Música

La scena gabber italiana è in crisi?

guido borso

L’hardcore in Italia è in declino, ma la colpa non è del pubblico. Almeno così la pensano molti dei protagonisti della scena musicale hardcore made in Italy, esplosa negli anni Novanta con i suoi epicentri nel nord Italia.

In particolare le zone di Brescia e Bergamo sono state per anni popolate dai gabber, i cultori dell’hardcore riconoscibili esteticamente per le tute acetate Adidas, le polo, le Air Max Classic ai piedi, i bomber e la rasatura totale o laterale. Dai Novanta fino ai primi Duemila, l’hardcore e i gabber non hanno conosciuto momenti morti. Ora invece sembra essere incominciata una discesa inesorabile.

Videos by VICE

Tanti addetti ai lavori sono d’accordo su una cosa: il motivo numero uno della crisi dell’hardcore da noi è l’avversione che le istituzioni stanno dimostrando contro questa realtà. “Nella zona di Brescia e Bergamo il pubblico ama ancora l’hardcore ma è spaventato e stufo delle perquisizioni. Sono cinque anni che veniamo martoriati. Ci sono sempre controlli nei locali”, mi racconta Andy The Core, uno dei dj più seguiti della scena italiana.

“Nella zona di Brescia e Bergamo il pubblico ama ancora l’hardcore ma è spaventato e stufo delle perquisizioni.”

Molti locali che facevano hardcore sono stati chiusi si sono visti la licenza revocata, dice Andy, e ormai in Italia si parla di meno di una dozzina di eventi all’anno: “Negli anni Novanta c’erano molte più serate, la gente il sabato sera andava a ballare, punto, e quindi c’erano più club. Noi, come pubblico, non aspettavamo altro che il weekend per andare ad ascoltare e a ballare la nostra hardcore, senza quasi nemmeno guardare chi suonava. Quelle poche cassette e cd che si compravano o copiavano venivano consumate”, afferma Samuele dei The Sickest Squad, duo di dj osannato sia in patria sia all’estero.

Il suo socio Jacopo annuisce con occhi nostalgici: “Sì, in passato una cassetta con la registrazione di dj set hardcore qualsiasi veniva trattata come un oggetto sacro”. Mi raccontano di come negli anni Novanta il locale era pieno anche solo con il resident dj. “Oggi se non chiami almeno due o tre ospiti hai trenta paganti”.

Le cose sono cambiate, come per tanti altri generi e settori. La differenza, per chi lavora a stretto contatto con la scena, sta nei pregiudizi legati alla cultura hardcore. È per questo che i permessi ai locali scarseggiano mentre i controlli si moltiplicano. “Per dire, all’ultima edizione dell’E-Mission Festival [il festival più importante hardcore e hardstyle che si svolge al Florida di Ghedi] è arrivato l’ispettorato del lavoro”, mi racconta Andy The Core.

“Non aspettavamo altro che il weekend per andare ad ascoltare e a ballare la nostra hardcore, senza quasi nemmeno guardare la line up.”

Intanto gli arriva un messaggio vocale su WhatsApp: “Ciao Andy, mi ha appena chiamato il ragazzo che gestisce il posto dove sabato dovevamo fare la festa. È saltato tutto, non si fa più”. Il motivo? Controlli da cui sono emerse cose non in regola. A parlare non è il proprietario di una discoteca da cinquemila persone a sera. È un ragazzo che ha organizzato una festa per settanta persone.

Nonostante sia giusto assicurarsi che tutto sia a norma di legge e sicuro, specialmente in luoghi in cui si svolgono eventi con numerose persone, i ragazzi con cui parlo non sanno più dove sbattere la testa. Dai dj ai promoter fino ad arrivare ai buttafuori, tutti si ritrovano in una situazione difficile, in primis economica, perché la serata salta quasi sempre.

1574264169187-matt-muscarella-The-Melodyst
Matt Muscarella e Simone Paradiso, aka The Melodyst

Polizia, carabinieri e ispettorato del lavoro trovano sempre un motivo legittimo per fermare tutto. Norme di sicurezza non rispettate, lavoratori non in regola, stupefacenti: sono tutti validi argomenti per far saltare una serata e per chiudere un locale, questo è indiscutibile. Però tutto ciò—secondo chi lavora a stretto contatto con la scena—sarebbe una conseguenza della situazione critica in cui è impantanata l’hardcore in Italia e fa parte di un effetto domino che ha portato questa musica a una situazione di stallo, una forte crisi che non le permette di diventare una realtà culturale ed economica. Come invece è successo altrove.

“L’hardcore è nato in Italia e in Olanda. A noi sta stretto, mentre là sull’elettronica ci hanno creato un business. I festival portano un turismo pazzesco, basti pensare al Tomorrowland”, spiega Andy. “Dal Florida allo Shock di Paesana allo Chalet di Torino, quasi tutti i locali di musica hardcore sono stati chiusi o almeno toccati in qualche modo”.

Non si tratta quindi di un cambiamento di gusti? Secondo Andy e tanti altri impiegati dell’hardcore, assolutamente no. Anzi: “la scena hardcore italiana è viva. Il pubblico italiano all’estero è tantissimo e ciò significa che l’interesse c’è. Però sono costretti ad andare all’estero alle feste perché l’Italia non può proporgli quello che propone l’Olanda”.

“L’hardcore è nato in Italia e in Olanda. A noi sta stretto, mentre là sull’elettronica ci hanno creato un business. I festival portano un turismo pazzesco, basti pensare al Tomorrowland.”

In Italia il movimento hardcore resiste, quello che manca sono gli spazi, gli eventi, i luoghi. I “templi” in cui celebrare il rito hardcore scarseggiano. L’unico che ancora è vivo e vegeto è lo storico Number One, che però rimane una mosca bianca. Molti altri hanno chiuso i battenti o stanno per farlo.

“Ormai è sempre più difficile trovare eventi di livello in Italia, anche perché è sempre più difficile organizzarli. Però c’è una marea di gente che ogni weekend prende un aereo e va a ballare nei grossi eventi europei”, mi racconta Daniele Ferrari aka Tetta, dj e organizzatore di eventi. “Bisognerebbe organizzare un evento di grosso livello in qualche palazzetto o fiera. Smuoverebbe qualcosa. Purtroppo penso sia quasi impossibile, non è facile trovare chi accetta di utilizzare la propria struttura per manifestazioni hardcore”.

https://www.youtube.com/watch?v=EQw3q5QZdzU

Uno dei problemi dell’Italia è che i clubber sono visti come fattoni anziché cultori di un genere di nicchia. I gabber poi ciao, sono l’anticristo. In realtà “il pubblico hardcore è freak ma non così folle come si pensa. È molto più rispettoso di quanto si possa credere”, secondo Andy the Core. “La trasgressione ovviamente c’è. Alla fine degli anni Novanta e inizio Duemila c’erano i Rotterdam Terror Corps con ballerine totalmente nude che si sputavano il fuoco addosso, per esempio. Adesso ci sono i Greazy Puzzy Fuckerz che si lanciano dildi gonfiabili sul palco. È hardcore, fa parte del gioco”.

Matt Muscarella, dj e producer per The Melodyst, Monkey Bizness e Points of Authority, confessa che tra le cose più forti viste nell’arco della sua carriera c’è stato un momento di sesso orale da parte della moglie del dj che stava suonando a un altro dj sotto il palco. Samuele Gozzo e Jacopo Stevanato, meglio conosciuti come The Sickest Squad, dominano la scena da ben quindici anni con la loro Frenchcore. Eppure quando gli chiedo di dirmi qual è stata la cosa più trasgressiva mi rispondono: “il pogo finale del Number One, ormai vietato da anni dallo stesso proprietario”. E, precisa Samuele, “pogo che oltretutto è sempre esistito nella scena metal e punk”.

Mario Basalari, il proprietario del mitico Number One, a fine serata negli anni d’oro si impossessava del microfono e raccomandava ai ragazzi di non farsi male. Un atteggiamento che ricorda quasi un capo Scout o un allenatore di calcio, non il proprietario del club italiano numero uno in cui ballare una musica percepita come sinonimo di trasgressione ed eccessi.

Niente corpi immolati, gente che beve sangue e via dicendo. Ma perché allora l’hardcore fa così paura?

Quindi niente corpi immolati, gente che beve sangue e via dicendo. Ma perché allora l’hardcore fa così paura? Non possiamo credere che c’entri la droga: ormai dov’è che non si trova? “È ovvio che ci sia illegalità alle serate. Ma in qualsiasi locale trovi chi esagera. A Woodstock ne sono successe di tutti i colori, niente era in sicurezza, eppure è ricordato come uno degli eventi migliori di sempre. E probabilmente lo è stato davvero”, mi dice Tetta, che organizza eventi da oltre vent’anni.

“In realtà la cosa più trasgressiva è l’abbigliamento molto eccentrico di parte del pubblico e il modo di ballare”, continua, “Per molti è incomprensibile che si possa sopportare questa musica per così tanto tempo senza assumere droghe. Non capiscono che è proprio la passione per questa musica la droga, ciò che induce la gente a fare chilometri e sacrifici pur di andare a ballare e divertirsi insieme a tanti altri ragazzi con gli stessi gusti”.

1574265462015-matt-muscarella-Monkey-Business
Matt Muscarella aka Monkey Bizness

L’aggregazione, la condivisione, il sentirsi parte di una famiglia: questo è il motore che avvia l’hardcore, come ogni scena musicale. Secondo Matt, però, l’hardcore “ormai è in una bara. Mancano i chiodi ma c’è già il coperchio appoggiato sopra. È quasi morta, come tutta la nightlife italiana e la sua cultura”. Crede che lo Stato italiano negli ultimi dieci anni stia usando ogni mezzo per estirpare dall’Italia la cultura underground, il clubbing, l’hardcore, la techno. E fa ovviamente l’esempio di Rimini, Riccione e di tutta la riviera Romagnola.

Con l’hardcore sta succedendo la stessa cosa, dice, la medesima crocifissione che ha sacrificato il Cocoricò e tante altre culle della cultura alternativa. “L’hardcore lo stanno riducendo a niente, gli tagliano le gambe in qualsiasi modo. Se un ragazzino ha una canna, chiudono il locale. Ed è ovvio che, dove ci sono giovani, c’è qualche irregolarità. Eppure anche nella scena rap succede la stessa cosa, ma porta più soldi. Quindi forse viene tollerata maggiormente”, continua Matt.

“L’hardcore lo stanno riducendo a niente, gli tagliano le gambe in qualsiasi modo. Se un ragazzino ha una canna, chiudono il locale.”

Non che per lui i controlli siano inutili, anzi. Ma è il modo. Matt Muscarella vive ormai quasi in pianta stabile a Rotterdam e ha notato che lì le cose sono diverse, anche solo a livello di feeling. “All’estero nessuno ha paura delle forze dell’ordine. Non vogliono intimorire, non vogliono imporsi. In Olanda e all’estero in generale ho la sensazione di protezione quando c’è una pattuglia. Fanno in modo di farti capire che sono lì per proteggerti. E in Italia? Spesso c’è pieno di agenti in borghese per trovare due cannette.”

Matt continua: “I ragazzi poi si stufano: a furia di essere perquisiti e controllati, passa la voglia di andare in quel locale. Anche quando non ti trovano nulla, è sempre una cosa che pesa, molto pressante. L’esperienza di essere perquisito durante una serata non la auguro a nessuno. A me da ragazzino è capitato fuori dal Cocoricò. Non mi hanno trovato nulla ma ti assicuro che è stata una situazione bruttissima”.

“La discoteca viene chiusa se trovano della droga perché viene automaticamente ritenuta luogo pericoloso. Ovviamente il problema non si risolve così: chi spaccia va da un’altra parte.”

Per il dj e organizzatore di eventi Daniele Ferrari, “i controlli sono fondamentali perché la serata si possa svolgere in sicurezza. Purtroppo però credo che spesso non siano finalizzati alla prevenzione ma solo alla repressione. Quello che ultimamente sta accadendo è questo: la discoteca viene chiusa se trovano della droga, perché viene automaticamente ritenuta luogo pericoloso. Ovviamente il problema non si risolve così: chi spaccia va da un’altra parte. E il club, che non ha nessuna colpa, ne paga le conseguenze. Oltretutto senza avere nessuna arma per combattere questa situazione”.

Samuele dei The Sickest Squad ha assistito a decine di controlli e perquisizioni nei locali in cui lavora. “A volte i controlli sono corretti e nel pieno rispetto delle persone, altre volte chi è controllato si sente quasi come se fosse un delinquente. E non trovo sensato emettere un’ordinanza qualche ora prima di un evento hardcore che vieta l’uso di alcolici nel raggio di 600 metri intorno alla discoteca. In questo modo si distruggono imprenditori, si mettono in ginocchio attività, si danneggia il mestiere del promoter che investe decine di migliaia di euro a ogni evento”.

Il suo socio Jacopo aggiunge: “Abbiamo visto decine di pattuglie in fila fuori da una discoteca. Cosa che forse non vedi nemmeno allo stadio con cinquantamila persone”. Anche Andy the Core ha assistito a tantissimi controlli durante le sue serate: “Sono stato perquisito più volte pure io. Perfino alla rotonda davanti al Florida dove dovevo suonare.”

“Abbiamo visto decine di pattuglie in fila fuori da una discoteca. Cosa che forse non vedi nemmeno allo stadio con cinquantamila persone”

Tutto questo ormai si applica però a poco più di una decina di eventi all’anno. Secondo Andy the Core, per ridare vitalità all’hardcore basterebbe “un’apertura mentale da parte delle istituzioni. Se si permettesse ai locali e ai palazzetti di organizzare questo tipo di eventi, crescerebbe la cultura. E oltre a vantaggi economici, questa operazione comporterebbe anche vantaggi sociali: i giovani hanno bisogno di posti dove ascoltare musica, sentirsi liberi e avere così una valvola di sfogo”.

E parlando di vantaggi economici, potrebbe portare guadagni con più zeri dei cerchi olimpici. In Olanda l’hardcore è un’industria da milioni di euro all’anno. I Q-dance Party olandesi sono eventi da cinquantamila biglietti, organizzati come luna-park in mezzo ai campi. C’è addirittura gente che studia all’università per diventare coreografo dei Q-dance Party, come mi racconta Matt Muscarella.

Per Andrea Gavinelli servirebbe “una più larga distribuzione delle serate sui locali italiani. Per ora è relegato in Piemonte, Lombardia e Liguria”. Invece Samuele dei The Sickest Squad vorrebbe “che l’hardcore entrasse nelle televisioni, nelle pagine dei giornali o anche solo nelle riviste musicali. È un genere come un altro e come tale deve essere trattato”.

Oltre ai pregiudizi dell’italiano medio contro l’hardcore, andrebbero abbattuti anche quelli di chi ascolta hardcore ma snobba le serate italiane, preferendo quelle all’estero. In Italia ce ne sono poche, è vero. Ma quando si riesce a farle bene, lasciano il segno. Tutti quelli cui ho chiesto di raccontarmi “la serata” mi hanno parlato di hardcore de noantri, targato Italia.

“Il Florida è casa mia, tutte le serate lì sono emozionanti. La prima volta che ho suonato in main stage, quando ho fatto lo show case del primo album Kill Somebody e ho suonato in totale otto ore, è stato pazzesco. Era l’E-mission del 2015, sono entrato al Florida che era giorno e sono uscito all’alba”, mi racconta Andy the Core. Anche i The Sickest Squad ricordano come top il loro primo concerto in Italia al Florida: “Locale sold out e atmosfera incredibile. Nessuna rissa, nessun problema, tutti con il sorriso”.

“Il Florida è casa mia, tutte le serate lì sono emozionanti.”

Se l’Italia capisse che nelle varie migrazioni all’estero di cervelli, mode e divertimenti quella che ci rimette è sempre lei, forse smetterebbe di combattere contro i mulini a vento. E finalmente quei mulini li costruirebbe in casa, per ricavarci qualcosa come in Olanda. Però siamo un Paese da mulino bianco che ha deciso di accogliere solo turismo di famiglia, spazzando via decenni di storia di clubbing entrati nel mito più a livello internazionale che nazionale.

Quello che le istituzioni dovrebbero capire, però, è che il turismo di famiglia si basa su figli che cresceranno e che avranno bisogno di valvole di sfogo, come tutti i giovani. La storia ci ha insegnato che reprimere non è mai risolutivo, anzi. E non parliamo solo di storia del clubbing, purtroppo.

Camilla è giornalista, scrittrice e autrice televisiva. Seguila su Instagram.

Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.