Attenzione: in questo articolo sono discussi temi sensibili come suicidio e depressione.
Il momento in cui ho capito di esserne uscito lo ricordo bene. Le ansie che un tempo mi ossessionavano erano diventate meno intense, e un po’ alla volta stava tornando a vivere la mia quotidianità senza paura di cadere in una crisi.
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Era l’estate del 2018 e sul cellulare mi era comparsa la notifica di questo messaggio: “Non sai quante volte ho pensato a come procurarmi una pistola.” A scrivere era uno dei miei migliori amici. Avevo appena tentato di fargli visita in un Spdc, un centro per il servizio ospedaliero in cui vengono ricoverati pazienti con trattamenti psichiatrici volontari ed obbligatori. Lui era stato portato lì dopo l’ennesima crisi legata al suo disturbo bipolare.
“Vieni a prendermi stasera,” mi aveva poi chiesto. Io ero salito in macchina e avevo viaggiato fino a Ravenna, distante qualche decina di chilometri dalla città di provincia in cui siamo cresciuti. Solo una volta arrivato al portone, il personale mi disse che non potevo portarlo indietro, e neanche parlarci.
Mentre tornavo a casa mi scrisse che voleva suicidarsi. Io invece no. O almeno, il pensiero non tornava a disturbarmi da qualche settimana.
In primavera mi avevano diagnosticato il Disturbo ossessivo compulsivo (Doc): dopo anni di sedute dallo psicologo, attacchi d’ansia senza spiegazione e infiniti minuti passati a lottare contro pensieri di morte, la mia mente era stata placata da 20 milligrammi quotidiani di Escitalopram e uno di Risperidone. Sono rispettivamente un antidepressivo e un antipsicotico usato per il trattamento della schizofrenia, ma che può anche aiutare a placare le ossessioni del Doc.
La terapia farmacologica mi ha accompagnato ogni giorno per gli ultimi cinque anni. E io sono cresciuto con essa accanto: mi ha permesso di avere relazioni senza pesare troppo sul partner, di svagarmi il venerdì sera, e soprattutto di reggere la pressione del mio lavoro nell’ambito del giornalismo.
Mi sono così tanto abituato agli psicofarmaci che col tempo ho iniziato a ragionare sul fatto che, presto o tardi, avrei potuto facilmente farne a meno. Purtroppo questa mia convinzione è venuta meno alla prova dei fatti.
Il mio 2023 è iniziato con una crisi da sospensione della terapia: per due settimane non sono riuscito a procurarmi l’Escitalopram. Preso dai sintomi dell’influenza, mi sono scordato di chiedere la nuova ricetta. Quando mi sono reso conto di essere rimasto scoperto dalla terapia, ho tentato di contattare il mio medico di base, ma la risposta è arrivata dopo più di una settimana: il centro era intasato di richieste per via dell’alto numero di influenzati stagionali.
Dal nulla mi sono ritrovato in uno stato di ansia costante, accompagnato da un enorme distacco emotivo verso le mie attività sociali quotidiane. Mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, a quando non riuscivo ad attraversare l’entrata del bagno, perché dovevo assicurarmi di toccare—e contare—ogni piastrella adiacente allo stipite della porta.
E questo tenendo conto che i sintomi da sospensione temporanea—a livello fisico e mentale—sono passeggeri, e ben lontani dallo stato che si può raggiungere dopo qualche settimana, quando svanisce completamente l’effetto dei medicinali.
In quei primi giorni dell’anno mi sono sentito una persona diversa. La cosa mi ha subito preoccupato perché gli psichiatri ripetono sempre ai propri pazienti che “gli antidepressivi non cambiano la personalità di una persona”. E così, per cercare di capire cosa mi è successo in quelle settimane senza farmaci—e più in generale cosa succede quando si interrompe una terapia da antidepressivi—mi sono fatto aiutare da alcuni esperti.
Quello che succede nel cervello è ben definito a livello chimico: la terapia agisce su un gruppo di sostanze—i neurotrasmettitori—come la serotonina e la noradrenalina, che possono migliorare l’umore e quello che l’Istituto Superiore di Sanità definisce come “stato emozionale delle persone.” Ciò che percepisce il paziente, invece, non è sempre chiaro.
Nel corso di questi anni ho acquisito maggiore sicurezza in me stesso e una certa dose di resilienza nell’affrontare la quotidianità: se sono coinvolto in situazioni sociali, oggi sono più tranquillo. Alessandro Serretti, professore associato di psichiatria dell’Università di Bologna, mi conferma al telefono che in molti casi gli antidepressivi “hanno effetti benefici dal punto di vista sociale e relazionale.” Alcuni pazienti, però, possono incorrere in un distacco emotivo.
L’antidepressivo fa emergere la persona che viene ‘soffocata’ dal problema. Si può dire che il paziente sotto terapia scopre chi è veramente
Quando io e il mio amico ci confrontavamo sugli antidepressivi, all’inizio lui lamentava di sentirsi “in una dimensione ovattata.” Ed io non potevo negargli, di fronte a una birra, di sentirlo distante. Ma ero felice per lui. “La persona non ha più quella pressione, quell’ansia che non gli permetteva di vivere sereno”, mi spiega Serretti. Il lato negativo è che per alcuni sembra “di vivere in una nuvola, quindi senza più quella ‘passione’ che avevano prima di iniziare la terapia.”
Erano palesi, per me e il mio amico, gli effetti pratici di questa rinnovata socialità. Ma non il loro impatto sulla nostra identità più profonda. Ci sentivamo bene, certo, però eravamo consapevoli che questo modo nuovo di vivere serate e incontri dipendeva dai farmaci che assumevamo. Il dubbio che la terapia farmacologica avesse, anche solo in piccola parte, alterato il nostro carattere non ci ha mai abbandonato.
Alcuni studiosi hanno supportato scientificamente le nostre incertezze, spingendosi fino a ipotizzare un possibile impatto degli antidepressivi sulla personalità. Nel 2009, un team di psicologi della Northwestern University in Illinois ha studiato gli effetti degli antidepressivi sul nevroticismo, un tratto della personalità legato a sentimenti come paura, gelosia, rabbia e senso di colpa. Durante l’esperimento, mentre gli antidepressivi curavano il disturbo dei pazienti—facendoli sentire meno depressi—agivano con effetti “sorprendenti” anche sul nevroticismo. Soprattutto, la loro influenza su questo tratto della personalità era indipendente dalla cura della depressione.
Negli anni successivi, gli studi sul tema sono stati approfonditi da Roberts Brent, professore di psicologia all’University of Illinois Urbana-Champaign. Secondo lui, molte persone non possono accettare l’idea di cambiare personalità perché la vedono come un’alternazione della propria “natura intrinseca.” Nel 2013 Brent ha dichiarato apertamente che “stiamo già cambiando i tratti della personalità dei pazienti, che ci piaccia o no.”
Gli studiosi che portano avanti questa tesi descrivono talvolta i propri risultati come “una provocazione,” perché per molto tempo la psicologia ha trattato la personalità come qualcosa di statico, che non cambia nel tempo. Per altri, la relazione è molto più semplice, e per nulla sorprendente: può infatti esserci una sovrapposizione tra i tratti della personalità e i disturbi mentali.
Uno psicologo della Washington University di St. Louis in Missouri, Thomas F. Oltmanns, ha spiegato che molte delle caratteristiche del nevroticismo possono essere considerate come sintomi della depressione. In questo senso, non sono i farmaci a cambiare la nostra personalità; piuttosto, ristabiliscono l’equilibrio che era stato mutato dal disturbo.
“L’antidepressivo fa emergere la persona che viene ‘soffocata’ dal problema. Si può dire che il paziente sotto terapia scopre chi è veramente,” dice Serretti. “Gli antidepressivi quindi non modificano la personalità, che è legata alla struttura del cervello. Questo può avvenire solo attraverso esperienze drastiche, legate alla nostra vita, non agli effetti chimici dei farmaci.”
La dinamica è lineare. Se una persona che non soffre di disturbi psichici facesse un test della personalità, otterrebbe risultati nella norma. Mettiamo che il soggetto in questione subisca un trauma ed entri in uno stato ansioso cronico: se rifacesse la prova, ne risulterebbe una personalità con alto nevroticismo.
“Poi questa persona inizia la terapia, prende gli antidepressivi e torna alla serenità di un tempo. Un nuovo test indicherebbe che il nevroticismo è calato, ma non perché il farmaco ha modificato la sua personalità, anzi: quel tratto era stato alterato dal disturbo,” prosegue Serretti.
Allora come ci cambiano gli antidepressivi, se non intervengono sulla personalità? Oggi non sono più quel ragazzo di provincia che viveva nell’ansia, mi sento diverso. Ma mentre approfondisco il mio cambiamento, capisco che questa domanda non può avere una risposta unica e precisa. La definizione stessa di personalità, infatti, è ambigua e mutevole nel tempo.
Lo dimostra, tra le altre cose, il fatto che medici e ricercatori devo fare riferimento a definizioni istituzionali che non coincidono completamente o cambiano negli anni. Ad esempio, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) la personalità si riferisce “al modo che caratterizza un individuo nel comportarsi, vivere la propria esistenza, percepire e interpretare sé stesso, gli altri, eventi e situazioni.”
Questa definizione rientra nell’ICD-11, lo standard globale di classificazione per le malattie, aggiornato nella sua ultima versione. In ambito accademico, invece, si usa soprattutto il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), che classifica i disturbi in base ai sintomi. Ma non sempre le definizioni coincidono, e “per questo motivo gli addetti ai lavori spesso faticano a comunicare,” ammette Serretti.
Quando mi hanno diagnosticato il Doc mi trovavo in una grigia saletta del centro di salute mentale della mia città. Era la prima volta che entravo in quel luogo, e per me essere lì rappresentava una grande sconfitta. Negli anni più difficili, mia mamma mi ha sempre detto che non avrei dovuto negarmi i farmaci se fossero serviti. Io invece ho sempre pensato che sarei riuscito a cavarmela da solo, tanto che nel 2015—quando mi sono trasferito a Milano per studiare—ho fermato le mie visite dallo psicologo.
Non vogliamo riconoscere che i disturbi mentali sono problemi che riguardano il nostro corpo proprio come il diabete o una polmonite
Quando poi il disturbo è tornato, più forte di prima, non ho potuto fare altro che ascoltare i consigli dei professionisti e della mia famiglia. Ancora oggi non accetto che la mia stabilità sia condizionata dall’assunzione certosina di psicofarmaci. E come me, molte altre persone cercano di tenersene alla larga, anche se ne avrebbero bisogno. Un sondaggio del 2011 ha indagato le ragioni per cui i pazienti americani non comunicano al medico di base i propri sintomi depressivi: la motivazione più riportata (22,9 percento dei casi) era proprio la preoccupazione che il medico raccomandasse antidepressivi.
“Non è una sconfitta assumere psicofarmaci,” rimarca Serretti. “Perché quando abbiamo l’influenza ingeriamo tranquillamente un’aspirina, e se invece una persona soffre di depressione fa di tutto pur di non prendere antidepressivi?” Secondo lui, “c’è un errore concettuale storico e uno culturale: non vogliamo riconoscere che i disturbi mentali sono problemi che riguardano il nostro corpo—in questo caso il cervello—proprio come il diabete o una polmonite.”
Su questo punto Laura Bellodi, senior consultant dell’Ospedale San Raffaele di Milano, ha un’idea molto precisa a riguardo. “Parte di questa resistenza è dovuta al tipo di cultura giudaico-cristiana in cui siamo cresciuti”, mi spiega per telefono. “L’idea è che i nostri pensieri, le nostre emozioni e comportamenti sono figli della nostra anima immortale, più che frutto di meccanismi cerebrali. Di conseguenza, qualsiasi cosa che eventualmente attenti al nostro libero arbitrio viene vista con molto sospetto. Ma il sospetto in genere nasce dall’ignoranza.”
Rispetto a quando ho iniziato la cura farmacologia, nel 2018, oggi si discute con più serenità di salute mentale, sui media, nei social e in privato. Il mio amico, ad esempio, aggiorna con costanza i follower su Instagram rispetto al suo stato di salute. Sia io che lui continuiamo ad avere momenti di crisi, ma siamo consapevoli che non c’è più bisogno di nascondere i nostri problemi. Come noi, le nuove generazioni chiedono di essere ascoltate, e lanciano campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica. L’obiettivo è soprattutto quello di combattere l’ignoranza sui disturbi mentali.
In questi anni ho fatto i conti con la mia salute psichica. È stato possibile anche perché avevo al mio fianco una famiglia attenta e degli amici aperti. Ma non tutti sono così fortunati. A loro, come per chiunque deve affrontare un problema fisico che può essere irreversibile, viene negato il diritto alla salute, che l’Oms descrive come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”.
Ma se oggi sono qui a scrivere questo articolo è soprattutto perché le cose, un po’ alla volta, stanno cambiando.
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