Música

Vince Staples non si può spiegare

Foto di Sandy Kim 

Vince Staples non riesce a trattenersi. Per quanto non sia per nulla felice della domanda, e anche se sta già parlando più in generale del rapporto tra immagine e pop star e media, l’occasione gli si presenta su un piatto d’argento. E se dobbiamo proprio parlare di soldi e musicisti e cultura popolare in generale, argomento che comunque vorrebbe evitare, troverà sicuramente il tempo per una digressione. Eccola: “Tutti i rapper fanno ‘Sono ricco, cazzo. Vuoi essere ricco anche tu? Immagino. Guarda la mia Bentley’. Voglio dire: ‘Sì, la vedo, fa schifo. È una macchina di merda’”. Si prende una piccola pausa, ci ripensa, si arrabbia. “E sai quanto consuma quel motore? Perché l’esterno sembra piuttosto pesante. Dubito che l’accelerazione da zero a cento valga il prezzo dell’auto”. 

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Tutto questo lo dice con il tono scettico e esperto di chi ha confrontato le caratteristiche delle varie auto di lusso, cosa che sono sicuro abbia fatto, nonostante sia vestito in maniera quasi identica a me, uno che non si può permettere nemmeno un’utilitaria, in jeans neri e felpa girocollo nera, con una cintura di stoffa così lunga da fare quasi due giri attorno alla sua vita stretta. “Quelle elettriche funzionano bene adesso”, aggiunge, come postilla. “Vatti a comprare una Fisker, stesso prezzo. Una Fisker andrà attorno ai cento, centodieci, centoventicinque e dintorni. Vai e spendi. Salva l’ambiente. E risparmi sulla benzina!” 

Io rido perché non so bene come rispondere senza fare figuracce, così cambio argomento e tocco un’altra cosa di cui Staples non ha voglia di parlare. In quel momento, mentre mi trovo a mangiare sushi in uno studio di registrazione a Hollywood, non ci penso, ma questo tipo di conversazione univoca deve avvenire molto spesso con lui. Dopotutto è senza alcun dubbio la persona più carismatica e più spiritosa presente in questa stanza. 

Questo humor, tanto quanto la originalissima musica rap che produce, è diventato il suo marchio di fabbrica, che stia distruggendo idioti razzisti su Twitter o recensendo snack nella sua serie video per GQ o prendendo in giro le marche che gli offrono soldi perché suoni alle loro feste. Il suo carisma è più difficile da individuare dietro la sua facciata burbera; il suo potere sulle persone non deriva da una capacità di mettere tutti di buon umore, ma piuttosto dalla sua abilità nell’andare al sodo delle cose. Che questo ispiri le persone a proiettare una simile sicurezza pragmatica o a lasciarsi sfiorire insieme alle proprie manie di grandezza è una decisione che sta a loro, ma resta il fatto che Staples non può fare a meno di attirare l’attenzione su di sé. Cosa che, paradossalmente, non è sempre il desiderio di un uomo di spettacolo. 

Non so se mi sono spiegato: Vince Staples è stufo di spiegazioni.

“Come musicisti, spiegare è il nostro lavoro”, dice, come se mi stesse, beh, spiegando qualcosa di totalmente ovvio. Presto inizierà per lui un calvario di spiegazioni lungo mesi—il suo nuovo album, Big Fish Theory, sicuramente gli frutterà parecchie domande da parte della stampa. Per quanto ha deciso di raccontarmi durante il nostro pranzo, il disco “vuole spiegare certe cose” ai non-musicisti sui musicisti—in particolare: “Noi odiamo i musicisti. Li trattiamo di merda. Specialmente se sono bravi”. Parlando di spiegazioni, aggiunge: “Per come capisco la musica è che la tua posizione sulla musica di una persona è la stessa che hai sulla sua vita, che però non ha nulla a che fare con te, quindi nessuno dovrebbe mai avere opinioni su un musicista. Siediti e chiudi quella cazzo di bocca”. Non so se mi sono spiegato: Vince Staples è stufo di dare spiegazioni.

Ne ha ragione: se c’è una persona che ha lavorato sodo per diventare un musicista di successo a metà anni Dieci, è Vince Staples. Per prima cosa, la sua musica è eccezionale, capace di riparare ogni strappo nel mondo pieno di faide del rap. I suoi testi sono abbastanza trasparenti da essere apprezzati da ogni fanatico di old school e diretti in quel modo secco che fa urlare i giovani skater e i nerd delle message board mentre pogano. Il suo suono, radicato nella sua voce tenorile che non si lascia spezzare dal subbuglio delle sue tracce, raggiunge paesaggi sonori elettronici ultradistorti ma è anche in grado di rientrare nei ranghi del West Coast funk se l’occasione lo richiede. 

Dal vivo è anche precisissimo e evita praticamente ogni distrazione (non beve né si droga né si lascia coinvolgere in stupide scenate extra-musicali), ma allo stesso tempo riesce a essere altrettanto divertente e stimolante al di fuori della propria musica. Ha raccontato candidamente e ad nauseam alla stampa il suo background da ragazzino nella zona dominata dalle gang di Long Beach, California, analizzando quel mondo con la preparazione e l’acutezza di un sociologo. Ha ripetutamente tracciato la sua stessa storia da affiliato alla crew rap di LA Odd Future a protégé di Mac Miller ad artista Def Jam, con tutte le spiegazioni sul suo rapporto con Syd tha Kid, Earl Sweatshirt e No I.D. che questo comporta. Ha difeso Lil Bow Wow e i Duemila contro le masse in pantaloni sotto il ginocchio dei tradizionalisti hip-hop anni Novanta, fungendo da parafulmine per l’inarrestabile guerra generazionale interna alla scena. E, come ho già detto, ha fornito al mondo e a internet una serie infinita di citazioni su atleti, snack e, soprattutto, i vantaggi del bere la Sprite (ne è il testimonial dal 2015). Eppure, la gente gli chiede ancora che cosa significhino i suoi testi, come se non avesse già sprecato milioni di parole su ogni argomento possibile, come se non significassero esattamente quello che dicono.

“Ci si aspetta che l’arte sia… perché quello è lì? Perché quell’altro è fatto in quel modo? Perché è arte”, dice, facendo notare che è più raro che qualcuno chieda a un regista come la sua vita influenza la sua arte. “Quella è la risposta a ogni domanda, ma noi le facciamo lo stesso. È una contraddizione stare seduto qui con te in questo momento. Riguarda il personaggio, non le canzoni”. 

Le canzoni di Big Fish Theory sono eccellenti, esplorano ancora più a fondo gli stessi suoni giganti, quasi industrial, che erano finiti nelle produzioni sul rinomato doppio album del 2015 Summertime ’06 e ancora più taglienti sul suo EP del 2016 Prima Donna, che tra l’altro trattava anche quello il tema delle contraddizioni della fama. In Big Fish Theory, Staples gioca con idee di aspettative conflittuali, mescolando, per esempio, “l’acqua santa con il Voss”. Il primo singolo “BagBak” dichiara “Di’ al presidente di succhiarci il cazzo perché adesso tocca a noi” su una base da una tonnellata di basse elettroniche. 

“Mi piacciono quei suoni e non mi piacciono gli altri”, dice Staples. “Una volta facevo cose diverse, ma non mi piacevano. Tipo ‘rappa su questi beat’. Ok”. Ci tiene a enfatizzare che le canzoni devono essere interpretate dagli ascoltatori—”se uno chef ti fa da mangiare, quando hai finito vai a chiedere a lui com’era? No, non l’ha mangiato lui, lo mangi tu”. Precisa che non ha intenzione di fare niente che non rientri nei suoi obiettivi creativi. “Ho fatto molte cose che non volevo fare”, dice, attribuendo questi errori alla gioventù e alla mancanza di risorse. “Tipo, in percentuale, sarà più della metà”. 

Qui intende decisioni creative, ma l’idea si allarga quando descrive “un sacco di brunch con intervista” all’Ace Hotel sul fatto di essere “membro di una gang”. A quel pensiero scoppia a ridere, ma noi intravediamo che cosa c’è fra le righe del discorso sul non volersi spiegare: la sua grande rivelazione sulla modernità. Mentre la saturazione mediatica cancella i confini tra artista e pubblico, non c’è più spazio per l’incertezza. L’impulso di chiedere agli artisti di giustificare ogni cosa che fanno crea sempre più bisogno di giustificazioni, un circolo vizioso che trasforma i musicisti in manichini che devono rappresentare la musica nel modo più letterale possibile. 

Ci piace Staples perché la sua musica è una bomba. Ma ci piace anche perché sembra sempre fare la cosa giusta—una visione incredibilmente lungimirante per un ventireenne. È la storia americana perfetta, il ragazzino diventato star esclusivamente grazie alle proprie forze. La gente sembra attratta da Staples, il che sulla carta non ha molto senso visto che lui insiste che non ama la compagnia e l’unica cosa che fa è lavorare. 

Il giorno della nostra intervista, il rapper Tommy Genesis è passato dallo studio, apparentemente senza motivo. Il barbiere di Staples, dopo avergli tagliato i capelli, si è fermato ad ascoltare la musica. Il regista Nabil è passato, con in mano una tazza di tè. E l’addetta stampa di Staples ha menzionato varie volte di passare molto più tempo con lui di quanto richiederebbe il suo lavoro, il che, sulle prime, ho preso come un’iperbole pronunciata da una persona che ha interesse a far sembrare il proprio cliente molto piacevole. Ma poi ho capito che probabilmente diceva la verità. Staples sembra avere davvero quell’effetto su tutti.

Quel magnetismo rende facile credere che Staples abbia tutte le risposte, che la sua musica provvederà a ognuno di noi quello che ci serve per essere felici. Potrebbe farlo, forse, in un certo senso. Ma anche no. Sta a noi ascoltatori deciderlo. Subito dopo esserci stretti la mano, Staples ha iniziato a descrivere la propria musica in termini completamente senza senso. Ma più ci pensi, più diventa plausibile che siano esattamente quello che ti serve. “Abbiamo un po’ di canzoni”, ha detto. “Abbiamo un po’ di beat e di parole, hai presente? E poi diventano una cosa sola. Metti tutto insieme. Tipo un frullato. E poi lo bevi”.

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