Música

Dal caos alla pace e ritorno: un’intervista con Maurizio Bianchi

maurizio bianchi

Maurizio Bianchi è né più né meno che un mito, un pioniere dell’industrial amato e rispettato da artisti e appassionati di tutto il mondo. Quando in pochissimi facevano certa roba noi avevamo in casa uno dei migliori, influenza fondamentale per decenni di noisers di là a venire.

Ha pubblicato centinaia di lavori e collaborato con musicisti di ogni età, paese e formazione. Un suo disco è finito pure nella classifica dei migliori album italiani di sempre secondo Rolling Stone.

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Album come Symphony for a Genocide, Mectpyo Bakterium, Endometrio e Carcinosi (che già dai titoli fanno capire che si tratta di materiale non esattamente adatto a tutti) sono veri e propri capolavori del genere, a cavallo tra industrial e noise, riconosciuti come tali da pubblico e critica su tutte le terre emerse.

Non ha mai fatto un live in tutta la sua vita, e il suo primo era previsto per il 30 settembre del 2016. Questa intervista è stata fatta poche settimane prima, con l’idea di integrarla poi con le impressioni avute a seguito dell’evento. Il destino però non ha voluto che questo primo live accadesse: a causa di un problema di salute in famiglia la data è stata cancellata pochi giorni prima.

Questa intervista è anche quasi uno scoop: personaggio estremamente schivo e riservato, MB ne ha fatte pochissime nella sua ultratrentennale carriera. Di persona soltanto una in radio e una per un giornale, entrambe negli anni ’80, poi sempre soltanto poche righe via mail. Prima di questa volta non si era mai seduto a lungo con qualcuno per discutere di tutta la sua carriera e raccontare la sua vita.

Dopo averne parlato un po’ via mail, mi ha dato appuntamento in centro, vicino all’hotel dove lavora da quasi 35 anni, e ci siamo andati a sedere in un bar di corso Vittorio Emanuele.

maurizio bianchi intervista 2016

Noisey: Partiamo dall’inizio. Tu sei nato a Pomponesco, in provincia di Mantova, nel ’55.
Maurizio Bianchi: Sì, mi sono trasferito a Milano nel ’61, con la mia famiglia.

La tua famiglia cosa faceva?
Di origine i miei erano braccianti entrambi, quindi le famiglie avevano lavorato in campagna come mezzadri. Poi mio padre lavorava in una ditta di trasporti e mia madre aveva una portineria nella zona di viale dei Mille, e io qui ho cominciato le scuole.

Quali erano i tuoi interessi da ragazzo, la tua formazione musicale?
Da piccolo ascoltavo quello che si ascoltava in famiglia: musica leggera, lo Zecchino d’oro da piccolino. Poi verso i 15 anni ho cominciato a sviluppare un po’ i miei gusti. Verso la fine degli anni ’60 ascoltavo i gruppi beat dell’epoca, e poi la musica progressiva: la PFM o i Genesis, Van der Graaf Generator, Gentle Giant, Jethro Tull…

Poi mi sono avvicinato alla musica più sperimentale dal ’72 in poi con i gruppi tedeschi, la musica elettronica: Tangerine Dream, Klaus Schulze, Faust, Neu!, La Dusseldorf.

Verso la fine del ’75, ’76 mi sono avvicinato al punk, i primi gruppi inglesi un po’ tirati: Damned, Buzzcocks, Clash, Sex Pistols, i soliti. E gli americani del CBGB tipo Television, Ramones, New York Dolls. E in quel periodo ho cominciato a amare anche i Velvet Underground.

Poi il punk aveva cominciato a diventare un po’ troppo commerciale per i miei gusti, l’aveva preso in mano l’industria e uscivano con l’etichetta di punk gruppi che non c’entravano niente, soprattutto in Italia. Ho cominciato a ascoltare anche la musica dell’istituto nazionale francese che finanziava i musicisti di elettronica sperimentale.

Il GRM.
Esatto. E mi ero fatto praticamente tutta la collezione attraverso indirizzi francesi, in Italia non si trovavano. Pierre Schaffer, Ferrari, Parmegiani. E poi i primi esperimenti di musica fatta con il computer.

Che cosa ti aveva colpito?
Le atmosfere un po’ rarefatte. Non c’erano partiture fisse, mi piacevano le improvvisazioni, la libertà, l’assenza di schemi.

Quindi si può dire che nella musica cercassi sempre maggiore libertà? Una volta che il prog è diventato più inquadrato sei andato verso il punk, una volta che il punk si è fatto più commerciale sei andato verso la sperimentazione.
Sì, proprio così. E insieme a questa musica più accademica, più istituzionale (nel caso dei francesi anche sovvenzionata dallo stato), avevo scoperto anche i primi Throbbing Gristle, attraverso un articolo che avevo letto su Rock and Folk, un giornale di musica francese, che nonostante il nome trattava un po’ di tutto, e a cui mi ero abbonato. C’era stata una paginetta interamente dedicata a loro. Da come venivano descritti i contenuti sonori e il messaggio del gruppo mi ero interessato tantissimo, solo che non si trovavano questi dischi. Ti parlo del ’78. Poi sono riuscito a avere l’indirizzo per scrivere a loro direttamente, mi risposero come fare il pagamento con i vaglia internazionali in posta e mi spedirono a casa Second Annual Report e DOA. Li ascoltati e mi presero moltissimo, riscrissi, e mi dissero che avevano una serie di cassette live, mi sembra fossero 24. Comprai anche quelle.

Nel frattempo avevo trovato un negozio a Gallarate, Carù, che aveva anche questo genere. Ogni mese mi recavo lì puntualmente e facevo il pieno di dischi: Cabaret Voltaire, Metabolist, SPK, Monte Cazazza… E arriviamo così verso la metà del ’79.

maurizio bianchi intervista copertina album Mectpyo Bakterium

Tu hai avuto anche una band con cui suonavi punk, giusto?
Sì, anni prima. All’inizio volevamo fare un gruppo, eravamo in quattro a Milano e dintorni che ascoltavamo punk e abbiamo voluto provarci: uno suonava la batteria, un altro aveva il basso e io ho detto “visto che manca la chitarra, imparo a suonare la chitarra”. Mi comprai una chitarra elettrica di seconda mano, non mi ricordo neanche la marca, non avevo neanche il jack quindi all’inizio la suonavo solo in maniera acustica. Strimpellavo un po’, facevo uscire dei suoni per conto mio. Poi c’era disorganizzazione, non ci mettevamo d’accordo per fare le prove, su cosa suonare… Era partita male, e praticamente è finita ancora prima di cominciare.

A questo punto tu studiavi o lavoravi?
Lavoravo già, già in albergo. Ho cominciato nel ’74. Lavoro dall’83 dove lavoro adesso, ma dal ’74 avevo lavorato in un altro albergo per tre anni.

Hai fatto sempre questo lavoro?
A parte un periodo di quattro mesi in cui mi ero licenziato dal primo albergo. Non mi andava più, in casa non l’avevo neanche detto prima, e mia madre si era molto arrabbiata quindi mi disse “adesso vai a lavorare dove trovi, qualsiasi cosa”. Andai a fare le vendite porta a porta di enciclopedie ma durò quindici giorni, poi un’altra vendita ma di prodotti per la casa, tipo pellicole per conservare i cibi. Partivi al mattino alle 7 con un pulmino che ti portava in Piemonte e poi ritornavi alla sera alle 10. Stavi fuori tutto il giorno e guadagnavi pochissimo, girando per mille paesini. È durato poco anche quello.

In contemporanea scrivevi anche di musica.
Sì, avevo cominciato la collaborazione con Rockerilla (recensioni) e poi in seguito Il Mucchio Selvaggio, che trattava generi molto distanti da me, però volevano aprirsi un po’ con delle rubriche diverse. Prima scrivevo di punk—ho scoperto poi che sono stato il primo a scrivere in Italia dei Ramones, tipo nel ’78—e dopo sono passato a scrivere di cose sperimentali.

Su Rockerilla già scrivevo di cose tipo No New York, Tuxedomoon, MX-80 Sound. Tutti dischi che trovavo da Carù. Io gli dicevo “su quei generi fai arrivare tutto quello che trovi, che io compro, anche a scatola chiusa”. Lui mi diceva “questo va bene per te”, e via.

Hai collaborato anche al Buscadero, a proposito di Carù (Paolo Carù dell’omonimo negozio è uno storico collaboratore della rivista, ndr).
Sì, in seguito sì. Loro avevano aperto una rubrica di musica ambient e sperimentale, ci scrivevamo in due: due paginette, una per ognuno, io ero quello che seguiva la parte sperimentale. Di Rockerilla e del Mucchio qualcosa ho a casa, un collezionista mi ha mandato delle fotocopie. L’ho fatto fino all’80, ’81.

Eravamo arrivati alla scoperta dei Throbbing Gristle.
Sì, e a un certo punto cominciai a dirmi “perché non provare a fare qualcosa di mio?”, visto che come bagaglio musicale non ero un musicista però potevo comunque improvvisare qualcosa. Senza nessuna strumentazione. Partii da un concetto di musica concreta fatta però non con suoni di ambiente e musica elettroacustica, ma partendo da sorgenti pre-registrate, vinili che avevo. Miscelando suoni, creando dei loop.

Quindi le prime cose che hai fatto le hai fatte usando dischi che avevi in casa.
Col giradischi, sì. Creavo una base in diretta e dopo su questa base incidevo una seconda traccia, con un multitraccia.

Che era l’unico strumento che usavi.
Esatto. Non ti dico i vinili che fine hanno fatto, tutti rovinati. Facendo i loop il solco poi era sempre lo stesso…

Usavi dischi belli o cose a caso che c’erano in casa?
Siccome ero un collezionista patito tenevo sempre due copie di ogni disco: uno lo tenevo per me ancora sigillato, e un altro per suonare, così se anche si rovinavano non mi interessava. Tra quelle cose ci sono i Kraftwerk, i Neu!, Todd Rungren, John Foxx di cui avevo tratto un loop da una strumentale.

Ho iniziato nell’agosto del ’79.

Qui stiamo parlando di Sacher-Pelz. Hai fatto quattro cassette. Tutte concepite con questo metodo?
Sì, esatto. Tra l’agosto del ’79 e il febbraio dell’80.

Sacher ok, e Pelz cos’era?
Avevo in casa un romanzo suo: Venus in furs, che in originale era Venus im pelz. Mi piaceva il suono, quindi unii il nome dell’autore con questa parola.

Che volendo era anche una citazione dei Velvet Underground!
È vero!

Poi nell’80 ho acquistato una strumentazione elettronica: due synth (il Korg MS20 e un Roland di quelli che si usavano nei primi anni 70, di seconda mano), più una rhythm box della Roland, una specie di drum machine. Il tutto lo collegavo a quel multitraccia, che era un Marantz semiprofessionale, con equalizzatore e tutto quanto. E attraverso dei jack collegavo tutto, ricreando anche degli echi metallici. Alcuni dei miei primi brani li ho fatti in questo modo.

Poi mi piaceva sempre il rumore: i primi “nuovi” lavori erano una miscela dei primissimi, di quelle cassette là, che usavo sotto come base, cui aggiungevo sopra queste nuove musiche “suonate”; poi con il tempo è rimasta solo la parte “nuova”, elettronica. E da lì sono usciti i primi vinili.

Alla fine dell’82 avevo preso una Echo Machine: una scatoletta con jack di entrata, volume e una manopola con cui potevi aumentare o diminuire la sorgente sonora che immettevi. Con questo sistema sono riuscito a creare le sonorità per LP come Endometrio o Carcinosi. Anche Armageddon. Sono dischi molto basati su questi echi.

Finito Sacher-Pelz nell’80 cominci a farti chiamare MB e poi Maurizio Bianchi.
Volevo che fosse un progetto più mio, più personale.

In quell’ambiente non era così comune chiamarsi con nome e cognome.
È vero. Era una scelta un po’ controcorrente, paradossalmente.

Facendo questa musica sei entrato anche in contatto con altri musicisti da tutto il mondo, compreso Merzbow che stava in Giappone.
Ho conosciuto Vittore Baroni, che si occupava di arte postale. C’erano scambi internazionali di nastri tra vari artisti. Lui mi ha fornito una miniera di indirizzi in tutto il mondo a cui spedire le mie cassette per farle conoscere e riceverne a mia volta. Tra questi contatti c’era anche Masami [Akita, Merzbow N.d.R.], che probabilmente anche lui all’inizio aveva contattato qualche artista di arte postale. Io spedivo ovunque: America, Asia, Europa… Con lui ci scambiammo i primi nastri, lui rimase affascinato e durante un viaggio in Europa venne a trovarmi con quella che allora era sua moglie, siamo stati insieme una mezza giornata. Abbiamo fatto uno scambio di vinili e poi siamo rimasti in contatto per qualche tempo. Poi avevo conosciuto anche Jupitter-Larsen degli Haters, era venuto in Italia, ci eravamo scambiati del materiale…

Dall’80 all’84 c’è il grosso della produzione storica di Maurizio Bianchi.
La prima era.

Tra i più importanti c’è forse Symphony For A Genocide.
Sì, il più rappresentativo.

maurizio bianchi intervista symphony for a genocide cassette tape

Che si ispira alla storia dei campi di concentramento. Era una provocazione caratteristica dell’immaginario industrial? Qual era la tua idea?
Avevo preso un po’ spunto dal logo della Industrial Records, il forno crematorio. Da lì ho sviluppato il discorso. Che ovviamente è apolitico, è un discorso iconografico.

Certo, non penso tu sia di simpatie naziste.
No, no, assolutamente! Apolitico da sempre.

Dal punto di vista musicale sono passati 35 anni quindi adesso quei suoni per me sono un po’ rozzi e primitivi.

Ascolti ancora i tuoi dischi?
Molto raramente. Però si nota che rispetto agli ultimi lavori i suoni di allora sono molto diversi.

L’idea comunque era quella di fare un elenco di tutti questi campi di sterminio nazisti, descrivere un po’ la colonna sonora di quello che accadeva all’interno, almeno a livello simbolico. Quindi atmosfere angoscianti che pervadono tutto il lavoro, una tensione continua. Ho cercato suoni che rendessero quelle idee, miscelandoli ogni tanto anche con le cose di prima, infatti ogni tanto ci sono onde radio che si intromettono, oppure delle voci, rumori di fondo… Uno era dato dalla puntina che stava su un disco che girava, ma non facendola andare proprio sul vinile, lasciandola all’esterno, così che facesse questo fruscio. È un sistema che ho usato anche in seguito, per esempio in Neurohabitat.

Per i dischi seguenti ho visto che l’atmosfera era abbastanza delineata e allora ho preferito non mutarla di molto, se noterai. Almeno fino a Reghel, che segna un po’ uno spartiacque: un lato ricalca ancora un po’ le cose primitive, angoscianti, dissonanti dell’inizio, invece c’è il lato B che si avvicina più alla musica minimalista. Ecco, una cosa che ho scordato di dire è che ho ascoltato tanto anche i minimalisti all’epoca: Terry Riley, Charlemagne Palestine…

Nel successivo Mectpyo Bakterium già si nota una cosa più strutturata, come LP tra i primi usciti è quello che ha riscosso più successo: l’etichetta americana che l’ha stampato, la Lion Records, esaurì tutte le copie molto presto, era andato molto bene in America, anche ben distribuito.

Poi con Das Testament sono tornato un po’ di nuovo ai miei primi lavori, quindi musica più dissonante e aggressiva, con atmosfere sempre lugubri.

È in questo periodo che c’è la famosa storia del contratto assurdo che firmasti con William Bennett dei Whitehouse, e dell’uscita dell’album con i riferimenti alle SS.
Lì ero ancora proprio all’inizio della mia carriera, erano uscite solo cassette, nessun vinile. Loro mi proposero la possibilità di fare LP con l’idea che io provvedessi a delle tracce da usare come base, e poi al resto ci avrebbero pensato loro. Quindi mi chiedevano di dare l’assenso a utilizzare il mio materiale, sia le cassette che già ci eravamo scambiati sia cose nuove. Io diedi l’assenso spinto dall’entusiasmo della possibilità di fare un vinile, che nessuno mi aveva mai proposto – sempre cassette a livello amatoriale, cinque copie, dieci copie, distribuite tra artisti e conoscenti. Un vinile in 300, 400, 500 copie che circolassero nel Regno Unito e negli Stati Uniti mi entusiasmava, e io ho dato l’assenso senza pensare a eventuali conseguenze negative, pensando solo agli aspetti positivi. Invece c’è stata questa manipolazione, con l’aggiunta di nastri con discorsi nazisti. Sì, c’erano i miei esperimenti in sottofondo, solo che sopra c’erano queste cose che sinceramente mi davano fastidio! Poi allora uno poteva pensare che Symphony fosse stato fatto perché avevo delle simpatie naziste.

Mentre Symphony era più una riflessione sul male.
Affinché certe cose del passato non si ripetessero. Il messaggio fondamentale era quello. Però il discorso era anche che è come se noi vivessimo sempre in un campo di concentramento, perché c’è sempre qualcuno che ti governa da sopra, che ti manovra, e tu diventi la vittima di un ingranaggio senza neanche rendertene conto, o quando ti rendi conto ormai è troppo tardi perché sei già dentro l’ingranaggio. Era un discorso anche psicologico.

Mentre questa operazione fatta contro il tuo consenso era un po’ campata in aria.
Sì, perché io non avevo nessuna intenzione di metterci queste registrazioni. Tra l’altro non avevo fatto neanche in tempo ad accorgermi del primo che era già uscito anche il secondo, volevano fare una serie. Avevano le copertine già pronte per il terzo. Ma a quel punto ho bloccato tutto.

Poi arriva Endometrio, altro lavoro importante.
Avevo comprato questo box per gli echi, e sperimentando con mie vecchie incisioni preregistrate prese da vari nastri, inserendole dentro questa macchina e manipolando un po’ ho cercato di creare un genere che all’epoca avevo chiamato musica bionica. In questo modo sono venuti fuori tre lavori: Endometrio, Carcinosi e Armageddon. Solo musica pre registrata (sempre roba mia) inserita dentro questo box e poi manipolata con la manopola e i filtri vari: non c’era una strumentazione. Non avevo i synth, anche perché il Roland nel frattempo l’avevo venduto, non andava più tanto bene, era già un po’ malandato quando l’avevo comprato.

Invece per Plain Truth mi ero fatto prestare da Edgardo Celerino dei Le Masque una “tastiera per violini”: una tastiera che faceva però suoni di violini, l’ho usata con suoni preincisi ed è uscito questo disco che somigliava alle atmosfere dei tedeschi che seguivo qualche anno prima. Siamo a cavallo tra l’83 e l’84.

Che è il famoso anno dello stop. Vuoi ricordare qualcos’altro prima?
Insieme a questo Edgardo ho fatto un live a Radio Popolare.

E tu non hai mai fatto live.
No, a parte questo no. Era il primo gennaio dell’83. Questa registrazione si trova sulle ristampe in cd della Ee’st [collana di Alga Marghen, N.d.R.]. Sia il concerto che la breve intervista che abbiamo fatto dopo.

Come andò il concerto?
Non ho avuto nessun riscontro! Era un breve live, è finita lì. Forse non era l’ambito giusto: Radio Popolare era più rock. Le cose più sperimentali che trattavano di solito erano quelle della scuola di Canterbury: Henry Cow, Art Bears…

Arriviamo al famoso stop, che dura per un decennio.
Tredici anni buoni.

Perché questo stop?
Perché ormai ero convinto di avere concluso un ciclo della mia vita e ne volevo cominciare un altro, più improntato sulla spiritualità. Anche se tracce di spiritualità c’erano già in Plain Truth. Perché già mi stavo accorgendo di un bisogno interiore di cambiare, di mutare il mio modo di vivere e tante cose. Volevo dare un nuovo impulso alla mia vita.

Tu fino a quel momento non eri mai stato particolarmente religioso, o interessato al tema?
No, anzi. Era l’ultima cosa cui pensavo, pur provenendo da una famiglia molto cattolica. Mio zio era un prete missionario.

E come mai questa scoperta spirituale dovette coincidere con l’abbandono della musica?
Io l’ho interpretato proprio come un voltare pagina, e tutto quello che era nel passato l’ho chiuso in un cassetto, per cominciare un capitolo nuovo.

Hai smesso soltanto di fare musica o ti è anche passato l’interesse per la musica degli altri?
Mi sono allontanato, ho perso interesse. Non ascoltavo più questo genere e molti gruppi li ho persi, anche quando sono tornato dopo 13, 14 anni ero sempre legato ai miei vecchi ascolti.

In quegli anni quindi ti sei dedicato alla tua vita privata e alla…
Alla mia ricerca spirituale.

Che ha coinciso con il tuo avvicinamento ai Testimoni di Geova.
È successo quasi tutto per caso, perché la mia fidanzata stava frequentando i Testimoni di Geova e stava studiando. Ogni tanto me ne parlava ma vedeva che io ero negativo, che non mi interessava. Poi a un certo punto mi disse “se qualche volta vuoi venire a sentire un discorso puoi venire tranquillamente”, “va bene, quando decido ti avviso”. A volte stavo per andare ma poi all’ultimo momento le telefonavo che avevo cambiato idea: c’era un avvicinamento e un allontanamento, un combattimento interiore. Finché un giorno—era un primo gennaio, anno nuovo vita nuova—mi sono deciso a telefonare… e sono andato. Da quel giorno lì mi sono trovato proprio a mio agio e ho continuato ad andare, è stato proprio un flash che mi ha toccato dentro. Poi da lì ho cominciato a frequentare, a diventare attivo, ed è andata avanti fino a oggi, ancora adesso sono attivo.

E nel frattempo la tua fidanzata è diventata tua moglie.
Eh sì, nell’ottobre dell’84.

Tua moglie ti sostiene nella tua carriera musicale o è disinteressata?
Rispetta. Però non è interessata al genere, dice che sono cose che non capisce. Sono cose che o senti proprio dentro o niente. Però mi sostiene.

Avete figli?
No, abbiamo deciso così. Per dedicarci maggiormente alla nostra attività spirituale.

Ma fate anche proselitismo? Che per quel poco che so è una delle caratteristiche del movimento.
Sì, andiamo anche noi a contattare le persone, andiamo nelle case o per la strada, facciamo anche quest’opera, è un’opera di volontariato che compiamo, non stipendiata.

Questa cosa immagino che abbia inglobato del tutto la tua vita privata, in qualche modo. Ti sei allontanato dalla musica dicevamo, ed è diventato questo il tuo interesse principale.
Ecco, bravo.

E a parte questo hai anche altre passioni? Letture, sport, viaggi… O principalmente i perni della tua vita sono stati la musica e la spiritualità?
Sì, sono stati quelli. E la fotografia, anche. Con le Polaroid all’epoca ho fatto anche copertine dei miei album. E ho fatto dei collage, oltre che curato molte grafiche delle mie uscite più recenti.

Il ritorno alla musica è stato poi nel ’97/’98, collegato all’etichetta Alga Marghen di Emanuele Carcano, con la trilogia Colori, First Day Last Day e Dates, che io amo molto.
È stata un po’ fraintesa perché alcuni l’hanno subito etichettata come “musica new age”.

Forse più ambient.
Infatti secondo me non ha niente a che fare con la musica new age. Comunque Colori è stato il mio ritorno in maniera soft, non c’erano atmosfere oscure, rumori, le cose dissonanti dell’inizio. Già in First Day Last Day c’erano cose un po’ più tese, che in Dates si sono sviluppate di più.

Questa trilogia del ritorno è stata molto influenzata dal tuo percorso spirituale.
Sì, è tutto spiegato nelle varie note di copertina: il primo è basato sui colori dell’iride, ma già First Day Last Day era legato a temi di carattere biblico, il primo giorno e l’ultimo giorno, prima della creazione e poi la nuova creazione. E Dates era basato su date legate a avvenimenti storici, biblici, fino a tempi recenti.

E così ti è tornata man mano la voglia di fare musica.
Sì, e piano piano sono ritornato un po’ alle origini, con una strumentazione diversa. Logicamente non a fare cose proprio uguali, per non ripetermi, però sonorità più rumorose e angosciose.

E anche tantissime collaborazioni.
Sì, io mandavo il mio materiale poi l’artista che collaborava metteva il suo e si creava un amalgama di suoni. Riascoltandoli notavo che c’era stata una metamorfosi davvero radicale tra il mio lavoro e il risultato finale, e questa metamorfosi è un po’ come quella del bruco che diventa farfalla. Questi apporti esterni mi hanno man mano influenzato sempre di più anche rispetto alle mie cose, sempre più sperimentali rispetto magari alle prime del ritorno. Si nota con il passare degli anni un’evoluzione continua.

Sono uscito dal mio orticello e mi sono aperto, ho aperto il mio universo a molti altri, e questo interscambio mi ha aiutato molto, perché era stimolante, era uno scambio creativo, non era solo scambiarsi gli album.

Questo però ha portato anche a una prolificità estrema, tra collaborazioni e cose mie da solo: una volta credo siano usciti tre lavori in un mese. In un anno, intorno al 2006, sono uscite una ventina di cose.

Quindi fondamentalmente il tuo tempo libero era di nuovo dedicato a quello.
Sì. Senza tralasciare l’attività religiosa. Però i ritagli di tempo erano per questo.

Nel 2009 c’è stato un nuovo stop.
Ero arrivato a un punto di saturazione. Forse tutte queste uscite su uscite mi hanno mandato un po’ in tilt, e avevo bisogno di riprendere i miei spazi personali. Ho mandato questa e-mail a tutti i miei contatti dicendo che troncavo completamente con la musica, anche per avere un po’ più di spazio e di libertà.

Poi ho finito per riprendere, nel 2013, però con più calma, con tempi molto più diradati. In quegli anni invece era proprio uno stress e sono andato in tilt.

Adesso posso farlo quando ho voglia, senza doverci stare dietro troppo come a un dovere. Mi sono anche accorto che alcuni mi chiedevano collaborazioni per vantarsi di avere collaborato con una specie di pioniere del genere, certi artisti non li ho più sentiti. Tipo Cheapmachines, o Craig Hilton, un americano. Questi sono i primi nomi che mi vengono in mente: li ho sentiti solo quella volta lì per la collaborazione e poi mai più, come dire che l’hai fatta solo per metterci un nome noto. Mentre con molti sono ancora in contatto anche senza collaborare più.

Quindi adesso quando lo faccio ci penso su bene, la prendo con calma, scelgo anche bene la persona, l’artista, non accetto più tutto.

E arriviamo al 2016 che sarà l’anno del tuo primo concerto.
Primo live! [ride]

Quindi ti chiederei intanto perché dal ’79 al 2016 non ne hai mai fatto uno, non credo che siano mancate le offerte.
No, anzi. Ne sono arrivate parecchie sia all’epoca che negli ultimi anni. Anche da Giappone, Spagna, Inghilterra, Germania, Francia, America… I primi posti che mi vengono in mente.

Reputo la mia musica una musica che non si può replicare dal vivo, perché ogni lavoro è una cosa a sé, non si può replicare sul palco facendo una cosa simile, è un discorso che si apre e si chiude lì con quello che ascolti sul disco. Replicarlo è pressoché impossibile.

E poi più che altro la mia è una musica abbastanza personale, intimistica, quindi non ho mai reputato adatto il contesto di un concerto. Poi ognuno la recepisce a modo suo, non è indicata per un’esperienza comunitaria.

Oppure si potrebbe non rifare cose già fatte sui dischi ma proporre una performance nuova.
Sì, questo sì, infatti è quello che ho intenzione di fare. Una performance non facendo brani già conosciuti ma cose inedite, questo è il mio scopo in questo live.

E come mai dopo tutti questi anni ti sei convinto? Sicuramente ci sarà stata una proposta economica interessante.
Non è neanche tanto quello.

Immagino che negli anni ce ne siano state anche di più interessanti.
Sì, infatti. L’entusiasmo di Rodolfo [Protti, N.d.R.], che sono anni che me lo chiede… ogni Congresso che organizza, lui comunque ci prova anche se sa già che risponderò di no. In più questa volta è coadiuvato da Giovanni Mori, che è un artista sperimentale di Arezzo che si è offerto gentilmente di provvedere a tutta la strumentazione, curare tutta la parte tecnica. Quindi mi ha detto di non preoccuparmi che pensa a tutto lui, e io sto tranquillo anche se è la prima volta. Mi ha un po’ spronato anche lui a questo riguardo: non sono da solo e ho trovato un valido appoggio, c’è un aiuto concreto.

E cosa presenterete quindi?
Qualcosa di improvvisato al momento. Forse un brano unico. Non abbiamo ancora ben definito, non voglio programmare troppo, dev’essere qualcosa di spontaneo.

Ma pensi che resterà una cosa unica o una volta che ti sarai sbloccato potrà avere un seguito?
Al momento a mente fredda dico che è una cosa unica, poi vediamo. Per ora altre offerte le ho declinate. Vediamo questa prima esperienza.

Tu non hai mai pensato di vivere di musica? Magari all’estero. Se fossi stato in Giappone o in Inghilterra probabilmente avresti potuto farne la tua occupazione principale. Un musicista del tuo calibro, con una popolarità internazionale… ovviamente facendo i live perché si campa di quello ormai.
Non l’ho mai pensato. Sono abbastanza casalingo, l’idea di trasferirmi all’estero proprio non la concepisco, sono molto radicato in quello che già conosco e rispetto a andare a affrontare l’ignoto sono un po’ titubante. Poi magari sarebbe anche andata bene.

Mentre immagino che in Italia fondamentalmente, soprattutto non facendo live, il problema non si sia mai posto. Nel senso che la musica non ti avrebbe mai dato la tranquillità per poterci pensare.
No, infatti.

Forse facendo molto marketing di se stessi, sapendosi vendere, tra fondazioni, musei, istituzioni, mondo artistico, collaborando con istituzioni locali… Tutte cose che hai sempre rifuggito.
Sono sempre rimasto molto legato al mio strettamente personale, senza farmi coinvolgere in iniziative, associazioni. È una cosa che proprio esulava dalla mia mente e che non ho mai pensato di affrontare.

maurizio bianchi intervista testimone di geova hotel live 2016

I tuoi dischi nel corso degli anni hanno avuto un sacco di ristampe di vario tipo, anche non autorizzate.
Purtroppo sì, perché negli anni che sono stato assente ormai ero distante anni luce da questa musica e dall’ambiente circostante, quindi neanche seguivo quello che accadeva. Quindi tutte le ristampe uscite dall’84 in poi sono tutte non autorizzate. A parte quella che ha fatto Jupitter-Larsen.

Poi ci ha pensato Alga Marghen a sistemare tutto, con una bella collana.
Esattamente.

Perché è così importante nel tuo suono, nella tua visione, il rumore? È musica o è qualcosa d’altro?
Dipende dal concetto che abbiamo di suono. Tutto quello che ci circonda è suono e se vogliamo è musica, anche i rumori intorno a noi in questo momento sono suoni, poi il fatto che uno li interpreti come musica o meno è arbitrario, è soggettivo.

E questa è una grande lezione della musica concreta.
Esatto. Quindi io interpreto come musica qualcosa che per un altro è solo rumore, perché non concepisce la musica in quel modo, come un tutt’uno.

Sono cose che a un ascoltatore profano possono risultare respingenti. Ed è un effetto che comunque tu hai ricercato.
Sì, sì, non ho mai cercato di fare qualcosa di orecchiabile o di piacevole, che venisse trasmessa per radio.

Quali sentimenti hai cercato di veicolare? Io per esempio nel periodo più rumoroso vedo una rappresentazione della noia, della frustrazione, della paranoia. Figlie del mondo contemporaneo, forse.
Eh sì. Un universo interiore molto chiuso, pessimistico, improntato sul pessimismo. Una domanda che mi facevo spesso era “chissà se arriverò al 2000”: avevo questo lato anche molto negativo, autodistruttivo quasi. Una volta.

Mi chiedevo infatti se dietro queste cose ci fosse anche un nichilismo di base, ovviamente prima della scoperta religiosa.
Sì, bravo, nichilismo è la parola giusta. Anche se qualche volta c’erano degli sprazzi di positività in certe composizioni, però erano sempre piccoli raggi di luce in una stanza molto buia.

Questa era una cosa che rifletteva molto la tua personalità. E però come mai anche quando hai trovato una serenità maggiore la tua musica ha continuato a essere molto angosciosa e dissonante? Forse perché sfoghi lì quella parte di te?
Sì, e forse anche perché qualcosa della mia vecchia personalità è rimasta. Non è che puoi annullare del tutto quello che sei interiormente: puoi modificarlo, lo puoi modellare nel corso del tempo, ci può essere una metamorfosi, però annullarlo completamente non è possibile – o fai una lobotomia e ricominci da zero, o non si può! Quindi una traccia del passato sicuramente è rimasta, non toccando quei livelli di nichilismo, però qualcosa è rimasto, in fondo.

Quindi la musica è anche un po’ una valvola di sfogo per te.
Eh sì, sempre. Come lo era nel primo periodo. Infatti quando io componevo poi mi sentivo bello rilassato, mi sentivo bene, ero anche allegro! Dopo magari riascoltando non mi piaceva, non ero mai soddisfatto. E allora componevo un’altra cosa per compensare la prima, e così via. Infatti c’era una continua ricerca e uscite continue.

Oggi che cosa ascolti?
Più che altro musica classica che mi rilassa [ride], poi ogni tanto ascolto anche cose mie attuali, mentre le cose più vecchie difficilmente riesco a riascoltarle.

Ascolti anche musica più o meno nuova?
Sì perché scambio in continuazione cd con artisti.

E, a prescindere da questi scambi, c’è musica nuova che ti interessa, che ti colpisce?
Ad essere sincero no, molto poco.

Ascolti ancora le cose che ascoltavi quando eri più giovane? Punk, industrial, musica cosmica?
Ogni tanto sì, perché mi ricorda quei tempi, come un ritorno al passato, rituffarmi lì.

Però oggi se devo mettere su musica per il mio piacere personale metto classica o di ambiente. Chopin, Beethoven, non opera. Poi Brian Eno, anche lì mi ricorda i vecchi tempi però: le collaborazioni che ha fatto coi Cluster…

C’è stata un po’ una divisione nella tua musica, tra le cose industrial/noise e quelle più ambient.
Lì dipende anche un po’ dal periodo: c’è il periodo in cui ho bisogno di sfogare di più una certa tensione interiore e allora magari mi viene di andare più sulla cosa più noise, più dissonante, e un altro periodo che sono un po’ più tranquillo, un po’ più rilassato, e magari mi sta bene anche trasporre queste sensazioni attraverso l’ambient – dipende un po’ anche dalla fase di vita che sto attraversando in quel periodo.

Sembrano contrasti ma fondamentalmente la matrice è sempre quella, che è la mia vita, il mio sentire, solo che si manifesta in due direzioni… non dico agli antipodi, però differenti. Ma la matrice di base è sempre quella.

La musica nella tua vita adesso è ancora importante come un tempo o di meno?
Beh diciamo che non è importante come una volta, però rientra sempre nei primi posti. Nei primi tre posti c’è anche la musica. Una volta magari era al primo perché era la cosa che più riuscivo a esprimere di me stesso, adesso magari riesco a esprimermi anche in altri modi, però rientra sempre nei primissimi posti, ecco.

La musica per te è stata anche un modo di testimoniare i problemi del presente, della contemporaneità.
Sì.

In questo senso ti vedo quasi come un musicista in lotta, c’è quasi uno scontro con la musica.
Sì: è l’uomo contro la macchina, che cerca di dominarla e poi viene dominato.

Quindi la musica prende il sopravvento?
A volte lo ha preso, adesso riesco a governarla di più. Prima c’era anche sempre questa insoddisfazione che portava a una ricerca continua.

Prima nominavamo i Velvet Underground, si dice che un progenitore del noise sia stato Metal Machine Music, tu lo conoscevi all’epoca?
Sì, molto bene. Solo che non riuscivo a ascoltarlo tutto, anche se però ci volevo ritornare spesso; c’era come un richiamo. Lo ascoltavo a pezzi, ma ci ritornavo. Ha lasciato un segno nel mio percorso.

In chiusura andrei sull’impegnativo: se uno dei principi base della religione è che Dio ha creato l’uomo a sua immagine, come mai l’umanità fa abbastanza schifo?
Perché inizialmente l’umanità non era così. Era davvero a immagine di Dio, poi però ha preferito scegliere la propria strada, cioè allontanarsi da Dio, anzi inimicarselo, scegliere una strada di indipendenza. E questo purtroppo l’ha abbrutita, perché l’ha portata a una condizione molto degradata col passare del tempo. È stato l’uomo che ha scelto di allontanarsi da Dio, ma Dio non si è mai allontanato dall’uomo. Lui anzi cerca sempre di avvicinarsi all’uomo.

Anche durante i genocidi o questo tipo di esperienze?
Quello purtroppo è sempre dovuto alla malvagità umana.

Se penso al mondo industrial mi sembra che la maggior parte degli artisti che fanno cose tipo Symphony o cose di quel genere, difficilmente amino Dio e l’umanità. Se penso a Boyd Rice o altri musicisti vedo percorsi molto diversi dal tuo, a volte vicini al satanismo.
È vero. Mi fa piacere che tu abbia notato l’enorme differenza, il contrasto evidente.

Questi artisti tendenzialmente hanno un’idea abbastanza apocalittica dell’umanità e di conseguenza di Dio.
Tutti abbiamo un senso di giustizia interiore, e probabilmente nel loro senso di giustizia interiore vedono che c’è troppa ingiustizia nel mondo, e le ingiustizie che l’uomo produce. E questo porta a un senso di rifiuto. Così il loro rifiuto va verso le azioni empie dell’uomo e poi direttamente verso l’uomo, e questo rifiuto dell’uomo è anche rifiuto di Dio.

Nella tua denuncia invece non c’è un rifiuto dell’uomo.
Non c’è rifiuto dell’uomo, c’è rifiuto della società umana e di come è organizzata. Partiamo sempre dal fatto che l’uomo, allontanandosi da Dio, si è venuto a trovare sotto l’influenza di chi? Di forze malefiche.

Infatti stavo per chiederti di chi è la colpa.
Queste forze malefiche hanno influenzato questi fautori. NON, Boyd Rice, sviluppano un discorso che potrebbe rasentare il satanismo, e non hai tutti i torti, perché è questa la realtà: è proprio Satana il manovratore e il manipolatore di queste menti, anche nel compiere azioni malvagie. So che può sembrare assurdo a chi non crede…

Però se c’è il libero arbitrio…
Certo. Se tu hai il libero arbitrio puoi decidere di non seguirlo.

Ma intendevo che puoi anche decidere di seguire queste spinte, se sei libero!
Sì, altrimenti saremmo tutti dei robot, seguiremmo tutti un’idea, un credo, uno stesso modo di vivere, e probabilmente non sarebbe neanche giusto.

E qual è la soluzione secondo te? Avvicinarsi a Dio?
Avvicinarsi alla sua Parola. Perché visto che Lui è quello che ci ha creati, chi meglio di lui ha la parola giusta per noi?

Federico è su Twitter: @justthatsome.

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