Non è la prima volta che su Noisey ci scappa di dire una banalità come che in provincia si fa musica molto più interessante che in città. Tobjah, che poi sarebbe Tobia Poltronieri, che chi ha orecchie per la psichedelia post-Brian Jonestown Massacre aveva già visto in azione con i suoi C+C=Maxigross, viene dai dintorni di Verona e ha un paio di case spirituali, e materiali: una fra i monti Lessini, e una nel mezzo di Veronetta, quartiere che spicca nel capoluogo veneto per la sua varietà, la sua vitalità e la sua allergia al leghismo che impera nel resto della città. Casa, Finalmente è il suo primo album solista, ed è un’esplosione di profonda, sincera euforia.
Senza dilungarmi troppo, visto che oltre a uno streaming in anteprima esclusiva qua sotto abbiamo anche un’intervista con l’artista stesso, mi limiterò a citare alcuni punti di riferimento che ho usato per interpretare questo album. Tanto per cominciare l’impianto da cui si parte è quello del classico folk americano, che si tinge di psichedelia, freak folk di metà anni Duemila, tropicalismo, jazz… ma soprattutto si tinge dei colori della personalità di Tobjah, che, con l’aiuto in fase di arrangiamento di Marco “Juju” Giudici e Miles Cooper Seaton (ex-Akron/Family, un’influenza che si sente fortemente in certi passaggi di questo lavoro), è riuscito a mettersi completamente a nudo in un disco sincero, vario ed emozionante. Volendo approcciarsi a Casa, Finalmente con l’atteggiamento dello scienziato musicale si possono individuare vari ingredienti, che vanno da Volo Magico di Claudio Rocchi a Devendra Banhart, ma la verità è che, come Tobia stesso mi ha detto nell’intervista, è riuscito a cogliere l’insegnamento dei propri maestri senza finire per imitarli pedissequamente, ma anzi giungendo alle proprie conclusioni con maturità e coraggio.
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Casa, Finalmente esce il 6 aprile per Trovarobato. Ascolta l’album in anteprima qua sopra e leggi la nostra intervista con Tobjah qua sotto.
Noisey: Il disco è nato in tour, suonando in giro. Mi spieghi nel dettaglio com’è iniziato il progetto?
Tobjah: Il progetto in realtà è nato diversi anni fa, perché avevo voglia di scrivere e cantare canzoni da solo in parallelo ai C+C=Maxigross, che esistono da tanti anni e sono ancora un progetto in cui credo tantissimo, con cui stiamo portando avanti una ricerca incredibile. Però fare un percorso personale ti può aiutare a lavorare meglio in generale, quindi per me era fondamentale iniziare in un momento in cui mi sembrava di aver dato troppo senza essermi dedicato abbastanza a me stesso. Un po’ per sfogo ho iniziato questa ricerca personale, che poi ho condiviso con Marco Giudici [musicista in Halfalib e Any Other e produttore] e Miles Cooper Seaton, mio grandissimo amico e collaboratore, ex-Akron/Family. Condividendo con loro questi demo che ho registrato in camera da solo, che ai tempi erano ancora in inglese, abbiamo deciso di lavorarci insieme. Loro mi hanno aiutato tantissimo con gli arrangiamenti.
La svolta è arrivata anche grazie a Miles, che ha insistito perché provassi a cantare in italiano. Tutto è successo durante una discussione sul colonialismo, durante la quale lui mi ha fatto capire che c’è un certo tipo di colonizzazione che ci ha sempre spinto a cantare in inglese; questa è stata una specie di epifania, e mi ha fatto rivedere tutto quello che avevo fatto sotto una luce diversa. Tutto quello che avevo fatto in passato mi è subito parso derivativo, e mi sono reso conto che avevo sempre usato criteri tipo “questo deve suonare come quest’altro”, eccetera. Mancava pochissimo al tour con cui avrei presentato queste nuove canzoni soliste in inglese, e in una settimana ho riscritto tutto in italiano. Sono partito per due mesi, ho fatto 40 concerti in giro in treno, e poi il giorno dopo l’ultimo concerto sono andato in studio e ho registrato tutto.
Mi piace tantissimo questa cosa dell’italiano, perché anch’io ho avuto un’epifania simile. Questo si collega benissimo alla citazione che hai usato per presentare questo album, presa da Robbie Basho: “Io non cerco di seguire i maestri, ma provo a pormi le stesse domande che loro si sono chiesti”. In pratica cerchi di partire dalle stesse premesse, invece di importi le stesse conclusioni.
La cosa incredibile è che quella frase io l’ho trovata visitando il sito di Robbie Basho proprio nei giorni in cui avevo avuto quella discussione sull’italiano con Miles. Quindi mi ha subito fatto capire di essere sulla strada giusta. Per me è importante che si sappia che quella di cantare in italiano non è una scelta stilistica per me, ma concettuale: è una cosa molto più forte, perché dimostra che ho scelto di essere me stesso e mostrarmi per quello che sono. La mia idea è di trasmettere un messaggio molto sentito, molto personale, quindi per me è molto adatto.
Il video di “Non so dove andrò” è tutto girato nelle strade di Veronetta, che è il quartiere di Verona in cui abiti insieme al resto dei C+C. Io, che ho frequentato e frequento la città, conosco la storia e il significato di quel quartiere, ma vorrei che lo spiegassi ai nostri lettori.
La premessa è che Verona è una città piuttosto piccola, quindi può sembrare strano parlare di differenze tra i vari quartieri. Come tutti sanno la realtà politica della città è storicamente di destra, leghista, e questo è un fattore che condiziona fortemente un po’ tutta la vita degli abitanti. Per chi viene dall’estero le dinamiche di Verona possono essere molto opprimenti. Veronetta è una specie di oasi; a parte che è molto bella, con degli scorci antichi molto belli e vicina al centro, ma è anche la zona più multiculturale. C’è l’università, c’è vita notturna, e c’è casa mia, che di suo è un posto particolare perché la usiamo come base per registrare dischi, organizzare piccoli concerti privati… insomma, è la parte più aperta, accogliente e bella di Verona.
Parliamo degli ospiti che hai avuto sul disco. Tu stesso mi hai detto che il progetto è iniziato come “disco da cameretta”, ma poi si è allargato includendo degli arrangiamenti di grande ricchezza e nomi di spicco come Lino Capra Vaccina, che sulla traccia di apertura ha fatto un lavoro strepitoso.
Nel momento in cui ho registrato il disco ho registrato le voci e le chitarre in uno stanzone nello studio in campagna del mio amico Federico Grella. In questo modo abbiamo creato un’atmosfera molto tridimensionale, prendendo soltanto voce e chitarra ma con tutto questo spazio attorno, in questo modo con l’aiuto di Miles e Marco abbiamo creato delle orchestrazioni molto particolari. Per me la cosa fondamentale era avere un’ottica molto aperta, che andasse oltre i generi. Anche Lino Capra Vaccina è un compositore straordinario che ha sempre messo in primo piano la ricerca sonora, quindi quando ascolti un suo disco non hai nessun punto di riferimento, è un viaggio nel suono e nella sua interiorità. L’ho conosciuto quando l’ho invitato a suonare al nostro festival, e da lì siamo rimasti in contatto e quando gli ho chiesto di collaborare è stato disponibilissimo. Una volta ricevuta la sua traccia, non c’era altro da fare che togliere qualunque altro strumento e lasciare soltanto le sue percussioni e la mia voce. Senza dubbio ne è venuto fuori il pezzo più mistico del disco. Sono anche molto orgoglioso dei contributi del batterista Alessandro Cau e di Enrico Gabrielli, che mi ha aiutato tantissimo a rendere l’atmosfera tropicalista di “La canzone del melograno”.
A proposito del vostro festival, Lessinia Psych Fest, che si teneva tra le montagne sopra Verona: l’anno scorso si è tenuta la quarta e ultima edizione. Come mai avete deciso di smettere?
Tutto comincia da un collettivo, un gruppo di amici che fa riferimento al nome C+C Maxigross ma che va ben oltre la band. Con questo gruppo di amici abbiamo iniziato a organizzare questo evento, prima in maniera totalmente illegale, poi più ufficiale, e c’è stata una grande crescita. Solo che se da un lato è bellissimo che tante persone vogliano venire a un festival all’interno di uno scenario naturalistico come quello dei monti Lessini, dall’altra parte è difficile gestire grandi quantità di persone in un ambiente totalmente naturale: bisogna assicurarsi di non lasciare rifiuti, bisogna provvedere a servizi per tutti, servono investimenti considerevoli, forza lavoro… insomma, per noi si sarebbe perso lo spirito della festa tra amici con cui era iniziato. Così abbiamo deciso l’anno scorso di organizzare l’ultimo, e di farlo a numero chiuso perché fosse più contenuto e più bello per tutti. Faremo altro, magari tornando a un approccio più “carbonaro”.
Concludiamo tornando al disco: dal titolo, ai testi al suono, l’atmosfera di questo album è molto spirituale. Qual è il significato spirituale che tu gli attribuisci, ed è una cosa che hai deciso prima o che si è manifestata durante o dopo la scrittura e registrazione?
Tutte queste scoperte e questi percorsi di cui abbiamo parlato sono molto legati al titolo, cosa che poi è arrivata dopo perché la canzone “Casa, finalmente”, quando l’ho scritta, parlava semplicemente del fatto che mi sentivo triste e depresso e che l’unica cosa che mi sembrava di avere era tornare a casa, per sentirmi finalmente in un posto mio. Ma da questa riflessione, che da un lato naturalmente è importante, ma è anche in un certo senso banale, è partita una forte riflessione personale sul lavorare sulle mie emozioni, invece di subirle semplicemente, e questo disco mi ha fatto fare un viaggio interiore in cui la casa del titolo è anche la lingua italiana come forma di espressione, l’idea di trovare una dimensione nel mondo, di abbandonare la pretesa di assomigliare a qualcun altro e di proiettarsi verso l’estero in maniera forzata, e semplicemente essere se stesso. E poi aver trovato tutte queste persone meravigliose che mi hanno consigliato e mi hanno aiutato a capire che cosa volevo esprimere, una grande fortuna; perché se invece avessi fatto una cosa da solo, senza chiedere niente a nessuno, sarebbe uscito sicuramente un album molto meno ambizioso che mi avrebbe dato meno soddisfazione.
Un’altra frase che mi ha molto segnato e che ho riportato all’interno del disco, l’ha pronunciata Maria Lai: “Prima che agli altri, vorrei arrivare a me stessa”. È un concetto che è presente anche in Jodorowski e in molti altri pensatori: la ricerca personale e la conoscenza di se stessi permette di stare meglio con gli altri e di essere più consapevoli di quello che si fa, e non deve essere vissuta come individualismo o come egoismo. E questo è sicuramente quello che ho imparato negli ultimi anni, nella mia vita di tutti i giorni ma anche lavorando su questo disco. Nel momento in cui questa sicurezza interiore c’è, la musica esce di conseguenza.
Giacomo è su Instagram: @autolytic_enzyme_son