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Il 17 dicembre 2015 l’astronauta Samantha Cristoforetti, che ricopre anche il ruolo di ambasciatrice dell’Unicef, si è recata a Lampedusa per “un breve viaggio conoscitivo della realtà migratoria che da anni attraversa la maggiore delle Pelagie.”
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Mentre l’astronauta si trovava al molo Favaloro per incontrare gli uomini della Capitaneria di porto, un gruppo di circa duecento eritrei è uscito dal nuovo hotspot di Contrada Imbriacola e ha sfilato per le vie dell’isola, scandendo slogan quali “freedom, freedom” e reggendo cartelli che recitavano “siamo rifugiati, niente impronte.”
La stessa protesta è andata in scena tra il 5 e il 7 gennaio del 2016. Restando sul sagrato della chiesa per due giorni e una notte, gli eritrei hanno nuovamente rivendicato il diritto alla libertà di movimento e la loro contrarietà alla raccolta delle impronte digitali—una procedura che, secondo il regolamento Dublino III, li costringe a rimanere in Italia.
Pochi giorni prima della seconda manifestazione di protesta a Lampedusa, a Trapani 196 persone di varia nazionalità – tutte sbarcate a Palermo il 29 dicembre del 2015 – hanno ricevuto dalla Questura un provvedimento di respingimento differito con l’intimazione di lasciare l’Italia entro una settimana “attraverso la frontiera di Roma Fiumicino.”
“Ci hanno fatto firmare dei fogli,” ha raccontato un migrante al giornalista Marco Bova. “Ma noi non abbiamo potuto leggere cosa c’era scritto. Non abbiamo capito nulla. Ci dicevano: veloci, veloci, così andate via. Noi non possiamo tornare al nostro paese, c’è un ragazzo che è albino e alcuni che sono minorenni.”
Una volta allontanati dall’hotspot, il secondo aperto in Italia, i migranti sono stati letteralmente scaricati per strada, senza sapere dove andare. In 120 sono rimasti nella centrale Piazza Vittorio, dove la Croce rossa ha portato loro del cibo. Vista la situazione, il prefetto ha allestito un ricovero di emergenza presso una palestra comunale. Alla fine, riporta il Fatto Quotidiano, i migranti sono stati ricollocati nel sistema dei Centri d’accoglienza straordinaria (Cas) dopo aver fatto la richiesta di protezione internazionale.
Le proteste dei migranti a Lampedusa e i respingimenti collettivi a Trapani, insomma, rappresentano gli effetti più visibili e concreti della sperimentazione degli hotspot in Sicilia.
Queste strutture – in realtà centri già esistenti e attrezzati, semplicemente da ampliare – sono contemplate dall’Agenda europea per le migrazioni, il piano dell’Unione presentato diversi mesi fa dal Presidente della Commissione Jean Claude Juncker. Secondo quanto prescritto dall’agenda, negli hotspot le forze dell’ordine nazionali – coadiuvate da funzionari delle agenzie europee Frontex, Europol, Eurojust e Easo – dovrebbero identificare i migranti e separare i candidati all’asilo dai “migranti economici,” che in quanto tali vanno rimpatriati.
In Italia le strutture previste sono sei: cinque in Sicilia – Lampedusa, Trapani, Augusta (Siracusa), Porto Empedocle (Agrigento) e Pozzallo (Ragusa) – e una in Puglia, a Taranto. Complessivamente la capacità ricettiva dovrebbero essere di 2.100 posti. Ma ad oggi, appunto, quelle attive sono solo due—Lampedusa e Trapani.
Il prossimo hotspot che dovrebbe entrare in funzione è il centro di primo soccorso e accoglienza (Cpsa) di Pozzallo, dove però la situazione – tra sovraffollamento, scarse condizioni igeniche e disorganizzazione generalizzata – non è delle migliori.
Il 30 dicembre queste “condizioni inaccettabili” hanno causato l’uscita dal Cpsa di Medici senza frontiere. Nello spiegare la decisione in un’intervista, il capo missione in Italia Stefano di Carlo ha definito il centro “un luogo simbolo – in negativo – della prima accoglienza italiana ai migranti.” La responsabile medica dei programmi sulla migrazione per MSF, Federica Zamatto, ha inoltre espresso la preoccupazione che Pozzallo “si trasformi nel modello della prima accoglienza in Italia, un modello che riteniamo del tutto inadeguato.”
A fronte dei sostanziali ritardi sull’attivazione dei nuovi hotspot, il vicepresidente della commissione europea Frans Timmermans ha dichiarato che “l’Italia sta facendo un grande lavoro, ma sul fronte degli hotspot è ancora indietro. È necessario sapere chi ha diritto a restare e chi no. Frontex sta aiutando, ma resta ancora molto da fare sul fronte dei rimpatri.”
Contestualmente, verso la metà di dicembre, la commissione ha aperto una procedura d’infrazione per il mancato rispetto delle regole Eurodac, il sistema europeo di raccolta delle impronte digitali dei migranti.
Secondo Daniela Stradiotto, direttrice del servizio di Polizia scientifica, dal 1 gennaio al 10 settembre del 2015 su 121.974 migranti arrivati sulle coste italiane, 81.282 non si sono opposti al fotosegnalamento e al prelievo delle impronte; in sostanza, una persona su tre riesce a non farsi identificare. Per questo motivo, dunque, l’UE ha esortato l’Italia anche a “usare la forza” se necessario, nonché a “prevedere di trattenere più a lungo i migranti che oppongono resistenza.”
La procedura d’infrazione ha provocato la reazione sdegnata di Angelino Alfano, che ha parlato di una decisione “ingiusta” e “irragionevole,” spiegando che “l’Europa dovrebbe solo dire mille volte grazie all’Italia che, all’inizio completamente sola, ha fatto fronte a una emergenza dalla portata internazionale, avendo per prima l’esatta percezione di quanto stava per accadere.”
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L’irrigidimento della posizione dell’Unione Europea sulla questione della raccolta delle impronte, per il resto, è andata di pari passo con il sostanziale fallimento della ricollocazione di rifugiati e richiedenti asilo dall’Italia agli altri paesi europei. La misura, decisa in ambito europeo, era stata salutata dallo stesso Alfano come “la vittoria degli ideali che stanno nella mente e nel cuore di chi crede nell’UE.”
All’inizio di gennaio, tuttavia, i numeri di questi ricollocamenti sono semplicemente irrisori—240 in tutto, a fronte di 40mila profughi da “smistare” in due anni, come previsto dagli accordi.
Il prefetto Mario Morcone, a capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, ha recentemente spiegato che in questo caso “i problemi sono vari,” a partire da una “procedura troppo complessa” fino ad arrivare alle conseguenze degli attentati di Parigi. “Molti paesi che si erano dimostrati disponibili ad accogliere i richiedenti hanno frenato,” ha precisato Morcone.
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Al di là dei ritardi e delle questioni politiche a livello europeo, più in generale sembra che sia il sistema degli hotspot in sé a non funzionare—quando non direttamente a causare violazioni ai diritti dei migranti, come hanno sostenuto numerose associazioni in una denuncia pubblica.
Per l’avvocato Salvatore Fachile, membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), gli hotspot presentano diverse criticità. La prima di queste è proprio la loro legittimazione, visto che “il concetto di hotspot non trova un fondamento giuridico nella normativa italiana.”
Dal punto di vista dei diritti violati, invece, i problemi si concretizzano sin dal momenti dell’ingresso nelle strutture. “Sostanzialmente negli hotspot viene realizzata una detenzione amministrativa dei richiedenti,” spiega Fachile a VICE News, “i quali vengono trattenuti all’interno del centro senza alcun provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria, e per un tempo imprecisato, fino a quando la persona non si convince a farsi identificare. Già questa è una forma di violazione della libertà personale di natura amministrativa, cioè totalmente illegale.”
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Un’altra fonte di preoccupazione è appunto la differenziazione tra richiedenti asilo e “migranti economici,” che secondo l’avvocato “avviene in maniera del tutto illegittima sulla base di una presunta intervista che viene effettuata dalla polizia senza che queste persone vengano preventivamente informate – come prescrive la normativa italiana ed europea – sui loro diritti.”
Alla indistinta categoria dei “migranti economici,” insomma, viene di fatto “negata la richiesta di asilo.” Queste persone, afferma Fachile, sono pertanto “condannate a una condizione di irregolarità nel territorio, se non addirittura a una ‘deportazione nel proprio territorio di origine.”
Il risultato più evidente di questa prassi, come spiega a VICE News Alberto Biondo dell’associazione Borderline Sicilia, “è la presenza di molti migranti respinti in strada,” che in teoria “dovrebbero raggiungere in sette giorni la frontiera di Roma Fiumicino con i propri mezzi.” Non potendola raggiungere, però, i migranti “restano a dormire fuori dalle stazioni, fino a quando il trafficante di turno non promette mari e monti per portarli su,” o si arrangiano in qualche altro modo.
Considerati i primi mesi di attività, c’è dunque una certa preoccupazione per l’apertura di tutti gli hotspot e la messa in regime del sistema, che ora come ora appare come una specie di “fabbrica della clandestinità.”
“Personalmente penso che l’idea di base sia quella di ricreare le stesse tensioni che sono accadute a Lampedusa nel 2011,” spiega Biondo a VICE News. “Mettere in strada tutte queste persone creerà problemi di ordine sociale.” L’impressione principale, comunque, è che si proceda “a tentoni,” e che finora si stia ancora cercando di “capire come potrà funzionare questo meccanismo.”
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La realtà sul campo, insomma, appare molto lontana dalle dichiarazioni trionfanti che Matteo Renzi aveva pubblicato su Facebook lo scorso 24 settembre. L’accordo europeo su “hotspot, rimpatri e suddivisione equa dei rifugiati” – “tre iniziative che si tengono insieme,” scriveva il premier – è descritta come “una vittoria per chi crede nell’Europa come casa di valori, comunità di destini, luogo di speranza. Siamo un popolo, non solo una massa aggregata di statistiche. E per questo affrontiamo insieme le sfide e i problemi storici del nostro tempo.”
A distanza di qualche mese, però, la piega che ha preso la vicenda degli hotspot dimostra che quell’”idea di Europa solidale” – emersa dopo molti vertici europei, piani per la gestione dell’immigrazione e foto che dovevano “cambiare tutto” – è rimasta solo una mera astrazione, dato che i governi europei hanno risolutamente abbracciato la “strategia del contenimento” a tutti i costi.
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Foto di apertura di gisella g via Flickr in Creative Commons