La prima volta che ho visto William Basinski dal vivo ci sono andato con la mia ragazza dell’epoca. Lei era fan del compositore texano, la sua musica era molto vicina ai suoi gusti e alla sua passione per l’ambient. Spesso mettevo i suoi dischi mentre lei andava a dormire e io stavo sveglio a lavorare. Del resto Basinski è un perfetto musicista notturno, in grado di conciliare il sonno, autore di una musica tranquilla e avvolgente.
La sua reazione alla vista di Basinski fu però decisa e sorpresa: “…ma è un tamarro!” L’aspetto di questo genio della musica contemporanea infatti è molto distante dalla sua musica: camicie leopardate, occhiali da sole, lunghi capelli biondi, pantaloni argentati. Più vicino a un rocker dell’era glam come David Bowie che a un nerd chiuso nella sua stanza a rifinire le proprie sonorità: non un caso, dato il suo passato come sassofonista in una band rockabilly.
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Sebbene il suo aspetto non richiami la musica che fa, creando un effetto di estraniazione, va però sottolineato che la sua opera si basa su una formula perfetta. La maggior parte dei lavori di Basinski si basa su una struttura consolidata: un loop generalmente pacifico, rilassato, ripetuto per tutta la durata del brano. Di solito si tratta di dischi da una sola traccia, lunga circa un’ora.
È una prassi semplicissima ma perfetta, in qualche modo unica, che disegna una poetica precisa e che è stata sviluppata in molti dischi: per citarne solo alcuni ci sono i due volumi di Watermusic, The River, The Garden Of Brokenness, Vivian & Ondine, Nocturnes, Cascade o l’ultimo, molto bello, A Shadow In Time – in questo caso i pezzi sono due, di circa venti minuti ciascuno, e il primo è un tributo proprio a David Bowie. Sono lavori ricchi e stratificati, molto curati, ma anche minimali e essenziali, fatti di un minuscolo ma particolareggiatissimo dettaglio che si espande fino a diventare parte dell’ambiente, abbracciando l’ascoltatore e portandolo nella loro dimensione rarefatta e sognante, a volte malinconica, a volte pacificata.
Basterebbe questo per fare di William Basinski un musicista importante, un artista notevole. Ma la verità è che il texano è destinato a rimanere anche uno di quegli artisti collegati per sempre a una loro singola opera, che finisce per diventare talmente famosa e a caratterizzarli talmente tanto da andare a offuscare un po’ tutto il resto. Non c’è dubbio che questo sia il caso dei Disintegration Loops, un lavoro ormai entrato di diritto in qualsiasi storia della musica.
È il 2001 quando il musicista si trova a ascoltare alcuni dei suoi caratteristici loop registrati su nastro. Ma si tratta di nastri danneggiati e a ogni passaggio il suono va a peggiorare sempre di più, anche se in maniera quasi impercettibile, fino a diventare via via sempre più inascoltabile, sempre meno riconoscibile, fino a sparire completamente. I loop che si disintegrano del titolo. Basinski registra questo processo e ne fa l’opera per cui probabilmente verrà ricordato: un lavoro sul passaggio del tempo, sulla volatilità delle cose, sulla confusione del mondo, sulla ricerca della pace.
I Disintegration Loops sono un lavoro che è un eufemismo definire suggestivo, talmente d’impatto da avere anche superato le barriere della musica d’avanguardia, diventando un’opera piuttosto nota anche a livello più popolare. Chiunque, a prescindere da quali siano i suoi ascolti abituali e la sua preparazione, è in grado di coglierne il fascino anche su un piano assolutamente immediato, primordiale. Richiama cose innate che stanno indelebili nella nostra coscienza come il senso della fine, la paura della morte, il caos. Ma è anche un lavoro molto rilassante, che riesce stranamente a sortire l’effetto di mettere in pace con se stessi. È un lavoro drammatico – la storia vuole peraltro che Basinski si sia trovato a ascoltare quei nastri che si disfacevano su un tetto di New York proprio l’undici settembre, guardando sullo sfondo il fumo, la distruzione, la follia di un secolo che nasceva sotto brutti presagi – ma in qualche modo positivo.
I Disintegration Loops sono un’opera di cui si è detto veramente tutto, uno dei lavori più importanti della musica di questo nuovo secolo, ma la cosa che trovo più azzeccata e toccante che abbia letto a riguardo è la chiusura di una recensione al box set dell’opera, scritta da Mark Richardson per Pitchfork. Dice tutto quello che va detto ed è una delle cose cui penso sempre quando penso a un esempio di perfezione in questa cosa che è lo scrivere di musica:
“L’osservazione più ovvia che posso fare sui Disintegration Loops è che non parla di morte, ma ovviamente è la vita a dare un significato alla morte. Un paio di giorni fa stavo ascoltando “Dlp 4″ in metro, venendo al lavoro. Per la prima metà della traccia mi sono sentito in preda alla sublime bellezza della musica che si ripeteva nelle mie orecchie e mi sono perso completamente nel mio mondo. Ma poi, man mano che cominciava a rompersi per lasciare spazio al silenzio, ho cominciato a rendermi conto di quello che avevo attorno. Sentivo il motore della metro, il tremolio delle rotaie, le voci delle persone nel mio vagone. La musica mi aveva fatto venire in mente le domande più difficili: perché siamo qua, come facciamo a esistere, qual è il significato di tutto questo. E poi, con lo svanire dell’ultimo scricchiolio e la scomparsa della musica, mi sono guardato attorno, ho visto le facce ed ero lì assieme a tutti gli altri ed eravamo vivi”.
Niente male per un tamarro.
William Basinski suonerà lunedì 1 ottobre a Milano per il primo appuntamento della rassegna Inner Spaces del Centro Culturale San Fedele. Vedere cosa farà alle prese con un acusmonium sarà particolarmente interessante.
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