Sono sul mio divano da ore, che guardo un video dopo l’altro di case minuscole su YouTube. Ho altre 20 schede aperte: hack per appartamenti in affitto (tipo piastrelle incollabili) e siti immobiliari. Seleziono solo case da 35 metri quadri—ma che forse, con i lavori giusti, potrebbero trasformarsi nell’appartamento perfetto.
Quando compi 30 anni, vieni colto dalla bizzarra fantasia di comprare una casa. In fondo hai un lavoro ora, ti dici, e un mutuo è meglio di continuare a pagare l’affitto. Ma se vivi in una città come Milano—dove il mercato immobiliare è un vortice di speculazione oltre il ridicolo e costi spesso sproporzionati agli stipendi—ti deprimi in fretta.
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L’alternativa più economica che una millennial come me può considerare sono i seminterrati. Esistono seminterrati abbastanza luminosi e spaziosi da permetterti di ricreare quell’open space bohéme che hai visto su Instagram con qualche pianta tropicale e un vecchio tappeto. Ma i seminterrati in Italia sono spesso accatastati come laboratori (niente mutuo) e soffrono la grave condizione di essere—be’— sottoterra.
L’attuale crisi climatica renderà gli eventi meteorologici estremi molto più frequenti: appena ci rifletti un secondo (io lo faccio abbastanza spesso), un immobile con le finestre al livello del marciapiede appare come un pessimo investimento. Senti già l’acqua alle caviglie. Lo stesso problema—ma opposto—vale per le mansarde: l’afa estiva sarà sempre peggio e i sottotetti diventeranno anticamere dell’inferno molto costose da raffreddare.
Quindi? Quindi eccomi di nuovo alla casella di partenza: l’unica casa (a un piano superiore al primo) che posso permettermi si attesta probabilmente sui 35 metri quadri. Come si rende vivibile uno stanzino?
Non so se sia per merito del suo algoritmo o del mio subconscio, ma negli ultimi mesi YouTube si è impegnato per darmi una risposta, propinandomi svariati video e canali dedicati alle cosiddette ‘tiny house’. Ce n’è per tutti i gusti: dagli appartamenti ristrutturati secondo le regole auree del design minimalista nel caos delle metropoli asiatiche, ai vlog di chi ha deciso di vivere lontano dalla rete (anche quella fognaria) e stipato i suoi averi in un caravan da 17 metri quadri parcheggiato in mezzo al nulla (o nel cortile di un amico), a chi ha comprato tre container da trasporto merci e li ha trasformati in una casa modulare da sogno nella foresta.
I canali principali (ma ce ne sono molti altri) su cui ho consumato le mie nottate sono tre: Never Too Small, che vanta oltre 750.000 iscritti e ospita video eleganti, da pochi minuti, in cui un architetto spiega il processo e le scelte super coscienti del suo progetto; Living Big in a Tiny House, che ha quasi due milioni e mezzo di iscritti ed è presentato da Bryce, un neozelandese alto due metri e sempre stupefatto dalle case minuscole che visita in giro per il mondo; e il canale di Kirsten Dirksen (faircompanies), che conta un milione abbondante di iscritti e a sua volta viaggia per grandi città intervistando i proprietari di appartamenti prodigiosamente compatti e sostenibili. Netflix ha poi una catalogo di programmi su ristrutturazioni all’insegna della sostenibilità, del downsizing e del decluttering, tutti estremamente catartici. Infine, i social pullulano di video di gente che ha trasformato da sé sgabuzzini finestrati e pulmini della scuola, per iniziare a vivere una vita senza mutui, debiti e corrente elettrica—perché fuck that shit.
Ogni video ha l’aroma inconfondibile di qualcosa di impossibile da riprodurre uguale; per esempio, tutti gli appartamenti del canale Never Too Small hanno finestre stupende con viste mozzafiato, che a Milano semplicemente non esistono. Eppure mi sono convinta che potrei almeno estrapolare alcuni principi basilari per ristrutturare (grandiosamente) un appartamento (minuscolo) che ancora non possiedo. E ho sviluppato un’assuefazione all’eccitazione di immaginare una vita perfetta lì dentro.
Ma gli appartamenti minuscoli non sono solo una questione estetica, come, d’altronde, niente di ciò che chiamiamo design è. Si tratta più di uno stile di vita a cui devi convertirti (essere accumulatori seriali è fuori discussione in una casetta dove ogni mobile scompare dietro una precisissima lamina di faggio), e piano piano, quando cadi nella spirale in cui sono precipitata io, il tuo cervello si riprogramma.
Ogni volta che entri in una stanza, conti i passi da un muro all’altro e valuti se possa entrarci un soppalco; scarabocchi piantine ovunque; i sistemi salvaspazio diventano un’ossessione; ti chiedi se non saresti più felice possedendo solo tre maglioni beige e due paia di pantaloni kaki; se non sia addirittura doveroso scegliere di vivere in 35 metri quadri, perché così la tua impronta ambientale sarebbe minore, anzi minima; se non sia una scelta politica, persino—la soluzione a sovrappopolazione e insostenibilità dell’edilizia capitalista moderna. Ha detto qualcosa di simile persino l’ONU, nell’ultimo report sulle emissioni.
Così, tra una casetta e l’altra, la mia ansia per l’apocalisse per un attimo si placa.
“Gli ansiosi non sono stupidi,” mi ha spiegato per telefono lo psicologo cognitivo-comportamentale Andrea Arrigoni. L’ho chiamato per capire quanto la mia ossessione per le case minuscole sia determinata davvero dalla mia ansia per l’apocalisse incipiente. “L’ansia è un meccanismo di difesa antichissimo, anche le scimmie ne sono dotati, serve per mantenersi in allarme—il corpo si predispone per fuggire, combattere o per congelarsi,” ha proseguito, facendomi sentire meglio, almeno un po’. La differenza tra noi e le scimmie in questo caso però, specifica, è che il nostro pensiero è molto più complesso e per questo tendiamo a pensare in modo ripetitivo a un problema passato o immaginato come futuro. In altre parole, “se tengo in mente la minaccia penso di essere più pronto ad affrontarla. E questo da un lato è doloroso, dall’altro è confortante.”
Dunque, la mia ossessione per le case minuscole potrebbe essere in parte davvero dovuta al mio cervello che tenta di calcolare una soluzione a una minaccia incombente (la crisi climatica). Ma, mi ricorda Arrigoni, c’è anche un fattore culturale da considerare, legato all’educazione ricevuta. In altre parole, posso essere spaventata dalla crisi come fatto pratico e piuttosto lampante, ma anche sentirmi ansiosamente responsabile perché “altrimenti sarei superficiale.”
Se l’ansia mi porta a fare meglio la differenziata e a scegliere una vita a basso impatto, dice Arrigoni, non è per forza un male assoluto. Il minimalismo intrinseco a una vita in una casa minuscola, poi, può portarci a fare i conti con un’altra serie di meccanismi potenzialmente problematici e a gestire—o, meglio, “a tollerare”, ha specificato Arrigoni—emozioni negative che sono tenute lontane dal consumo usa e getta. “Se tu hai un desiderio e non puoi accedervi, provi tristezza. Ci sono persone che non lo tollerano.” Per questo, prosegue, agiamo per “immunizzarci” dalle emozioni negative, cercando, al loro posto, emozioni positive. Esprimere rabbia quando proviamo vergogna è un ottimo esempio, mi spiega, ma anche “bere, giocare d’azzardo, fare shopping compulsivo,” possono essere manifestazioni di questo meccanismo.
Rinunciare al comfort del consumismo e dell’accumulo, insomma, è un modo per allenare quella “tolleranza” alle emozioni più difficili da elaborare, come la tristezza, la vergogna e il disgusto. E anche questa potrebbe essere una buona cosa.
Allo stesso tempo, espongo ad Arrigoni la mia preoccupazione che scegliere di vivere in una casa minuscola, magari autosostenibile e piazzata nella natura selvaggia, non sia piuttosto un modo per evitare una responsabilità sociale condivisa—allontanandosi insomma da una società di cui non condividiamo i principi, ma per cui non siamo neanche più disposti a lottare. O, peggio, un modo per autoassolversi: se la mia impronta è minima, posso continuare a preoccuparmi della mia vita e non cercare di contribuire a risolvere macro-problemi, come l’ineguaglianza sociale legata all’ingiustizia climatica.
Arrigoni ha detto che bisognerebbe valutare le ragioni di ognuno e che fare discorsi generali è rischioso. Ma concorda con me nel dire che il potere della “mente alveare umana” è, negli ultimi tempi, usato più negativamente che positivamente—per giustificare azioni altrimenti vergognose, anziché per trovare soluzioni a problemi.
Vivere in una casa grande con tante persone—come una comunità—potrebbe essere altrettanto sostenibile, ma anche favorire una cultura dello scambio, della condivisione, dell’accoglienza. Ed evitare che i tuoi pochi possedimenti restino impregnati di odori ogni volta che cucini. Certo, anche questo “significherebbe rinunciare a cose che sono preordinate socialmente,” mi ha spiegato. “Significherebbe comunque tollerare emozioni diverse—venire meno al mandato sociale di essere grandi e, quindi, dover vivere da soli.”
Milano, come tante grandi città, non è un posto facile per chi non ha un capitale culturale e familiare (già insediato) su cui contare. E il mercato immobiliare è specchio di una disparità sociale spesso taciuta: gli annunci per case di lusso, plasmate dalla domotica di ultima generazione, non fanno che aumentare e persino il cohousing—un sistema abitativo nato per favorire la vita comunitaria—qui appare incastrato in logiche di profitto, mentre una vera rivoluzione abitativa su grande scala si lascia attendere.
Continuo a guardare video di case minuscole, chiedendomi se la mia ossessione per questi prodigi dell’architettura non sia solo una variante di quella più generica per le cose che si incastrano bene.
O se, in fondo, sognare in piccolo non sia un modo per accontentarsi, per non pretendere proprio quella rivoluzione che potrebbe aiutarci a ripensare, oltre a dove viviamo, come lo facciamo. E le strutture della nostra società stessa.
Mentre ci penso, salvo la quarta foto della stessa pianta grassa su Pinterest. Starebbe da dio nell’appartamento minuscolo che non ho.