C’è un momento nel video di “Formation” di Beyoncé in cui Blue Ivy, angelica, guarda dritta in camera mentre sua madre dice di preferire la sua “piccola erede con i ricciolini e i capelli afro.” È un’affermazione profondamente politica. In tutta “Formation” Bey rende omaggio alle infinite pettinature delle donne di colore: il video mostra donne afroamericane con treccine lunghe fino al sedere, chignon, corone di trecce. Nel video compare in continuazione un negozio di parrucche.
Alla fine del Diciottesimo secolo, in Louisiana, le donne creole erano sottoposte a dure leggi che criminalizzavano la loro bellezza “sfrontata”, inaccettabile per le donne bianche intorno a loro. Le cosiddette “tignon laws” prevedevano che le creole si coprissero i capelli—pena il carcere. Le donne si opposero, ma poi cominciarono ad abbellire i loro turbanti; una legge che criminalizza una persona perché è troppo bella ed è di colore sarà per forza inefficace, e i motivi sono evidenti. La storica Carolyn Long ha scritto che “invece che essere considerato un simbolo di disonore, il turbante è diventato una moda. I colori vivaci delle stoffe e le tecniche fantasiose impiegate dalle donne che lo portavano sono considerati mezzi attraverso cui le donne creole hanno reso ulteriormente evidente la loro bellezza.” Non è un caso che “Formation” faccia sua l’eredità creola della cantante e descriva le donne afroamericane come le portatrici dello spirito della ribellione.
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Il modo in cui ci mostriamo al mondo ci espone continuamente al razzismo. Beyoncé, avendo costruito un vero impero, ha molto più potere di chiunque altro di dire la sua sulla tradizione americana di disprezzare le donne di colore e il loro corpo. Ma per molte, sul posto di lavoro o in altri ambiti istituzionali—soprattutto le corporation—esiste ancora un copricapo metaforico da portare. Abbiamo smesso di portare gli indumenti e gli accessori che ci facevano sentire noi per essere meno riconoscibili. È un dato di fatto che, nella nostra società, “professionale” da molti punti di vista faccia rima con “bianco”.
Ovunque—dall’esercito degli Stati Uniti ai negozi di abbigliamento come Abercrombie e Zara ai tribunali—i capelli delle donne di colore e le loro scelte estetiche sono state più volte bollate di essere non professionali o problematiche.
La fotografa Endia Beal si destreggia tra queste e altre domande nella sua serie fotografica “Am I What You’re Looking For?”. Beal ritrae donne di colore, giovani e istruite, nel momento in cui si avvicinano al mondo del lavoro per la prima volta. Le mette in posa nelle loro case di famiglia, sullo sfondo di un pannello che ritrae l’ufficio in cui Endia lavorava un tempo. Secondo lei, in questo modo le donne si ritrovano “tra il mondo dell’identità e quello del conformismo”—in una pre-messa in scena degli ostacoli che potrebbero incontrare lungo la loro carriera per il fatto di essere donne di colore che sembrano donne di colore.
Per la serie, i soggetti di Beal si sono vestiti in quella che ritenevano una foggia “professionale”, e la fotografa ha inscenato un colloquio di lavoro con domande ironiche. La conversazione che ne scaturiva metteva le ragazze davanti al fatto che avrebbero potuto non corrispondere all’idea stereotipata della donna “professionale”. Della serie fanno parte donne che mostrano la pancia in crop top sartoriali, donne con tatuaggi evidenti, donne con voluminosi capelli afro, donne con le extension o le unghie finte o treccine lunghissime. “Am I What You’re Looking For?” è un elogio all’universo dell’estetica nera, e la linea che unifica la serie è quella dei capelli, argomento che Beal ha già trattato in passato. Per esempio nella serie del 2013 “Can I Touch It?”—un progetto affascinante che raffigura donne bianche di mezza età con pettinature tradizionali afroamericane e completo pantalone, diventato virale.
La gamma di emozioni rappresentate nell’opera di Beal è legata all’esperienza soggettiva della discriminazione sul posto di lavoro. Alcune delle donne guardano spavalde in camera, altre sono meno sicure di sé. Sono donne privilegiate, com’è chiaro dalle loro case borghesi, ma questo relativo privilegio non è sufficiente a metterle al riparo dalla misoginia che permea la società. Beal, che si è laureata a Yale, offre una riflessione dolce-amara sulle realtà lavorative delle donne di colore—forse è un modo per documentare “dall’esterno” la sua esperienza nell’ufficio che fa da sfondo alla serie.
Beal, che insegna arte alla Winston-Salem State University, si è lasciata in parte ispirare dalle giovani donne nella sua classe. “Le studentesse venivano da me con le stesse preoccupazioni che io ho vissuto nel mondo delle corporation,” ha detto. Generazioni di donne afroamericane hanno avuto la stessa esperienza sul posto di lavoro; Beal vuole interrompere il circolo. “Ho chiesto alle ragazze di posare davanti allo stesso corridoio che percorrevo tutti i giorni, e mi sentivo come se fossi un po’ ‘esterna’,” dice. “Uso l’arte come un modo per affrontare le emozioni.” Beal spera che l’esperienza aiuterà altre giovani donne a sentirsi capite e sostenute a livello emotivo—e c’è anche qualcosa di materno, in questo. “Quando fai qualcosa insieme, si crea un legame.”
Questo progetto fotografico è stato realizzato grazie al sostegno della Magnum Foundation