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Il mondo sta finendo, ma almeno c’è la musica ambient

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Sento una voce sussurrare tra gli alberi ma, date le circostanze, all’inizio penso di sbagliarmi. Sono disteso a pancia in su in tenda, a un festival techno. Isolato, anche se solo momentaneamente, dal ritmo della mia vita quotidiana, trascuro qualsiasi esigenza fisiologica del mio corpo. Dormo poco. Non ho toccato le barrette ai cereali che ho rubato dalla cucina dell’ufficio. Con lo stomaco che brontola e la vista annebbiata, esco dalla tenda e seguo quei suoni. Mi avventuro lungo un ponte di corda che dondola e sprofonda sotto il peso di ogni mio passo.

All’improvviso mi ritrovo davanti a uno dei palchi che fino a quel momento avevo ignorato. Celato dal bosco fitto e illuminato da luci al neon soffuse c’è un DJ che se ne sta fermo e in silenzio mentre sprigiona musica lenta e informe nella foresta davanti a sé. Mentre mi avvicino, quel sussurro che avevo sentito all’inizio—che in realtà è un pezzo della norvegese Ann Lislegaard—si trasforma in suoni ben definiti, strambi e meravigliosi.

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Per me la musica ambient è diventata una sorta di ancora di salvataggio spirituale.

All’inizio sono lunghi e lenti, rumori della natura leggermente manipolati, ma delicati e incatenati in sequenze di synth geometriche. Non saprei dire per quanto tempo sono rimasto lì seduto a osservare quest’uomo cospargere l’aria di settembre di suoni. Devo essermi anche addormentato per qualche istante ma è stato un momento di vera pace, lontano dal frastuono del festival. Era esattamente quello che ci voleva.

Negli ultimi anni, nel tentativo di sopravvivere allo strazio della vita adulta nell’era dell’Antropocene, mi sono ritrovato spesso in situazioni in cui mi sono comportato proprio come a quel festival: ho seguito una voce sussurrata e mi sono allontanato dal rumore. Per me la musica ambient è diventata una sorta di ancora di salvataggio spirituale—con la sua struttura lenta, trascinata, principalmente elettronica ma adattabile a qualunque strumento in grado di riprodurre note lunghe e prolungate.

Tutto è iniziato nel 2015 quando lavoravo in un ufficio a Manhattan, a un passo da Times Square—il posto che meglio rappresenta un attacco di panico in forma architettonica. Eppure le strutture imponenti, la metropolitana affollata e le orde di turisti misti a manager di medio livello che affollavano i marciapiedi della Sesta Strada assumevano tutto un altro aspetto quando nelle mie cuffie suonava la musica cupa e poliedrica di Klaus Schulze. Mondi immobili e colorati si materializzano davanti ai miei occhi tra sequenze caleidoscopiche di synth, nei monolitici toni piatti realizzati dai compositori di drone music, o ancora nelle note gioiose della new age anni Ottanta. Posso isolarmi del tutto dalla bruttezza del mondo e fluttuare sopra ogni cosa.

klaus schulze timewind
La copertina di Timewind di Klaus Schulze, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Quando inizio a sentire che non ce la faccio più mi rifugio nell’ambient. Quando i social media cominciano a impazzire mi rannicchio in qualche sequenza sdolcinata di synth prodotta da etichette come Sounds of the Dawn. Quando la mia mente non vuole saperne di placarsi, ascolto i minimalisti newyorchesi e lascio che le loro ripetizioni rassicuranti mi ipnotizzino fino a ritrovare uno stato di tranquillità. In genere sono il primo a incoraggiare l’ascolto di pezzi impegnativi, in momenti impegnativi: ma penso che anche l’assenza di tonalità e contorsioni ritmiche possano insegnare alla mente a tenere duro.

Uno studio del 2011 di Nature Neuroscience sul valore della musica nell’esistenza dell’essere umano ha usato la risonanza magnetica per tracciare il modo in cui la musica agisce sugli impulsi chimici che generano senso di ricompensa nel cervello. I ricercatori della McGill University hanno affermato che la reazione del cervello funziona in due modi distinti. “Il piacere intenso in risposta alla musica può rilasciare dopamina” ma anche “l’anticipazione di una ricompensa astratta può provocare il rilascio di dopamina secondo un meccanismo anatomico distinto da quello solitamente associato al piacere.”

Quando inizio a sentire che non ce la faccio più mi rifugio nell’ambient. Quando i social media cominciano a impazzire mi rannicchio in qualche sequenza sdolcinata di synth.

La musica ambient, nella forma, è tutta un’anticipazione; i cambiamenti graduali tra le note e il dispiegarsi lento e graduale degli strati di suono non fanno altro che posticipare il momento della gratificazione. Se il cervello rilasciasse endorfine quando ci troviamo in stato d’attesa la mia ossessione per l’ambient avrebbe senso anche a livello scientifico, ma fermandoci alle emozioni penso che tutti possano capire il fascino profondo del silenzio in un anno come questo.

Negli ultimi mesi ho avuto sempre più motivi, soprattutto considerata l’attuale situazione geopolitica, per cercare rifugio nella musica ambient. Despoti ed esponenti di estrema destra stanno guadagnando terreno a ogni angolo del globo. I diritti umani vengono calpestati a ritmi incessanti e le notizie sullo stato apocalittico del nostro pianeta vengono sistematicamente ignorate. Questo è il rumore che fa da sottofondo alla nostra esistenza nel 2018, ed è sempre più assordante, giorno dopo giorno.

Un articolo del Guardian dello scorso anno aveva osservato come molti festival di musica elettronica avessero inserito in programmazione anche artisti ambient, insieme a più classici nomi della musica dance. Questa tendenza è descritta alla perfezione dal compositore Laraaji che nell’articolo parla di voler offrire al pubblico “una fuga verticale, anche se temporanea, senza dover abbandonare le proprie responsabilità di essere umano sul pianeta”. Ma mentre il mondo sprofonda sempre più negli abissi dell’oscurità ho spesso la sensazione, come dice lui, di stare abbandonando le mie responsabilità. A un certo punto, quando la realtà brutale del mondo diventa sempre più opprimente, immergermi nella consolazione di quel mare di synth mi sembra un atto irresponsabile. Perché dovrei starmene qui al riparo dagli orrori del mondo, quando molti altri non hanno la stessa possibilità?

Tuttavia secondo alcuni nell’ambient esisterebbe un potenziale inesplorato che va oltre il mero escapismo. Il compositore e cantautore Nick Zanca ha parlato a lungo dei risvolti politici del genere: i suoi scritti sostengono che queste sonorità offrano uno spunto di riflessione e stimolino il pensiero. È un modo per spegnere il cervello, ma anche per fare brainstorming. “Preferirei interiorizzare le cattive notizie quotidiane ascoltando Grouper o Morton Feldman, piuttosto che una qualsiasi altra melodia invasiva ed esplicita che non lascia spazio all’immaginazione e al pensiero,” mi ha scritto Zanca via mail. “È possibile gestire soltanto una quantità definita di carico sensoriale. In qualsiasi contesto (soprattutto dal vivo), l’ambient incoraggia un ascolto collettivo e collaborativo. Si discosta dalla musica da club o pop, in cui l’atto dell’ascolto è solo secondario all’interazione sociale”.

“C’è una sorta di coscienza collettiva che si sviluppa attorno alla musica senza parole.”

RVNG, label di stanza a New York, ha ripreso questa linea di pensiero quando ha dovuto comporre la colonna sonora per uno spazio di meditazione al Moogfest, un evento organizzato dalla nota azienda di sintetizzatori, nel 2017. Invece di far partire un DJ set nel vecchio cinema dove era organizzato l’incontro, quelli di RVNG hanno chiesto ad alcuni artisti del loro giro di produrre nuova musica e l’hanno messa in una compilation su cassetta intitolata Peaceful Protest, che hanno poi riprodotto nell’impianto del cinema, e anche venduto, destinando il ricavato a un’associazione benefica locale a supporto della comunità LGBTQ. La grafica della cassetta, una versione stilizzata del titolo, è stata proiettata sullo schermo, mettendo in risalto il messaggio di fondo di questo progetto sonoro senza testi o parole. Quell’esperienza ha cambiato tutta la mia concezione della musica ambient e del suo potere.

“C’è una sorta di coscienza collettiva che si sviluppa attorno alla musica senza parole,” mi disse al tempo Matt Werth, fondatore di RVNG. “Non penso che accada la stessa cosa con altri generi musicali. Anche storicamente è sempre stato così, la musica votiva ha una struttura ciclica, quasi un mantra che si ripete, senza una forma ben definita. C’è una certa energia in tutto questo, no?” L’installazione all’interno del cinema offriva così un chiaro spunto di riflessione: contro cosa protestiamo? Contro cosa dovremmo protestare? Non è un movimento politico in sé—a parte le donazioni in beneficenza—ma allo stesso tempo crea una zona di quiete dove i semi di questa azione di riflessione possono affondare le proprie radici, germogliare, crescere.

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La copertina di Airport Music For Black Folk di Chino Amobi, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Alcuni produttori del genere la pensano all’incirca allo stesso modo. Nonostante io sia un po’ restio a considerare un insieme di toni come vero contenuto musicale, sono stato colpito qualche anno fa da un gesto di protesta dell’artista Chino Amobi con il suo album Airport Music for Black Folk. Facendo il verso al celebre Brian Eno e al suo Ambient 1: Music for Airports, una collezione di drone lenta che molti considerano un manifesto del genere, Amobi riunisce in questo disco una collezione di composizioni lente e malinconiche. Ma sin dall’inizio appare chiaro che ci sia qualcosa di ancora più inquietante; i pezzi sono meno tonali, più stridenti, una sorta di presa di coscienza del fatto che per alcuni, in particolare per coloro che appartengono a una categoria ai margini della società, gli aeroporti possono diventare luoghi carichi di inquietudine.

La cosa più bella è che il messaggio, per la natura stessa della forma musicale, non è didattico. Amobi, e i compositori della sua stessa scuola, commentano e presentano il proprio lavoro nel corso di interviste o dichiarazioni ufficiali, ma l’ascoltare non ha altro che suoni in cui perdersi e un titolo a fare da guida. Certo, puoi sempre fare come me, guardare il mondo intorno, fottertene e rinchiuderti in un vortice per poi scomparire. Ma l’esperienza ambient non deve per forza esaurirsi qui; può essere utilizzata per andare oltre le strutture di pensiero a cui siamo abituati. Non è solo un modo per evadere da qualcosa, ma può diventare uno spazio di riflessione, in cui sognare nuove possibilità e nuovi mondi.

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