Qualche giorno fa, dopo aver pianto dentro una granita di mandorle per la disperazione, siamo tornati dall’Ortigia Sound System, il festival che ha svoltato l’estate nostra e di un sacco di amanti della musica, delle feste in barca e delle situazioni rilassate in cui tutti si vogliono bene. A Ortigia abbiamo avuto l’occasione di incontrare alcuni artisti incredibili e addetti ai lavori giunti da tutto il mondo, e ne abbiamo approfittato per fare ad alcuni di loro qualche domanda su temi facili come il futuro della musica e il rapporto tra generi e spazi d’ascolto.
Per esempio abbiamo incontrato Christophe Mauberqué, label manager di !K7 Records e DJ. Originario di Parigi, da tre anni vive e lavora a Berlino, nella sede principale di !K7. Oltre all’etichetta discografica omonima, !K7 è anche una music company che gestisce etichette in-house e offre servizi di distribuzione, promozione, ecc. a etichette e artisti. Chris ha suonato—una performance di ore tra i flutti e i venti che è entrata nella storia del festival—a un boat party, prima dell’esibizione live in mezzo al mare di Erlend Oye.
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Gli abbiamo chiesto com’è stare al centro di così tanti input e culture musicali diversi, e come ha piegato la sua cultura elettronica berlinese-parigina a uno showcase al tramonto sul mare.
Noisey: Chris, qualcuno mi ha detto che stai progettando di perdere l’aereo, domani.
Christophe Mauberqué: Ufficiosamente. Ufficialmente no, ma nella mia testa l’ho già deciso.
Come nasce la collaborazione tra !K7 e Ortigia Sound System?
Abbiamo cercato di mettere in piedi uno showcase di !K7 ma eravamo troppo tirati coi tempi, quindi ci siamo limitati a una piccola partnership, una sorta di K7! sound system. Ma per l’anno prossimo ci stiamo già organizzando per portare alcuni artisti.
La Sicilia come storia e geografia, questo festival dal punto di vista musicale, rappresentano punti di contatto per culture diverse. In che modo approfitti “lavorativamente” della situazione?
Oh, non direi che essere qui in Sicilia valga come lavoro! Cioè, il mio lavoro consiste nell’ascoltare un sacco di nuova musica, incontrare nuove persone, mettere a confronto i nostri punti di vista su come le cose si stanno evolvendo e si possono evolvere… Insomma, capire come la musica può rimanere interessante. Proprio ieri parlavo con Germano [Centorbi, uno degli organizzatori nonché direttore artistico del festival, N.d.R.], di quanto è importante, per un festival e per un’etichetta, avere il giusto equilibrio tra artisti emergenti e affermati e tenere sempre gli occhi e le orecchie aperti.
Anche !K7 rappresenta un vero e proprio melting pot di artisti, di sonorità diverse. Ci sono per esempio !K7 Records, che ha prodotto Apparat, When Saints Go Machine, Brandt Brauer Frick, ecc., e poi Strut con Sun Ra e Mulatu Astatke.
La cosa che mi piace di più, infatti, è che ci siano così tanti stili musicali nella stessa compagnia. In ufficio passiamo musica in continuazione, non siamo mai contenti, ne vogliamo sempre di più, vogliamo scoprire sempre cose nuove. Come dicevi, passiamo da !K7 Records con cui magari stiamo preparando i nuovi DJ Kicks (storiche compilation di elettronica), a Strut, che ha influenze africane e jazz—con tutto quello che c’è in mezzo. Sono contento anche di poter lavorare con gli artisti francesi che mi hanno influenzato molto quando ero più giovane, come Jennifer Cardini.
Il mio ambito più strettamente inteso, comunque, è quello della musica elettronica, e quello che mi piace di questa musica è che è diventata un po’ com’era il rock: è ovunque, puoi trovare cose belle e brutte ma ci sono ormai etichette affermate ed emergenti, strutture e persone che offrono servizi dedicati come il booking, la promozione…
Che è quello che fate con tutte le divisioni di !K7, no?
Esatto, abbiamo l’etichetta omonima, abbiamo inglobato altre etichette e poi abbiamo i servizi per le etichette: la distribuzione, il dipartimento diritti e produzione, distribuzione digitale e management. Avere tutte queste competenze, e queste culture diverse nella stessa company e una presenza in diverse città ci permette di rimanere creativi e indipendenti.
Ecco, volevo legarmi un attimo al discorso città: una cosa fondamentale di questo festival (ma anche di Terraforma, per esempio) è il legame tra un tipo di musica che negli ultimi anni era stato rinchiuso in spazi urbani e un patrimonio naturale e storico molto forte, caratteristico. Pensi che si possa parlare di un trend di “riutilizzo” e di un ripensamento positivo del rapporto tra musica e spazi diversi ?
Sì, penso che sia una cosa che sta succedendo in molti posti, dove magari i club hanno fatto man bassa di tutta la scena urbana, e se vai nei club sai già cosa aspettarti: sempre le stesse persone, sempre gli stessi musicisti, e prezzi alti per entrare e bere. Quindi anche a Parigi e Berlino il pubblico e i promoter, soprattutto quelli più giovani, cercano di esplorare nuovi spazi fuori dai confini della città, e dare vita nuova a quel tipo di attitudine, di vibre.
Certo, i club o la scena delle feste urbani restano, ma si crea un’offerta diversa che porta artisti nuovi o affermati, con una mentalità aperta e prezzi bassi. Funziona perché dall’altra parte i club mirano sempre alla stessa clientela.
Secondo te dobbiamo aspettarci sempre più festival di ridotte dimensioni con una grande attenzione alla line up? O queste sono solo occasioni fortunate?
Dunque, per quanto riguarda i festival ho individuato alcuni trend: il primo è che la gente è più pronta a prendere e partire per andare a vedere le cose speciali. Il secondo è che, anche se i festival enormi come Primavera e Sonar o Pitchfork sono sempre validi e la gente è contenta di andarci perché riesce a vedere molti artisti che gli piacciono tutti in un posto, c’è tutta una fetta di persone che preferisce i festival più piccoli. Qui trovi artisti nuovi e persone a cui davvero interessa sentire e scoprire le novità musicali.
Penso che la sfida per i festival “piccoli” sia di trovare un modo di rimare piccoli, ma evolversi. Perché, secondo me, rimanere piccoli è una grande forza.
Senti, mi hai detto che sei anche un fotografo. Che tipo di foto fai?
Uhm… brutte. Foto brutte [ride]. Solo in analogico. Mi piace il fatto che sia un modo molto lento di avere a che fare con la fotografia, che dentro ci sono i tuoi errori e una sensazione nostalgica, no?
Elena è tornata dal mare e continua a scrivere per VICE. Su Twitter è @ev_entually.