La POM-3 “Medallion” russa è una mina antiuomo particolarmente crudele. Non ha bisogno di essere calpestata per esplodere, perché è dotata di un sensore sismico che percepisce le vibrazioni dei passi umani. Quando si attiva lancia una carica esplosiva all’altezza del petto, colpendo collo e testa delle vittime. Inoltre, l’esplosione genera una corona di duemila schegge di metallo in grado di uccidere o ferire chiunque si trovi nel raggio di 16 metri.
Esattamente come tutte le altre mine antiuomo, le POM-3 sono state vietate dalla Convenzione sulla messa al bando delle mine antiuomo del 1997, firmata dall’Ucraina ma non dalla Russia. Ciò significa che il loro utilizzo è proibito dalle leggi internazionali solo per l’Ucraina, un paradosso legale.
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A settembre 2022, il fotoreporter tedesco Jan Schneidereit si è recato in Ucraina per documentare l’uso di queste armi—che è stato confermato da svariate organizzazioni, tra cui l’Osservatorio per i Diritti Umani dell’Onu. Nel corso del viaggio, Schneidereit non è stato in grado di localizzarne neanche una, ma ha incontrato un gruppo internazionale di volontari che mettono a rischio la propria vita per trovare e disinnescare queste mine.
La squadra di smaltimento ordigni esplosivi (Explosive Ordnance Disposal, EOD) consiste perlopiù di ex militari di diverse nazionalità. Operano da una base nella provincia di Sumy, nel Nordest dell’Ucraina, a soli 15 chilometri dal confine russo e quindi all’interno del raggio d’azione di artiglieria e droni. La posizione esatta della base resta segreta per ragioni di sicurezza.
La squadra non si limita a disinnescare le mine, ma addestra anche unità dell’esercito ucraino a condurre questo tipo di operazione. Da quanto racconta Schneidereit, i volontari non ricevono alcun compenso.
Schneidereit ha detto che la prima missione importante della squadra EOD è stata all’aeroporto di Hostomel, una pista militare vicino a Kyiv dove sono atterrate le truppe russe dopo che Putin ha dichiarato l’invasione.
Finora, nessun volontario è rimasto ferito. Alcuni membri della squadra hanno raccontato a Schneidereit che l’operazione più pericolosa è stata quella sul fronte di Soledar nella regione di Donetsk, dove la squadra EOD si è trovata bersagliata da un fitto fuoco di artiglieria russo. La squadra è battuta in ritirata dietro le linee ucraine, ma prima di riconoscerli anche i soldati ucraini hanno sparato verso il veicolo che si dirigeva a tutta velocità nella loro direzione. Fortunatamente, la situazione non è precipitata.
Schneidereit ha anche avuto l’opportunità di parlare con alcuni membri della squadra. Jonathan Baynard è cresciuto a Belfast, Irlanda del Nord, e ha servito nell’esercito britannico. Ha detto di aver deciso di abbandonare un lavoro ben pagato in un’azienda tecnologica di Zurigo per reagire all’ingiustizia storica perpetrata dalla Russia ai danni dell’Ucraina.
Kristina R., che ha chiesto di non rivelare il cognome per ragioni di sicurezza, è nata in Ucraina e ha rinunciato a molto per unirsi alla squadra: una vita confortevole in Inghilterra, dove è cresciuta, e un lavoro nel settore delle tecnologie. Kristina è l’unica componente del team a non avere un passato nell’esercito, ma in passato ha concluso un corso di rimozione di ordigni in Kosovo. All’interno del gruppo non si limita a disinnescare le cariche, ma fa anche da interprete tra ucraini e inglesi.
La squadra EOD ha un’organizzazione dal basso e prende decisioni in gruppo. È capitato, per esempio, che decidessero di non rifiutare missioni eccessivamente delicate.
A ogni modo, il gruppo sembra avere un leader non ufficiale: Markian, che ha chiesto di divulgare solo il nome di battesimo. Markian è nato in Ucraina e si è trasferito in Canada con la madre quando aveva 14 anni. Lì è stato nell’esercito, dove ha imparato a rimuovere le mine. Oggi guida l’addestramento del gruppo.
“Markian conta di restare fino alla fine della guerra,” ha detto Schneidereit. “Ma per le persone che si occupano di EOD, la guerra non finisce dopo l’ultimo colpo di fucile, ma dopo che l’ultima mina è stata rimossa. E per quello potrebbero volerci anche 40 anni.”
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