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Il Michael Jordan del cinema italiano

Un fenomeno molto semplice da osservare in tema di cinema italiano è lo scomparire dei sorrisetti di superiorità dai volti delle persone ogni volta che viene nominato il regista Matteo Garrone.

Questo post appartiene alla nostra serie sul meglio del catalogo di Sky Online.

Un fenomeno molto semplice da osservare in tema di cinema italiano è lo scomparire dei sorrisetti di superiorità dai volti delle persone ogni volta che viene nominato il regista Matteo Garrone. Le facce e i toni si fanno gravi e compunti e sottolineano pacatamente come il “giovane” (45+) regista sia la forma di vita più elevata e complessa all’interno del nostro sistema audiovisivo.

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Nel tempo anche il grande pubblico—che ne aveva serenamente ignorato gli esordi fighetti in campo documentaristico, i corti premiati col Sacher d’Oro etc etc—ha cominciato ad apprezzarne il lavoro, soprattutto con il film che ha fatto conoscere Garrone ai più, L’imbalsamatore.

Però, quello che in termini tecnici si definisce “fare er botto” arriva solo più tardi, con l’uscita del film Gomorra, che non solo ha fissato la fama del regista su registri internazionali, lo ha anche fatto assurgere a semi divinità del giovane filmmaker, un buddha silente dell’audiovisivo italiano di qualità.

La prova successiva è arrivata nel 2012 e non ha deluso nessuno, infatti Reality ha vinto tutto il vincibile: Grand Prix della Giuria allo scorso Festival di Cannes, Nastri d’Argento, Globi d’Oro, almeno un paio di set di coltelli e una mountain bike con cambio shimano.

Reality parla della storia di Luciano, pescivendolo napoletano intraprendente, e dei suoi sforzi di entrare nella casa del Grande Fratello. È piuttosto chiaro fin da subito che non si cercano più gli accenti realisti di Gomorra, ma tutto il registro è spostato su una dimensione di parabola fiabesca, in cui è l’interiorità del protagonista a filtrare e definire il paesaggio esterno—una fotografia volutamente quasi cartoonesca e i comprimari grotteschi da Commedia dell’arte fanno da reminder per quelli più lenti a cogliere le sfumature.

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Luciano, che non è solo un pescivendolo ma anche un intrattenitore per feste e matrimoni, passato il primo provino per il Grande Fratello è felice e soddisfatto di se stesso come Renzi quando riesce a farsi fotografare coi Ray Ban. I problemi cominciano dopo il secondo provino a Cinecittà, quando Renato deve affrontare l’attesa della storica telefonata che confermerebbe la sua partecipazione al programma televisivo. Il tono del film segue l’incupirsi e il crescendo d’ansia del protagonista man mano che la sua partecipazione diventa meno probabile.

Infatti Luciano precipita in uno stato di paranoia simile all’ossessione berlusconiana/grillina per i brogli elettorali, dove nemici e controllori oscuri si adoperano perché lui non riesca a realizzare il grande sogno di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno/partecipare a un reality show condotto da Alessia Marcuzzi.

Nel frattempo attorno a lui il Ritratto dell’Italia, terrona ma universale, si scompone in ex concorrenti televisivi dal grande successo paesano, bambini ottenebrati e sovrappeso, mogli sfatte e preoccupate, e forse è uno degli elementi meglio riusciti del film.

Alla fine non ne esce nessuna verità sconvolgente, né si riesce ad allontanarsi più di tanto da un impianto metaforico molto didascalico, ma almeno non si è assistito al quarto divorzio di Margherita Buy abbandonata da Carlo Verdone con tre figli a carico ma tanta voglia di ricominciare.

Mi sembra già abbastanza.