Música

Richard Barbieri ha attraversato tutta la musica del secolo

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“Non sono una persona ambiziosa, non mi metto in evidenza più di tanto”. Questa la risposta che il tastierista dei Japan e dei Porcupine Tree dà alla prima domanda di una lunghissima intervista promozionale per il suo ultimo lavoro solista. Il braccio destro di David Sylvian prima e Steven Wilson poi, un uomo che a vent’anni condivideva etichetta e manager con i T. Rex di Marc Bolan, a ventuno collaborava con Giorgio Moroder e a ventitré decideva di sciogliere la sua band dopo svariati tour mondiali e una sfilza di singoli ai piani alti delle classifiche internazionali, non è una persona ambiziosa. Chissà dove sarebbe arrivato se lo fosse stato.

Richard Barbieri è un musicista come oggi ne sono rimasti pochi, un compagno fidato, un uomo con le idee chiare su cui poter sempre fare affidamento, che non le manda a dire, ma che non ha problemi a occupare soltanto una parte del palcoscenico, un po’ in disparte, eppure sempre a fianco dei più grandi. Richard non è mai stato protagonista, ma è sempre stato presente e ha sempre avuto un ruolo importante. Con dei compagni di scuola, a diciassette anni diede vita ai Japan, storicamente la band di David Sylvian, che però era molto di più. Sì, Sylvian era una sorta di Brian Ferry, ma contrariamente ai Roxy Music nei Japan non ci fu mai la possibilità di far funzionare l’ecosistema-band senza uno dei membri: nei pur soli otto anni di vita della formazione ci fu un’unica defezione, mai rimpiazzata (il chitarrista Robert Dean, che dalla wave inglese è finito a fare l’ornitologo in Costa Rica ed è oggi considerato uno dei massimi esperti di fauna volatile del Centro America).

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I Japan in una vecchia foto promozionale.

Nonostante le tensioni sempre più o meno crescenti tipiche delle formazioni prog e new wave, soprattutto quelle con un personaggio carismatico al comando, anche quando i Japan decisero di registrare un disco a dieci anni dallo scioglimento a nome Rain Tree Crow furono coinvolti sempre gli stessi artisti e non ci fu mai alcun dubbio in merito. La spiegazione è una soltanto: nonostante la personalità forte ciascuno dava il proprio contributo, e come il fretless di Mick Karn rendeva il suono dei Japan inconfondibile, così facevano le tastiere di Barbieri. Basta una “Methods Of Dance” per accorgersi che già poco più che ventenne era un tastierista con una chiara idea di ciò che il suo strumento doveva e avrebbe dovuto fare per i successivi quarant’anni: ispirare, contestualizzare, dare forma astratta ad atmosfere e sensazioni che sarebbero stati i suoi compagni d’arme a definire ed ingabbiare e canonizzare.

Ecco perché quando si parla dei Japan uno pensa alla band di David Sylvian, pensa al basso di Mick Karn, pensa all’estetica new romantic – da cui Sylvian ha sempre più o meno cercato di distanziarsi dopo averla resa popolare – e non pensa alle tastiere di Richard Barbieri. Lui ha sempre creato le condizioni perché potessero essere i suoi colleghi, i suoi compagni e i suoi amici a catalizzare l’attenzione, ad aggiungere elementi che permettessero di fare del suo lavoro qualcosa di compiuto.

E questa cosa ha contraddistinto tutta la sua produzione, come era nei Japan così è stato nei Porcupine Tree: dal 1993 il fido luogotenente di Steven Wilson, in grado da un lato di creare il giusto contesto dal vivo, sempre pronto a mascherare i momenti morti con pattern che cullassero il pubblico mentre gli altri accordavano, dall’altro di costruire nel modo più perfetto suoni che hanno commosso un’intera generazione di progger prima e un po’ tutto il mondo poi. Poco importa che la pianola la suoni Steven Wilson, dal vivo ti accorgi benissimo di come Barbieri se ne stesse in seconda linea, attorniato da tastiere e sintetizzatori, ma di quanto allo stesso tempo il suo lavoro fosse strutturale, profondamente intrinseco a tutto ciò che i Porcupine Tree di volta in volta gli hanno montato sopra, fossero arzigogolate suite di oltre quindici minuti o canzoni immediate ed emotivamente deflagranti. D’altronde è lui stesso a dirlo: “il mio apporto nei Porcupine Tree non è quello di un musicista. Non sono un tastierista tecnico, non potrei suonare prog rock nemmeno se volessi, non ne ho le competenze”.

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I Porcupine Tree in una vecchia foto promozionale.

Probabilmente è grazie a questa umiltà innata che non è mai stato un problema per lui che i Porcupine Tree fossero sempre e comunque la band di Steven Wilson, tanto quanto e forse più i Japan erano quella di Sylvian. E oggi che il gruppo è fermo a tempo indeterminato, lui non si perde d’animo e continua ad andare avanti per la sua strada, a trovare musicisti che lo accompagnino e da accompagnare e a concentrarsi sulla propria musica. Anche se questo ha significato veder scomparire l’ottanta percento delle proprie entrate da un giorno all’altro. Anche se questo ha significato dover mettere all’asta tutti i memorabilia di una vita per poter pagare gli studi e le collaborazioni del suo ultimo disco. Ed è proprio parlando di collaborazioni che arriviamo alla terza fase, quella contemporanea, della carriera di Barbieri, di questo musicista che si è sempre definito un giocatore di squadra anziché un solitario.

In quattro decenni abbondanti di attività, sono soltanto tre i suoi album come solista. Tutte le altre attività e gli altri dischi cui ha messo mano (e sono tanti) sono stati dei lavori condivisi: quelli con Steve Jansen (il fratello di Sylvian e batterista dei Japan), quelli con Jansen e Karn, quelli con Steve Hogarth dei Marillion, e via di questo passo. Tutte collaborazioni di un certo spessore, che hanno portato l’inglese a creare musica con alcune delle personalità più rilevanti degli ultimi decenni del rock inglese e non solo.

La storia di queste collaborazioni risale fino agli anni Ottanta, a seguito dello scioglimento dei Japan, ed è evidente come queste uscite discografiche fossero dettate dall’incapacità del musicista di stare fermo: al massimo ogni tre o quattro anni, a dispetto dell’ingresso in pianta stabile nei Porcupine Tree, Barbieri ha sempre trovato il modo di far sfiatare la sua Roland. E, nonostante un tentativo più o meno trascurabile di realizzare qualcosa insieme a Jansen che potesse avere un riscontro commerciale a nome The Dolphin Brothers (tentativo realizzato “contro ogni buonsenso”), la verità è che il tastierista dei Porcupine Tree ha sempre avuto una fascinazione per la musica più sperimentale e per le decostruzioni sonore, fascinazione che negli anni lo ha portato sempre più lontano da qualsiasi format facilmente vendibile.

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L’artwork di Things Buried, cliccaci sopra per ascoltarlo su Bandcamp.

Niente più art-rock, niente più dandismo e, di recente, una vera e propria virata verso i territori meno convenzionali dell’esplorazione musicale, tanto che il suo primo lavoro, Things Buried (2004, poi ristampato da Kscope), in certi episodi arriva fino a lambire territori IDM e ambient techno, poi ripresi in seguito nel seguito Stranger Inside (Kscope, 2008). È solo nell’ultimo paio d’anni che il mite tastierista è tornato a far parlare di sé, festeggiando il sessantesimo compleanno dedicandosi alla promozione di Planets + Persona, un album particolarmente concettuale, che vive di molteplici dualismi: quello tra la bene e male, tra razionalità e irrazionalità, tra uomo e pianeta. La prima è sintetizzata nella lunga “The Night Of The Hunter”, ispirata all’omonimo film del 1955 con Robert Mitchum, la seconda dal metodo di lavoro dell’artista stesso, che stavolta ha chiamato a collaborare molti musicisti e non si è limitato alla creazione partendo da librerie digitali, ma ha fatto uso di molti strumenti acustici e analogici, la terza, beh, da pezzi come “Solar Sea”.

Planets + Persona è indubbiamente l’album più ambizioso dell’ormai lunghissima e consolidata carriera di Barbieri, non fosse altro perché è lui, per una volta, a gestire tutta la baracca e a decidere lo spazio che ciascuno dei suoi amici e colleghi avrebbe avuto, e a farlo con l’intenzione di stupire l’ascoltatore, di non dare retta a nessuno, di non assecondare gli altri e realizzare ciò che loro si sarebbero aspettati. E per farlo è stato subito chiaro che ci sarebbe voluto un fondo spese: “Kscope non avrebbe mai finanziato l’operazione dandomi una cifra sufficiente, così ho fatto ciò che dovevo. Ho aperto i cordoni della borsa per viaggiare e registrare in studi meravigliosi con persone meravigliose”, dice nell’intervista di cui vi parlavo all’inizio. Certo, se poi per “persone meravigliose” intendi Simon Heyworth, che nella vita ha masterizzato giusto i King Crimson, Mike Oldfield, i Depeche Mode e gli Iron Maiden e qualcun altro, ci credo che la tua etichetta non se la sentisse di affrontare un simile esborso, ma questa è un’altra storia.

richard barbieri planets persona

Quello che conta è che Richard ha deciso di affrontare questo impegno, e per portarlo a termine ha preferito mettere all’asta i suoi ricordi dell’epoca dei Japan. Al commento “è sorprendente come qualcuno che ha avuto una carriera con band di successo possa ritrovarsi in difficoltà economiche per creare musica” risponde semplicemente che è davvero difficile rimanere un musicista professionista per quarant’anni. Sarebbe sicuramente più facile se fosse disposto a scendere a compromessi, ad accettare che oggi la musica è una forma di intrattenimento più che d’arte, ma su questo non transige: “Se sei tecnicamente dotato o hai una mentalità da turnista, hai più opzioni. Io non sono l’uno né l’altro, né vorrei esserlo […], non socializzo con molti musicisti e quando lo faccio difficilmente parliamo di musica. Ciò che creo è spesso etichettabile come ‘alternativo’, ed è improbabile che abbia successo commerciale”. Allo stesso tempo, è proprio questa grande onestà ad aver permesso a un musicista che non ha nulla di fuori dall’ordinario di fare cose assolutamente straordinarie.

Un’onestà che si trasmette anche dal vivo, visto che Richard Barbieri sarà a Milano nei prossimi giorni in occasione della rassegna Inner Spaces e il suo approccio alle esibizioni soliste non è meno integralista di quello riservato alla creazione in studio: “tengo i miei concerti soltanto in ambienti dove le persone siano sedute, senza bar. Non dev’esserci scusa per il pubblico per fare altro che non sia ascoltare la musica. Così non fosse, non potrei sopportare di salire sul palco”.

Richard Barbieri suonerà lunedì 22 ottobre a Milano per il secondo appuntamento della rassegna Inner Spaces del Centro Culturale San Fedele. Vedere cosa farà alle prese con un acusmonium sarà particolarmente interessante.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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