, NO POGO, NO VIOLENZA, NO RAZZISMO, niet. Questa perestrojka è stata possibile solo una volta che le acque si erano calmate, anche grazie a una nuova generazione di appassionati, più in sintonia con i loro coetanei olandesi per i quali, dimenticate le sassate, l’HC era una realtà come un’altra. Fa molto effetto, oggi, infilarsi nel dancefloor di una serata HC e notare quanto sia bassa l’età media dei partecipanti, specialmente, il più delle volte, in confronto a quella di chi sta in consolle. È una cosa che fa storcere il naso a molte vecchie glorie e a molti puristi, soprattutto i Warriors quelli veri, sopravvissuti alle mille chiusure e riaperture del Number One, e tendenzialmente insofferenti sia alla criminalizzazione di cui si sentono oggetto, sia al suono della musica HC degli ultimi 10 anni.
C’è da dire che come tutte le scene fortemente connotate in senso estetico, logistico e musicale, ogni cambiamento viene vissuto da chi è all’interno come uno svendersi al mercato o un decadere, che poi se vogliamo è il normale corso di ogni oggetto che attraversi la storia, e dall’altra parte la spinta di una realtà musicale è, se la traiettoria è ben sparata, dall’underground al mainstream. Tanto è vero che Maxx stesso ci ha esternato qualche dubbio sull’hardstyle, che attualmente sforna hit che, i duri e puri dell’HC tengono a specificare, “sono hardstyle e non hardcore”, perché i suoni sono troppo commerciali e manca di credibilità underground. Questa è musica che non può piacere a tutti, così come l’undercut non dovreste averlo tutti in testa, e quando piace a tutti, i veri guerrieri dell’HC iniziano a storcere il naso.
Per questo ci chiediamo: sarà mica controproducente voler affrancare la techno hardcore da quell’alone di pericolosità e di oscurità che la rendevano, appunto, uno statement? Certo, è comprensibile anche che dopo anni passati a subire i cliché in un Paese ignorante, si senta davvero la necessità di scrollarseli tutti di dosso. Questo scontrandosi anche con una fetta di pubblico che invece spinge verso il conservatorismo totale. A chi non abbia mai militato nella scena l’urgenza e l’entusiasmo che si sentono in certe produzioni old school sembrano molto più facili da ritrovare in tipi completamente diversi di elettronica che in parte della roba strettamente hardcore che esce oggi. Certo, l’entusiasmo e la partecipazione di pubblico non sono per niente scemati (anzi), e ha ragione Maxx quando afferma che c’è in giro voglia di pestare, che il pubblico di ogni tipo sia maturo per un ritorno dell’elettronica più spinta, soprattutto c’è di nuovo voglia di sperimentare stili di elettronica che abbiano a che fare sia con il ballo che con l’appartenenza a un ambiente. Forse, però, se mai nascerà qualcosa di assimilabile allo spirito della prima hardcore, nascerà da ambienti esterni al genere e dovrà fare il suo stesso cammino.
Chiudiamo con una proposta per il bene sociale e per la pacificazione tra i gabber e il resto del paese. È molto probabile che alla sorgente di ogni violenza ci sia il fatto che nessuno in Italia sa ballare un hakken decente, e a gomitata involontaria risponde centra pensata; per qualcuno è un problema genetico, ma non si sa mai però che non si possa imparare. Per cui: aprite scuole di hakken.
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