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Siamo stati nell’assurda e incredibile gelateria dentro il Berghain

C’erano delle tazzine di porcellana per l’espresso e dei bicchieri di carta rosa per il gelato. L’acqua frizzante, i succhi di frutta e gli energy drink se ne stavano allineati in file ordinate. Sul bancone del bar di piastrelle tutte cromate, i contenitori di plastica degli zuccherini e i dispenser da zucchero del tipo da tavola calda americana, racchiudevano gli elementi essenziali delle loro rispettive decorazioni: arcobaleno e cioccolata, il bianco e il marrone. Il barista era muscoloso e abbronzato, la barba brizzolata, il codino tirato da uomo e una canotta verde militare con i giro manica che gli arrivavano alla vita. Diciamo che per tre quarti assomigliava a Chris Hemsworth in Thor – è quello che ho pensato -, o al limite al cliché di un hipster che lavora in una caffetteria. Australiano, probabilmente.

In un qualsiasi altro caffè-gelateria del quartiere di Friedrichshain, ormai in gran parte radical chic, in quella che era la Germania dell’Est, questa scena sarebbe stata tanto insignificante da risultare banale. Ma non ero affatto in uno di quei vecchi bar. Ero nel negozio nascosto di snack di quello che è probabilmente il locale più famoso – e di certo il più mitizzato- del mondo: il Berghain.

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Nonostante i suoi impianti audio formidabili e line-up nel weekend che vedono dj di house e techno affermati e avanti anni luce, la reputazione del Berghain si fonda, più che sulla musica, sull’atmosfera dionisiaca al suo interno. Gran parte dello spazio – che è un’imponente ex centrale elettrica, la cui vasta sala macchine, cinta da colonne di cemento alte 60 metri, è ora la principale pista da ballo – odora perennemente di un fetido miscuglio di birra, sigarette, erba, sudore, urina, feci e lo sperma che potrebbe essere imbottigliato e venduto come Sin. Con quel divieto di fare foto all’interno e la politica di una selezione alla porta infallibile, tutto ciò che succede al Berghain, rimane al Berghain. Sul serio. O almeno fino a quando la gente inciampa il lunedì mattina fuori dalle porte piene di graffi, tutti magri, con le facce sconvolte dal sudore e dai sorrisi di merda. Con gli occhi chiusi per la forza della luce naturale del mattino, si trascinano oltre la lunga fila di persone che assomigliano molto ai loro sé del passato, persone che non vedono l’ora di bere per eccitarsi e si guardano e sussurrano cose tipo: “Oh mio Dio, saremo noi..”.

Due uomini a petto nudo con una gonna a rete condividevano una grossa coppa di gelato al cioccolato, con le grandi catene al collo che riflettevano le vene degli avambracci.

Il Berghain è un luogo dominato dalle contraddizioni: un solo posto riesce a essere cavernoso, labirintico e intimo. È famoso per le sue “dark room”, ma allo stesso tempo pullula di luci strobo. Il rimbombo sommesso dell’impianto audio Funktion-One si sente fino a un chilometro, eppure in mezzo alla pista da ballo si riesce a chiacchierare tranquillamente senza urlare.

Era appena fuori da quella pista da ballo, oltre una gigantesca altalena grande quanto un tavolo, e su per una scala stretta, che ho trovato la parte del Berghain più assurda di tutte: la gelateria. Perfino con la cassa dritta che andava a palla e il mare di corpi che si muoveva sotto, nessuno ballava.

Era come se tutti stessero avendo un appuntamento al contrario: prima sesso in un bagno, poi delle droghe in un angolo buio, e alla fine un affogato a lume di candela.

C’era una donna in una tuta di pelle nera, coi piercing sulle sopracciglia, che stava appoggiata al muro tirando boccate di sigaretta e sorseggiando succo d’arancia. Due uomini a petto nudo con una gonna a rete condividevano una grossa coppa di gelato al cioccolato, con le grandi catene al collo che riflettevano le vene degli avambracci. C’era una donna in reggiseno verde acqua e jeans strappati che si dimenava su una panca e il suo corpo era liquido come uno degli orologi molli di Dalì, mentre un uomo seduto dietro, la teneva stretta con una mano e reggeva una tazza di gelato sulla coscia con l’altra. Un uomo dai capelli grigi, con addosso pantaloni di pelle attillati e occhiali neri dalla montatura spessa, ha finito il suo cappuccino, ha ordinato e buttato giù uno shot tanto verde da sembrare radioattivo, ed è tornato al piano di sotto come se niente fosse. C’erano uomini in pantaloncini bianchi attillati, le cui erezioni erano ben visibili a tutti, che bevevano del succo di mela, donne in stivali da combattimento con punte d’acciaio e tacchi alti 15 centimetri che beccavano come uccelli minuscoli panini, persone con tatuaggi che gli ricoprivano il cranio che ridevano mentre si divoravano un muffin al cioccolato e banane. Era come se tutti stessero avendo un appuntamento al contrario: prima sesso in un bagno, poi delle droghe in un angolo buio, e alla fine un affogato a lume di candela.

Mi sono studiato bene il gelato sotto il vetro, ho indicato con il dito la scodella di cioccolato illuminata da un tubo al neon, e ho sollevato due dita in direzione del barista. Quando quello ha aperto il congelatore, la condensa si è sollevata turbinando nell’aria calda e appiccicosa. Le palle di gelato che faceva erano generose, il loro prezzo (€ 2,40 in totale) ancora di più. Ho messo in bocca una cucchiaiata. Un leggero capogiro, che non avevo ancora sentito da quando ero entrato nel Berghain dopo una triste ora di due quella mattina, mi ha immediatamente incoraggiato.

Non avevo mai mangiato un semplice gelato al cioccolato con un gusto così gradevole, cremoso, non troppo dolce, non artificiale. Ne ho offerto un cucchiaio alla mia ragazza, e il suo viso si è illuminato con la stessa gioiosa espressione di riconoscimento che fa ogni volta che condividevamo una barattolo grande di Ben & Jerry’s sul mio divano. “Porca Vacca.”

La storia è questa. Mentre le voglie infantili per ciambelle s’more e Devil Cake sono andate sparendo, la mia ossessione per il gelato è rimasta costante. A 26 anni, mangio tanto gelato, se non di più, rispetto a quando ero bambino.

Mi piace mangiare un gelato che si scioglie su una panchina del parco illuminata dal sole, un frullato alla frutta sulla spiaggia, una scodella piena di gelato con pezzetti di menta a mezzanotte nella mia cucina, o, a quanto pare, una coppetta al cioccolato all’interno di una discoteca di Berlino, circondato da gente per lo più nuda in pelle e catene. Sono tutte situazioni totalizzanti, quasi puerili, guidati dalla pura bontà verso se stessi. Il gelato è una fuga mentale e fisica dall’età adulta e da tutte le responsabilità che ne derivano. Mi fa sentire di nuovo un bambino.

A quel punto la faccenda si fa delirante. È inevitabile entrare in uno stato ipnotico sulla pista da ballo del Berghain, un prodotto della techno ripetitiva, oscura e notoriamente parte del club. Da ore, per ore, ho rimbalzato da un piede all’altro, le mani che battono le cosce in sincro con i bassi, il busto che fa movimenti stretti, la testa che annuisce e rotola come fosse controllata da un ventriloquo ubriaco. La gente medita o si fa solitarie di lunghe distanze per lo stesso motivo, o almeno così mi è stato detto: stimola il rilascio di endorfine, gli antidolorifici naturali del corpo che producono euforia. Insomma, roba che li fa sentire bene.

Ora capisco perché c’è una gelateria in un posto come il Berghain. E perché pullula di persone contente, soddisfatte e rilassate ogni volta che salgo le scale buie. Perché, raschiando il fondo della mia coppetta, a caccia degli ultimi pezzetti di gelato burroso marchiato Berghain, mi sento più libero dai pensieri negativi che in qualsiasi momento che la mia storia recente ricordi. La ricerca del piacere è una strada tortuosa, ma quell’intersezione di vie rappresentate dal gelato e dal Berghain è davvero un bel posto dove fermarsi per un po’.

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