Il Mostro di Firenze è il caso giudiziario più lungo del nostro paese e anche unico nella storia dei serial killer mondiali. È dello scorso marzo la notizia che vorrebbe l’ultima inchiesta sui delitti prossima alla chiusura, e con essa si concluderebbe senza un vero responsabile e soprattutto senza alcuna verità storica circa l’autore e la dinamica di questa scia di delitti, un caso che ha da poco compiuto cinquant’anni.
Negli ultimi dieci anni poi, con la moltiplicazione in rete di siti dedicati ai cold case, quelli del Mostro hanno iniziato a godere di una nuova vita: solo in Italia i blog, le discussioni su Reddit, i canali YouTube dedicati al caso non si contano, così come i nuovi libri, spettacoli e i vari format televisivi che dagli anni Ottanta si scervellano sull’identità dell’assassino seriale di Firenze.
Videos by VICE
Districarsi in questo oceano di informazioni, teorie e ricostruzioni al limite del fantasy non è facile, soprattutto per chi non ha seguito con attenzione la storia processuale e quella giornalistica del caso. Negli ultimi anni sono diventato un attento lettore del blog Quattro cose sul Mostro di Firenze, curato da Antonio Segnini. La pagina, che a un primo sguardo sembra del tutto anonima e assorta nella dimensione atemporale di un vecchio sito WordPress, è in realtà una vera perla.
Segnini è un sessantacinquenne informatico nato in Toscana e da anni si è trasferito per lavoro in Brianza. Un po’ come Piero Scaruffi ha iniziato a compilare ossessivamente un suo personale “atlante,” ma con il Mostro di Firenze come soggetto—tramite un lavoro certosino di recupero di fonti, quotidiani dell’epoca, calcoli statistici e la lettura delle carte processuali (alcune ottenute direttamente dagli avvocati che seguirono la vicenda).
Tutto ciò gli ha fatto maturare nel tempo prima la teoria e poi l’assoluta convinzione di aver individuato l’unico colpevole di questo complicatissimo caso. Per Segnini l’autore dei delitti sarebbe Giancarlo Lotti: uno dei “compagni di merende,” l’unico ad aver parzialmente ammesso la sua partecipazione ai delitti ma con modalità e motivazioni talmente ambigue da non essere state mai davvero interpretate e comprese né dai magistrati né dal pubblico e ancor meno dagli “esperti” che da sempre lo hanno liquidato come un mitomane.
Lotti fu comunque condannato nel 1999 grazie alle sue incerte ammissioni con una pena di 26 anni, sentenza che fu confermata in Corte di Assise nel 2000, anche se dopo appena due anni Lotti morì presso l’ospedale San Paolo di Milano per un tumore al fegato.
Dopo averlo contattato, Antonio Segnini è felice di incontrarmi e fare due chiacchiere con me. Ci diamo appuntamento negli uffici di VICE dove si fa accompagnare dal figlio che in questi anni gli ha dato una mano con il suo lavoro; posando insieme ad amici e parenti nelle ricostruzioni fotografiche “casalinghe” degli omicidi inscenate dal padre per dare una rappresentazione plastica dei crimini, e andando anche in pellegrinaggio per la Toscana nei “luoghi” del Mostro.
VICE: Prima di tutto, come ha iniziato ad appassionarsi a questo caso?
Antonio Segnini: All’epoca dei fatti seguii la vicenda fino al processo a Pacciani e la mia impressione fu che lui non c’entrasse niente, perciò della parte successiva mi disinteressai completamente. Poi, dopo aver visto uno sceneggiato della Fox Crime, mi trovai in totale disaccordo con la ricostruzione fantasiosa, le conclusioni dei processi ai “Compagni di Merende” e le successive ipotesi esoteriche.
Decisi di capirci qualcosa di più, dapprima guardando diversi documentari e leggendo vari saggi. Mi accorsi che, anche se con vari errori e diversi versioni dei fatti, più testimonianze sembravano indicare che l’unica macchina che davvero fu vista da più fonti era quella di Lotti: l’unico dei presunti “mostri” che ammise, anche se solo parzialmente, in qualità di “palo,” la sua partecipazione agli omicidi. Iniziai a pensare che forse Lotti aveva fatto quelle ammissioni e detto un’infinità di bugie per coprire qualcosa di peggiore.
Che cosa la convinse di questa sua teoria?
Da questo dubbio, iniziai a collezionare un’infinità di informazioni, come per mettere “alla prova” questa tesi, rendendomi conto che andavano tutte in quella direzione. Il punto più difficile è stato studiare e capire meglio il primo delitto (quello del 1968): cosa c’entra con Giancarlo Lotti? Come ho cercato di provare nel mio blog, sono sicuro che dopo quell’omicidio compiuto dal “clan dei sardi” ci fu un passaggio di pistola che Lotti raccolse e tenne con sé, “fantasticando” fino al 1974 che io, come altri, ritengo essere l’anno del primo vero e proprio duplice omicidio del Mostro di Firenze.
Come si spiega che la sua teoria non sia mai stata presa in considerazione sui media tradizionali?
Può sembrare assurdo, ma da un certo punto di vista è proprio Giancarlo Lotti che ha voluto così. Mi spiego: lui ha sempre tenuto un basso profilo, non si è mai mostrato per quello che veramente era, convincendo tutti di essere praticamente un minorato mentale.
Le “dinamiche,” dove cerca di ricostruire le aggressioni alle coppie di ragazzi sono per così dire il pezzo forte del suo blog. Come è arrivato a sviluppare questo metodo?
Probabilmente gran parte del merito è della mia professione ormai quarantennale di softwerista, che mi costringe a risolvere problemi utilizzando puramente la logica. Per questo caso del mostro ho applicato lo stesso metodo: sono partito da dei punti fermi (le evidenze impossibili da ignorare, come ferite, bossoli e proiettili) e ho cercato di collegarli.
Tra le altre sezioni del suo blog si è anche molto impegnato a smontare sistematicamente tutte le “leggende” attorno al Mostro.
Alcune di queste storie sono diventati dei miti che ormai tutti quanti, anche quelli più informati, tramandano come “storia.” Come il guardone Spalletti che avrebbe visto e raccontato l’omicidio del 1981 prima che fosse scoperto. Oppure la leggenda complottista che avrebbe visto il Ministero della Giustizia Italiana osteggiare le indagini del “super-poliziotto” Michele Giuttari per coprire non si sa quali fantomatici interessi.
Poi c’è la leggenda del “mostro in divisa” portata avanti soprattutto dall’avvocato Nino Filastò: in quel caso l’avvocato si fece prendere un po’ troppo dalla sua fantasia di romanziere, purtroppo a scapito del suo assistito, il postino Mario Vanni [uno dei presunti “compagni di merende”].
Anche se la sua tesi è assai diversa da quella dell’avvocato Nino Filastò, mi pare di capire che avete qualcosa in comune: entrambi pensate che il mostro sia stato molto suggestionato da alcuni film dell’epoca.
Sì, ne sono molto convinto: il modo in cui uccideva a mio avviso non è quella di un tipico lust murder: perché in tutti questi delitti non c’è mai stata la minima violenza sessuale sulla donna, non c’era alcuna traccia di attività masturbatoria sulla scena del crimine, sono delitti privi di una vera e propria motivazione. Il killer arrivava sul luogo del delitto, uccideva in modo assolutamente freddo e poi, evolvendosi in questa pratica, esportava dal cadavere femminile delle parti. Il mostro ha sempre agito in modo razionale.
Il film che ho analizzato (e che fu anche citato da Filastò) Maniac [1980, di William Lusting] racconta di un individuo le cui imprese, amplificate dagli organi di stampa, terrorizzavano New York. Credo che il mostro abbia voluto imitare il protagonista del film, del quale riprese la particolarità di togliere lo scalpo alle proprie vittime femminili evolvendolo nel taglio della peluria pubica.
Tutto questo dopo essersi impadronito della pistola usata dagli assassini del primo duplice omicidio del 1968 a Signa (che fu un delitto comune), avervi fantasticato sopra per sei anni, averla usata per uccidere un’altra coppia a Borgo San Lorenzo nel 1974 (dopo aver seguito la ragazza della quale si era invaghito) e infine aver quasi dimenticato per sette anni quel suo primo delitto.
La visione di Maniac, o meglio, dei trailer ossessivamente trasmessi sulle tv locali, gli indicò una via per sfogare la sua rabbia repressa di persona poco considerata e incapace con le donne. Trovo che ci siano molte analogie con la vita di Giancarlo Lotti ma soprattutto rilevo che nell’anno dell’uscita del film nei cinema fiorentini, sono iniziate nella realtà, la pratica delle escissioni del mostro.
Un film però, rimane un film, per quanto la psicologia ha dimostrato una correlazione tra lo sviluppo delle ossessioni dei maniaci e le immagini estreme di sesso e morte. Ed è difficile pensare che uno diventi un serial killer guardando un film…
Certamente; ma a mio avviso quel film ha rafforzato e per così dire ha “ispirato” le sue fantasie. In assoluto credo che l’elemento scatenante per Lotti è stato quello di possedere la pistola che aveva compiuto il delitto del 1968. A questo proposito fu lo stesso Francesco De Fazio [al tempo direttore dell’Istituto di medicina legale di Modena] a commentare il potere di suggestione generato sul killer dal tenere in mano questa pistola, una pistola che aveva già ucciso delle persone.
Per me così Lotti è diventato il mostro: per molti anni aveva conservato quell’arma e iniziò a portarsela dietro quando seguiva alcune delle ragazze che desiderava, pedinando le coppie in quei luoghi così appartati in mezzo alle campagne dove andavano a fare l’amore.
Nel 1974, perché particolarmente ossessionato da Stefania Pettini [ la vittima femminile di quel duplice omicidio], decise per la prima volta di fare il “salto” e usare quell’arma. Passò molto tempo poi per il successivo duplice delitto e, anche secondo De Fazio, probabilmente il mostro in quel periodo tentò di avere delle relazioni sessuali “normali,” tentativo frustrato dato che il mio assassino è impotente.
I delitti successivi sono estremamente più freddi di quello del 1974, perché a quel punto l’autore era sostanzialmente interessato a compiere omicidi per sfogare una frustrazione e per sentirsi qualcuno, godendosi la reazione dei media. Credo che il personaggio di Maniac gli abbia semplicemente offerto un modello a cui ispirarsi. Per me il Mostro di Firenze è così “unico” nella storia proprio per la sua particolarità: un lust murderer su imitazione.
Non è l’unico ad aver avanzato una ipotesi simile: al tempo delle indagini il giudice istruttore Mario Rotella aveva ipotizzato una lettura degli omicidi, sottolineandone la “gratuità” di questi omicidi.
Assolutamente, c’è un passaggio interessantissimo in cui Rotella parla di un “pazzo paranoico,” e sottolinea anche il fatto che la divulgazione dei particolari dei delitti alimentarono le fantasie del killer.
Della sua teoria, facendo autocritica qual è a suo avviso il punto più debole?
Le sembrerò arrogante, ma non vedo falle nella mia teoria. Le posso dire quella che più mi viene rimproverata: il passaggio della pistola dai sardi di Signa a Lotti [Stefano Mele, i fratelli Vinci e Piero Mucciarini, tutti sardi emigrati in Toscana, furono per molti anni indagati, e arrestati in periodi diversi per i vari delitti compiuti con la Beretta calibro 22]. Quella sera al cinema, subito dopo la coppia poi uccisa, entrò un personaggio misterioso, l’ultimo spettatore, probabilmente lo stesso notato da Natalino (il figlio di Barbara Locci che quella sera era con lei e il suo amante).
A delitto terminato e a scena del crimine divenuta deserta, questa persona raccolse la pistola che era stata lasciata di proposito sul posto per inguaiare chi l’aveva fornita senza sapere dell’omicidio. Fu proprio il possesso di quella pistola a farlo diventare a sua volta un assassino.
Quindi per lei Lotti recuperò “per caso” l’arma usata dai sardi nel 1968 per quel delitto di clan, e con essa iniziò a meditare ed emulare delitti alle coppie?
Esatto: qui l’apparente debolezza della teoria per me è in realtà un punto forza, poiché proprio questo episodio unico al mondo determinò la nascita di un serial killer unico al mondo, non un vero e proprio lust murderer affetto da patologie psichiatriche gravissime ma un individuo frustrato che per rabbia e divertimento imitava un lust murderer. Tale individuo, privo degli irrefrenabili impulsi tipici dei veri lust murderer, uccideva con scelta razionale, a distanza di molto tempo, e con scelta razionale nel 1985 decise di smettere.
Chi avversa la sua teoria di Lotti “unico mostro” ritiene che la lettera con un brandello di seno dell’ultima vittima che il killer inviò per posta alla magistrata Silvia Della Monica non poteva essere architettata da un individuo di così scarsa intelligenza.
E invece proprio quella lettera ci dice che chi la inviò era un individuo di scarsissima cultura, proprio come Lotti che non aveva neppure la licenza elementare. Mancava infatti di un testo di rivendicazione (stranissimo, visto che la lettera era chiaramente una sfida agli inquirenti), e nelle pochissime righe dell’indirizzo c’erano almeno quattro errori tipici di una persona ignorante.
Lotti è stato sempre considerato un individuo al limite della demenza mentale. Rianalizzando oggi la vicenda dal punto di vista della sua teoria però, alcuni passaggi del processo del 1997 in cui Lotti figurava come semplice complice “pentito” dei “compagni di merende,” fanno gelare il sangue. Ad esempio le deposizioni che i due psicologi forensi Lagazzi e Fornari resero sulla perizia mentale del Lotti, dove emerge un ritratto assai diverso.
Nonostante il loro punto di vista, per forza dipendente dalle tesi della Procura (quello di un complice secondario), Fornari e Lagazzi disegnarono nella loro perizia su Lotti e in dibattimento l’esatto ritratto di un serial killer, cosa che non si riscontrava negli altri presunti complici Pacciani e Vanni.
Dissero anche che la psicologia del Lotti rivelava la volontà di nascondere qualcosa, e che il soggetto cercava costantemente di manipolare seppur in modo ingenuo i suoi interlocutori. Sono dei passaggi importanti. Purtroppo mi tocca costatare che le persone che a vario titolo si sono interessate al caso, non considerano questi elementi; ormai tutti quanti si adagiano sul copione di Lotti come “scemo del villaggio,” non avendo il coraggio di guardare meglio in faccia la realtà.
Quindi questa figura che abbiamo sempre visto dipinta come quella di un minorato mentale, asociale, nascondeva le sue reali capacità?
Certamente. Ad esempio dei cosiddetti “compagni di merende” lui fu l’unico a viaggiare anche fuori dall’Italia: divenne amico di una coppia di turisti che si recavano spesso a San Casciano, lo invitarono in Germania e lui ci andò.
Arriveremo mai a mettere una parola fine a questa vicenda? Ci sono ancora speranze di far emergere la verità dopo tutti questi anni?
Dal punto di vista meramente giudiziario ritengo che non ci sia più alcuna speranza Nonostante gli sforzi dell’avvocato Vieri Adriani, [legale dei familiari delle due ultime vittime]. Dal mio punto di vista, credendo senza dubbio alcuno allo scenario di un primo delitto compiuto dai sardi e di tutti gli altri compiuti da Giancarlo Lotti, ritengo che l’unica speranza di poter indurre alle necessarie riflessioni e conseguenti approfondimenti sia l’uscita di un’opera di ricostruzione rigorosa ma capace di creare spettacolo, e quindi interesse.
Gli elementi per un film o un romanzo ci sono tutti, poiché la storia del serial killer noto come Mostro di Firenze è unica al mondo: i mezzi di una grande produzione per rivedere un modo serio e senza pregiudizi l’intera vicenda; sarebbe l’unico modo per cancellare tutti questi anni di leggende e restituire alla memoria collettiva qualcosa di più vicino alla realtà.
Segui Riccardo su Twitter.
Iscriviti alla newsletter di VICE per avere accesso a contenuti esclusivi, anteprime e tante cose belle. Ogni sabato mattina nella tua inbox. CLICCA QUI.