Música

Last.fm era l’unico social musicale che aveva senso di esistere

Il mio primo profilo su Last.fm si chiamava “Nergal-Behemoth”, in onore del cantante della mia band death metal polacca preferita. Le prime due tracce che ho scrobblato, il 21 febbraio 2006, furono “Africa” dei Toto ed “Electric Crown” dei Testament. All’epoca non lo sapevo ancora, ma le tastiere soffici come il velluto di Steve Porcaro avevano lacerato la mia fede nel Dio Metallo. Con il passare del tempo avrei cominciato ad ascoltare folk, e poi classic, psych e prog rock, mi sarei fissato con Johnny Cash, avrei avuto un periodo in cui sembravo un fanboy di De André, avrei scoperto l’emo e l’elettronica e l’indie e l’hip-hop e la classica e il pop. E dato che ho sempre tenuto attivo il mio account, dieci anni dopo posso esplorare giorno per giorno, canzone per canzone, come ho ascoltato musica per buona parte della mia vita.

Su due profili, il suddetto “Nergal-Behemoth” e il successivo “EliaSingsMiFaMi” (dedicato a questo splendido album), ho ascoltato 164,624 canzoni. Ho 1864 volte Sufjan Stevens, 1120 Drake, 1058 Kanye West e 985 Caneda. Per 40 volte—molte più del necessario—le note di “Follow the Reaper” dei Children of Bodom sono entrate nelle mie orecchie, mentre non mi pento di nessuno dei 48 ascolti dell’ambient cristallino di “Requiem For The Static King Part One” degli A Winged Victory For The Sullen. Se non avessi letto i commenti e i messaggi che ricevevo sul mio profilo, oggi probabilmente non conoscerei alcuni dei miei più cari amici. Se non fosse stato per la funzione diario del sito, non avrei una lista di tutti i concerti a cui sono stato dal 2006 a oggi. Ma il tempo passa, e oggi resta solo una promessa di democraticità musicale basata sullo scambio e sulla condivisione mai mantenuta, annichilita dall’evoluzione del mercato musicale e dall’economia della rete.

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Il sito, per come lo conosciamo oggi, nacque poco dopo l’inizio del millennio dall’unione di due progetti. Il primo era un’idea di Richard Jones, un ragazzo inglese che sviluppò per la sua tesi di laurea in informatica un progetto chiamato Audioscrobbler: era un plugin che, se installato su un computer, teneva traccia di tutte le canzoni ascoltate su di esso. Le informazioni raccolte—le canzoni scrobblate—venivano poi caricate in un database online consultabile liberamente da tutti gli utenti del servizio, che potevano così creare una libreria dei propri ascolti e confrontarla con quella di altri. Il secondo, Last.fm, era una web radio sviluppata da un gruppo di ragazzi tedeschi e austriaci che adattava la propria programmazione sui gusti di ogni singolo utente. Per farlo utilizzava un algoritmo, aiutato dall’inserimento di due pulsanti grazie a cui l’utente poteva esprimere un giudizio positivo o negativo sulla traccia che stava ascoltando. Le due realtà cominciarono a collaborare nel 2003, e nel 2005 si unirono in un unico sito. Presto, diedero ai propri utenti la possibilità di scrobblare canzoni da diversi player. Fu l’inizio di un’esperienza musicale collettiva unica, probabilmente impossibile da replicare in futuro.

Screenshot dal mio profilo nel 2007. Felicissimo che la Internet Wayback Machine abbia immortalato il momento in cui ho scoperto gli Impaled Northern Moonforest, cioè la miglior band della storia.

Negli anni in cui il sito fiorì, il mercato musicale di dieci anni fa non era ancora pronto alla rivoluzione dal basso che lo avrebbe colpito di lì a poco. I gatekeeper tradizionali—etichette, riviste cartacee generaliste, radio e televisioni—si rivolgevano a un pubblico informe e ne plasmavano più o meno liberamente il gusto tramite strutture commerciali e critiche dall’alto verso il basso, consolidate nei decenni precedenti. Chi non si riconosceva nella loro proposta si univa quindi in comunità autonome (forum, principalmente) per ricreare in piccolo un sistema musicale democratico che funzionava, invece, in maniera orizzontale.

Anche all’interno dei forum c’erano strutture di potere, definite dai ruoli di amministrazione e dal numero di post inseriti negli anni da ogni utente, simbolo di autorità guadagnata tramite la permanenza. Ma invece di fruire un flusso di contenuti a tema musicale, inaccessibile se non per brevi, impalpabili momenti (una telefonata in radio o in TV, un SMS da far comparire in sovrimpressione), chi partecipava a un forum si univa a un gruppo dotato di propri valori, codici comunicativi e gusti musicali costruiti collettivamente nel tempo. Last.fm colse questo spirito alla perfezione, dando ai suoi utenti l’impressione di importare qualcosa nella creazione di un discorso musicale comune.

Il sito funzionava come un museo musicale personale (“Ecco tutto quello che ho ascoltato”), basato in parte sulla competizione (“Guarda quanto l’ho ascoltato”) e in parte sul riconoscimento (“Tu ascolti quello che ascolto, quindi siamo compatibili”—c’era anche un compatibility meter perfetto per trovare profili con cui andare d’accordo). La struttura del sito incoraggiava questi fenomeni rendendo tutto cliccabile, organizzato, aggiornato e consultabile in tempo reale. L’idea geniale fu applicare questa struttura non a un catalogo predeterminato ma all’ecosistema disordinato di file mp3 sui computer di chiunque. Così anche chi aveva rippato il demo di una band di quartiere poteva, tramite una pagina artista dedicata, trovare altre persone che l’avevano ascoltata e parlarne.

Si delineava così anche una funzione connettiva: il sito offriva una sezione commenti su ogni pagina artista e profilo personale, un servizio di messaggistica privata e la possibilità di aprire gruppi. Essendo un ricettacolo di persone davvero infottate con la musica, e quindi facilmente affascinate da altri esseri umani che condividono la loro passione, non era raro che tra uno scrobble e l’altro nascessero amori e amicizie. Non era poi così raro finire sul profilo di qualcuno che ascoltava proprio quella band post-punk minuscola sciolta dopo un EP che tu tanto amavi e innamorarti perdutamente di un avatar da 180 x 180 pixel. Il risultato erano commenti tipo “Hey! Che bomba la tua libreria :)” da cui, se eri fortunato, nascevano conversazioni non lineari sulle rispettive bacheche—e poi magari qualcosa di più.

Last.fm predisse l’evoluzione della comunicazione online verso qualcosa di iper-frammentato e specializzato. Nessuno decide la musica che ascolto, sono io a crearmi uno stream personalizzato a partire da un artista, da un tag, dal profilo di un’altra persona e a pizzicare poi l’algoritmo fino a dargli una forma accogliente per le mie orecchie. Non sono obbligato ad inserirmi in una discussione generale: sono io a relazionarmi con chi ascolta cose che mi interessano, in un ambiente pensato per pullulare di micro-conversazioni. C’era inoltre un elemento diaristico, oggi scomparso: ogni utente poteva crearsi un blog personale, fattore che portò al successo di diverse forme di post ripetute di profilo in profilo (liste, recensioni, consigli). “Tutti i concerti che ho visto” era quella che andava per la maggiore, sfruttando così un’altra utilissima funzione oggi in disuso—quella degli eventi, che potevano essere aggiunti e aggiornati direttamente dagli utenti ed esplorati secondo criteri geografici.

Uno screenshot dal mio profilo del 2009. C’è anche un link al mio Netlog, dedicato a loro, con annessa citazione di Vasco Brondi all’inizio della sezione About Me. Avevo 18 anni. Però sotto ci sono i GY!BE, dai.

Il 2007 fu l’anno d’oro di Last.fm. Venne acquistato per 160 milioni dal network televisivo americano CBS, che sfortunatamente scelse di fare questo investimento giusto un anno prima dell’inizio del dominio di Facebook—ai tempi ancora appena appena simile a quello che è oggi. I problemi cominciarono un paio di anni dopo, quando il sito si trovò in mezzo alla sua prima grande crisi mediatica. Nel 2009 il leak di un album era ancora considerata una tragedia per le major: quando a comparire online prematuramente fu di No Line On The Horizon degli U2, Techcrunch accusò Last.fm e CBS di aver fornito alla RIAA (cioè l’agenzia americana che si occupa di salvaguardare gli interessi dell’industria musicale e ha combattuto per anni P2P e Torrent) i dati personali di tutti gli utenti che avevano ascoltato le canzoni di Bono e compagni prima della loro data di uscita.

Sia il sito che il network negarono, ma diversi utenti cancellarono i loro account come gesto di protesta. Acquistato da un grande player del mercato mediatico, il sito aveva cominciato a tramutarsi in qualcosa di diverso e meno libero. Sempre nel 2007, la radio del sito diventò a pagamento in tutti i paesi tranne che la Germania, gli Stati Uniti e il Regno Unito, al costo di tre euro al mese. Venne tolta la possibilità di ascoltare in streaming singole tracce, sostituendola con delle brevi anteprime se non per qualche canzone selezionata direttamente dagli artisti: questo segò le gambe a molte piccole band in cerca di visibilità. Nel 2013 la radio venne prima ridimensionata e resa esclusiva per alcuni paesi, poi sostituita interamente da una serie di embed di YouTube e da una ora defunta partnership con Spotify—un’ammissione di resa sulla questione streaming da parte del sito, schiacciato dal peso di concorrenti troppo forti e organizzati per le sue possibilità.

A tutto questo si aggiunse una serie di redesign accolti con astio sempre maggiore da parte degli utenti di lunga data. I profili diventarono sempre più standardizzati e meno personalizzabili, ma così facendo Last.fm diventò un luogo più sterile. Una barra “About Me” sulla sinistra della pagina di ogni utente poteva essere riempita di testo e immagini, ed era comune preparare su Photoshop enormi png con i loghi delle proprie band preferite da mostrare con orgoglio, magari intervallandoli con citazioni da testi, link a propri blog o siti, liste di concerti a cui si era stati. Oggi, l’unica cosa che l’utente può fare è scegliere una foto profilo, un link e un breve testo di massimo 200 caratteri senza alcun link o formattazione.

Uno screenshot dal mio profilo attuale. Notare quant’è vuoto. Il bianco è dato dal fatto che ho l’adblock attivo, credo.

Sfortunatamente, il momento di maggiore splendore di Last.fm coincise con quello in cui la musica su Internet cominciò a venire regolata in maniera più stringente. Nello specifico, con il secondo grande giro di vite dopo quello che mise fine a servizi peer-to-peer come eMule, Limewire e Bearshare (ma non Soulseek): quello che portò alla fine dei rar su servizi come Megaupload, Rapidshare e Mediafire e che sarebbe poi culminato nei tentativi di uccisione dei torrent. Prima che i servizi di streaming contemporanei—Spotify, Apple Music, YouTube su tutti—diventassero lo standard, e con essi la presenza costante di un segnale 3G e/o di un wifi, scoprire musica significava anche scaricarla e costruirsi una libreria personale di file. Last.fm era un servizio che faceva leva su questa necessità, permettendoti di scoprire nuova musica e—dopo una ricerca tipo “artista album blogspot megaupload”—di ostentarla nei tuoi scrobble.

Oggi il sito ha ampie difficoltà a generare profitto. Forse è perché non serve più a nulla, se non a tenere traccia di quello che i suoi utenti ascoltano. Non serve un catalizzatore di discussioni ed eventi, dato che ci sono già Facebook e Songkick, né c’è bisogno di radio personalizzate date le raccomandazioni gestite dagli algoritmi dei vari servizi di streaming. L’industria musicale a cui Last.fm si era contrapposto, alla fine, ha ammesso di non avere più il potere di creare musicisti da zero né di direzionare il gusto del pubblico: oggi le etichette tentano solo di acquistare, tramite il cartellino di un artista, una comunità di fan già esistente e costruita in maniera autonoma dall’artista stesso. Ma Last.fm non ha avuto un ruolo centrale in questo cambiamento di paradigma—forse perché non ha mai capito come far fruttare economicamente il suo vero core business, cioè l’archivio dei dati d’ascolto e la loro visualizzazione. Puntare sul concetto di web radio personalizzata, e scegliere di renderla a pagamento, non si è rivelata una scelta saggia in un panorama in cui la musica stava diventando praticamente gratuita e accessibile, tra upload più o meno legali su YouTube e l’affermazione dei servizi di streaming.

L’idea di creare un luogo così personalizzato sul web si contrappone alla prevalente “mentalità di massa” delle classifiche e invita l’utente a orientarsi in maniera autonoma, allontanandosi dalla tipica mentalità consumistica“, scriveva nel 2006 Europrix.org, un ente che premiava ogni anno i migliori prodotti multimediali europei. “L’utente decide, critica e quindi seleziona la musica più adatta al suo gusto o umore. [Funzionando] in questo modo, Last.fm sarà sempre rilevante“. Quindici anni dopo, la parola “rilevante” non è sicuramente la più adatta a descrivere il suo ruolo nel panorama musicale digitale. È più la reliquia di un momento passeggero dell’esperienza musicale su internet, una mini-era di libertà ribelle in cui scoprire la musica non era una questione algoritmica ma un impegno personale, una missione condivisa.

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