Música

I peggiori testi inglesi tradotti in italiano

Alcuni inglesi

I testi delle canzoni sono sempre stati una discriminante in grado di farmi prendere bene o meno per un determinato artista. Quando ero piccolo comprai Enema of the State dei Blink-182 dopo aver visto il video di “What’s My Age Again?” su MTV (che, tra l’altro, non prendevo neanche a casa causa antenna scrausa, dovevo andare da mia nonna a fare sessioni di visione di video musicali). Sfogliavo il libretto dei testi e volevo iniziare a provare a tradurli, dizionario inglese-italiano di casa alla mano. Non riuscivo a capirci quasi un cazzo dato che, oltretutto, alle elementari facevo francese. Fast forward ad oggi ed uso Wordreference e Urbandictionary, ma non ho smesso di tradurre canzoni, è diventata la mia fissa, tanto che ci ho fatto un blog. E più esploro la mia fissa, più mi accorgo che certi pezzi, se fossero in italiano, verrebbero snobbati per via dei loro testi orripilanti. Se fosse possibile—anzi, normale—capire tutto quello che un artista dice al primo colpo, la cerchia della musica che riteniamo ineccepibile si stringerebbe vertiginosamente. Siamo sicuri che apprezzeremmo così tanto certe canzoni, band o artisti se non esistesse una barriera linguistica che rende l’inglese quasi solo un suono alle nostre orecchie italiane? Se pensiamo al fatto che in Italia il testo ha un’importanza particolarmente elevata (anzi, problematicamente elevata), ci rendiamo conto che ascoltare musica sarebbe qualcosa di molto, molto più delicato in un ipotetico contesto privo di ostacoli linguistici.

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Ora, non che ci sia un modo intrinsecamente corretto di scrivere testi. Puoi metterti giù a scrivere un concept album diviso in dieci dischi o semplicemente dire i cazzi tuoi sopra a una drum machine; puoi farti un account ufficiale su Genius e spiegare ogni singolo riferimento che fai nelle tue pappardelle oppure fregartene e lasciare che sia chi ascolta a costruirci sopra un po’ quel che gli pare (che poi alla fine è il motivo per cui penso che i testi possano essere così toccanti). Non c’è un metodo universale per scrivere bene, c’è però un livello minimo di decenza sotto al quale è lecito dire che un testo è brutto. Non potendo puntualizzare tutti i testi inglesi brutti, ho tentato di fare una panoramica, suddivisa per generi musicali, delle più tristi realtà testuali anglofone.

POP PUNK/HC MELODICO/EMO

Prendiamo la canzone che è stata l’inizio della mia presa bene con la musica. “What’s My Age Again?” è un pezzo pop punk—non ci aspettiamo certo introspezione o profondità. È una canzone che parla di come sia bello avere 23 anni (anche se Mark Hoppus ne aveva 26 quando l’ha scritta) e continuare a fare gli adolescenti senza crescere mai. Consideriamo però il testo in sé. La prima strofa racconta un’uscita tra il protagonista e una tipa, finiscono a letto, lui accende la TV perché ovviamente è meglio del sesso, e lei se ne va. Lui si incazza, e parte la vendetta:

Tornando a casa
Ho chiamato sua mamma
Da un telefono a gettoni
Ho detto “È la polizia
Suo marito è in prigione
A questo stato non piace la sodomia”
E quella puttana mi ha messo giù.

Non sarebbe strano, ora che son passati tanti anni e i Blink si sono messi a provare a fare la band seria cambiando chitarrista, vedere orde di gente cresciuta cantarla in italiano? Che da piccolo puoi anche prenderti bene per un testo che dice “È la festa del lavoro e mio nonno ha già mangiato 7 cazzo di hot dog / E si caga sempre addosso” e cantarlo ad alta voce. A quasi trent’anni la vedo più dura.

Ora: l’adolescenza e, conseguentemente, la demenzialità sono anche parte fondamentale del punk e dell’HC melodico. E ci sono band che sanno declinare le due cose più che bene. Ad esempio, fare un pezzo preso male col sorriso su come non sei riuscito a baciare una tipa name-droppando duemila band italiane coi controcoglioni in due minuti con dentro sia un dissing agli A Classic Education sia le parole “Dimmu Borgir” può risultare divertente ed efficace. Ma per ogni band che riesce a tirare fuori qualcosa che funziona, ci sono gruppi che si autodefiniscono “punk sociodemenziale”, se ne escono con canzoni dal titolo “Dario il Precario” e analizzano la crisi e l’Italia e la società come il miglior Fedez. Il problema, qua, è che con un cantato in inglese e un ascoltatore non-madrelingua (probabilmente tra i 14 e i 20 anni) la capacità di riconoscere chi fa il minchione ma con un proprio stile si perde completamente. E allora basta la melodia giusta, e via di tour mondiali.

Parlando di emo, i tòpoi del genere li conosciamo bene: la presa male, l’amore impossibile, l’andare in tour, gli amici, la distanza, eccetera. Trovarseli di fronte fa scattare la maggior parte delle volte, già in originale, una questione di amore/odio. Tradurre testi emo è un’arma a doppio taglio: essendo solitamente malinconici, il rischio è una caduta nella lamentosità o nella scontatezza. Il risultato dipende spesso dallo stile del testo originale—per dire, gli American Football scorrono bene anche in italiano grazie al loro minimalismo: due immagini, una sensazione e via. I Get Up Kids, invece, sono più discorsivi e risultano quindi, in italiano, più verbosi e innaturali. Gridare “Say goodnight / means goodbye” in inglese all’inizio del ritornello della loro “Holiday” funziona, è il perfetto singalong che esalta chi apprezza il genere e lo spinge a raccontare l’esperienza-concerto per mesi e mesi. Ma in italiano è solo una serie di frasi genericamente nostalgiche:

Dire buonanotte è dire addio.
Pensi che quando sei via la mia vita si fermi, lo so.
Forse possiamo vederci durante le vacanze,
Sei lontana mondi e mondi.
Non ho mai dimenticato tutti i nostri ieri
Ma, se parleremo durante le vacanze, mi sentirò fortunato.

Non è la stessa cosa, no? Anche qua, in originale “I’ve never forgotten all our yesterdays” non suona male. Ma se in italiano leggiamo “tutti i nostri ieri”, viene facile sentire in testa la voce di Vasco Brondi… Anche perché, tra l’altro, Vasco ha usato le stesse esatte parole in un suo pezzo. Ops!

R&B

Come Marvin Gaye ci insegna, R&B = sesso. È un luogo comune che dà, in un certo senso, identità al genere. Da Miguel a The Weeknd a Jeremih, quasi tutti i vari crooner americani parlano (anche) di sesso, in modo più o meno esplicito. E questo non è affatto un problema: The Weeknd è primo ovunque nel mondo grazie a un singolo apparentemente pulito come “Can’t Feel My Face” (apparentemente perché c’è chi dice che la destinataria del pezzo non sia una tipa ma la bamba). Ma il suo album è foderato di frasi che verrebbero prontamente messe in croce dai media italiani se solo gliene fregasse qualcosa di ascoltare davvero un album prima di trasformalo in un pezzo formulaico in terza. Ad esempio: “Alle troie va sempre di farlo, spesso / Baby, so farti piovere la figa, spesso”. Oppure, da “Tell Your Friends”:

L’unica cosa che inseguo sono i soldi,
E linee di coca, e belle tipe,
Fammi un pompino tutta notte, vengo quattro volte.
La mia piccola si vuole fumare un etto di roba,
Se ne fa un’oncia, si prende un po’ di cazzo
E va a raccontarlo alle sue amiche.

Non male, no? Ma quando un non-madrelingua sente The Weeknd, sente la sua voce di cristo e finisce lì. Il punto è che in inglese è perfettamente normale fare i grossi cantando R&B, a tal punto che anche un classicone che più classicone non si può rientra in questa struttura: “Untitled (How Does It Feel)” di D’Angelo.

Mi piacerebbe farti bagnare
Tra le cosce perché
Mi piace troppo quando ti vengo dentro.
Mi eccito così tanto quando sono con te.
Baby, chiudi la porta.
Ascoltami, voglio farti vedere una cosa.

Chissà cosa vorrà farle vedere, eh? EH? Obbiettivamente, sentire una cosa del genere in italiano non è sexy. Non è eccitante. È soltanto leggermente inquietante, o alla peggio divertente. È una cosa che potrebbe dire Guè, magari con meno parole e in modo più zarro. Non è una cosa che canticchieremmo tranquillamente per la strada fingendoci gli eredi di James Brown (cioè, magari sì, non ci sarebbe niente di male, ma insomma, avete capito). Ma basta sentirlo in inglese e tutto passa: non è più qualcosa di strano, è esattamente quello che ci aspettiamo dal genere. Provate a pensare alle stesse parole cantate da—per fare un paragone restando nella categoria uomo-dalla-bella-voce—Tiziano Ferro. Innanzitutto l’etichetta non gli farebbe mai passare qualcosa di così esplicito. Si giocherebbe l’immagine, le ospitate in TV, gli articoli sul Venerdì di Repubblica. Anche quando vuole fare il sexy, Tizianone, si trova ad usare un linguaggio tutto fumoso e alludente, mai piano. Prendiamo Xverso: “Il fatto è che tu sai cosa cerco / Collo spalle mento / Sono un bastardo cronico / Stringimi forte”. Embè? Un testo come quello di “Untitled”, da noi, sarebbe invece perfettamente attribuibile a un personaggio tipo Immanuel Casto—che nonostante un indubbio seguito (dai, “Anal Beat” la sappiamo tutti) si è visto rifiutare la possibilità di firmare dischi in giro per l’Italia da alcune grandi catene per paura che le sue canzoni sul sesso e le copertine coi pompini rovinassero la società.

RAP

Per il rap bisognerebbe fare un discorso a parte: è facile tirare fuori da un testo frasi oggettivamente terribili, ma tradurre il lingo del rap in italiano implica in ogni caso un certo grado di imbarazzo nella terminologia utilizzata e una sana dose di note a piè di pagina. Esiste infatti tutto un campionario di parole che, se vogliamo salvarci la faccia, è meglio lasciare esattamente come stanno. Userò come esempio un pezzone bomba del 2015, cioè “Trap Queen” di quel capo che è Fetty Wap. In America sono tutti impazziti per Fetty, a tal punto che è facilissimo trovare fior fior di articoli su quanto il testo di “Trap Queen” sia innovativo e importante. Il pezzo fa infatti ampio uso del vocabolario trap di Atlanta (c’è un documentario di Noisey a riguardo per approfondire la cosa) ma rovescia il suo convenzionale rapporto uomo-donna in cui il rapper c’ha i soldi e le droghe e usa entrambi per farsi le tipe, principalmente stripper e/o prostitute. In “Trap Queen” la ragazza di Fetty è sì una stripper, ma è una sua pari: hanno entrambi una Lamborghini con cui girare a fare i tamarri, preparano insieme il crack, si smezzano i soldi della roba che vendono. Per avere un riferimento, i Clipse cantavano “Troia, non toccare mai la mia coca! Non affidare mai tua figlia a una puttana”.

Ora, “Trap Queen”—come altre 32819083201 canzoni rap—contiene parole che, se tradotte in italiano, sembrano minchiate. Un bando, ad esempio, è una casa abbandonata usata per preparare (“cuocere”) il crack e gestire lo spaccio. Le bands (quelle per cui ora si è preso bene Drake, tipo) sono mazzette da mille dollari. C’è il verbo to hit, letteralmente “colpire” – ma nel vocabolario rap significa “presentarsi in un certo luogo”. In originale, la parola ha un’aura di potenza impossibile da rendere in italiano – non è che arrivo allo strip club, lo colpisco. E poi, “trap” è intraducibile. Ok, è “la trappola”; ma è tutta una cultura, una serie di pratiche, uno spaccato della scena musicale e della società di Atlanta. “Regina della trappola” sembra il nome di una dominatrice BDSM. Volendo rendere il ritornello di “Trap Queen” interamente in italiano (cosa che, sinceramente, eviterei nella traduzione di un testo rap), verrebbe fuori qualcosa del genere:

Faccio tipo, “Hey, come va? Ciao,
Ho visto il tuo bel culo appena sei entrata dalla porta.
Voglio solo sciallarmela, ho un ventello da rollare con te”.
Sono sposato ai soldi, l’ho presentata al mio fornello,
Le ho fatto vedere come mischiarla, ora la preparo a poco.
È la mia regina della trappola, le lascio bazzicare il rifugio,
Contiamo i soldi, sto parlando di Lamborghini coordinate.
(La vendo) a 56 al grammo, o a 5 per 100 grammi.
Zio, lo giuro, la adoro quando lavora su quel dannato palo.
Arrivo allo strip club, lasciamo andare mazzette da mille.
Tutti ci odiano, ma noi li chiamiamo fan.
Amo i soldi, non mi arrenderò mai.

Non sembra tutto una forzatura? E quanto fa schifo il verbo bazzicare? Non è una cosa che userebbe un traduttore di Italia 1 per cercare di fare il giovane adattando un episodio dei Simpson all’udienza di Mediaset? Ecco.

Un altro esempio di rapper-che-se-resta-in-lingua-originale-è-meglio è Future, che dopo aver pubblicato un esordio su major non proprio al top è tornato a fare quello che sa fare meglio: bere un sacco di sprite e codeina e cantare la sua vita con un flow che sa di disperazione e paranoia annegato nell’autotune. Cercare di rendere un suo testo in italiano comporta irrimediabilmente la perdita della maggior parte delle sfumature che lo rendono artisticamente una bomba. Usiamo come sempio la sua “Fuck Up Some Commas”: già solo il titolo, letteralmente “Mandiamo a puttane qualche virgola”, perde in immediatezza. Quello che Future vuole dire è “Spendiamo soldi a cazzo dato che ne abbiamo così tanti che possiamo permettercelo”. Il punto è, come rendere un concetto così diretto in italiano senza fargli perdere immediatezza? Prendiamo inoltre i primi versi del pezzo:

Mandiamo a puttane il lama, sono caldo tipo sauna,
Ho un ferro con me, non si gioca coi soldi,
Mi scopo la mia tipa, mi piace come mi sta scopando.
Un cazzo, non ce ne frega un cazzo,
Butto il mio bicchiere, ho appena comprato il mio spacciatore.
Sono pieno di fango, un negro pieno di droga.

Solo in questo verso: “Lama” è uno slang per indicare un’arma proveniente dal nome di una compagnia, la Llama Firearms. Quello che qua sopra è “ferro” in originale è “burner”, che vuol dire sia “pistola” che “cellulare usato per spacciare”. “Tipa” in originale è “Shawty”, cioè “Shorty”, che è una parola particolarissima sul cui significato è stata addirittura fatta una ricerca. “Fango” è uno dei nomi del purple drank, o lean, o dirty sprite, dal modo in cui “infanga” l’espressività di una persona. Tutto questo a dimostrare come certe sottoculture—nel nostro caso la trap—siano, in quanto tali, profondamente fondate in un linguaggio che una traduzione non potrà mai rendere alla perfezione. Sarebbe come voler tradurre i Co’sang in inglese, per dire.

Che poi, restando sull’argomento droga-strada-donne-eccetera, in Italia non c’è affatto scarsità di rapper che hanno un vocabolario tamarro ma decisamente efficace: Maru ha il marocco nel posello, Sfera sta a Cinisello Beach dove ti fanno l’iPhone e le Nike, Neda è fatto come un tuono, e così via. Resta che per far scorrere un testo rap bene anche in una traduzione in italiano—che tra l’altro sarebbe molto utile data la qualità delle narrazioni che stanno venendo fuori dalla scena americana odierna—le cose da fare sono due: cambiare leggermente il senso e/o la struttura dei versi per rendere il tutto più naturale e lasciare diversi termini originali spiegandoli con una bella noticina. Oppure, semplicemente, imparare l’inglese e fare un salto su Genius.

CANTAUTORATO

Altro rischio insito nel passaggio inglese-italiano è un’inesorabile caduta nella banalità. Esempio: “Tom’s Diner” di Suzanne Vega. È uno dei pezzi più conosciuti di una cantautrice coi controcoglioni. La linea vocale, indubbiamente, funziona. È immediatamente riconoscibile e ha un grande potenziale per entrare nella testa dell’ascoltatore indipendentemente dalla lingua che parla. Funziona sia con sotto una strumentale sia cantata interamente a cappella. Funziona così bene che che persino Giorgio Moroder ne ha fatto (o meglio, probabilmente qualcuno ha detto a Moroder di farne) una terribile, terribile cover tamarro/EDM per il suo terribile, terribile album di ritorno. E l’ha fatta cantare a Britney Spears. La Vega, o la Spears, potrebbero cantare ta-da-da-da ta-da-da-da per tutto il pezzo, all’orecchio di un non madrelingua, e il risultato sarebbe stato probabilmente lo stesso. Non possiamo che prenderci male a renderci conto che il testo, in italiano, sembra il racconto di una blogger con il blocco dello scrittore e una mattinata troppo libera.

Sono seduta, di mattina, al diner all’angolo.
Aspetto, seduta al bancone, che l’uomo versi il caffè.
E lo riempie solo a metà e, prima che possa lamentami,
Guarda fuori dalla finestra una persona che sta entrando.

E il barista dice a questa tipa che è entrata che è bello vederla. La narratrice si gira dall’altra parte e fa finta di non vederli. “Invece, verso il latte / Apro il giornale e c’è un pezzo su un attore che è morto mentre stava bevendo / Non è nessuno che conosco”. Ok. E poi, “Giro pagina e leggo l’oroscopo / E cerco i fumetti”. Si sente guardata, la Vega, e c’è una ragazza fuori dal bar che si sta mettendo a posto la gonna. Ma non la sta guardando davvero, si sta specchiando in vetrina e si bagna i capelli. Perché sta piovendo. A questo punto Suzanne, inizia a ricordare: “E questa pioggia continuerà tutta mattina, e ascolto le campane della cattedrale e penso alla tua voce / E al picnic di mezzanotte / Una volta, prima che iniziasse a piovere”. Poi finisce il caffè, e se ne va.

Ora, non c’è niente di male in una storia del genere. Non succede niente, ok, ma la stessa cosa si può dire di un sacco di narrazioni ben riuscite. Semplicemente, se un racconto così semplice in inglese scorre, in italiano fa storcere la bocca. Un “picnic di mezzanotte” sembra una cosa che a 17 anni avreste trovato estremamente romantica, tipo stare abbracciati (senza baci, eh) alla ragazza che vi piaceva un casino sotto la pioggia al posto di starvene al chiuso e al caldo come persone normali. “Funnies”, poi, è una parola molto bella: una crasi di “the funny pages”, qualcosa di dialettale, e il modo in cui la Vega la pronuncia ti fa venire anche un mezzo sorriso. Ma in italiano non è che “i fumetti”. Che tra l’altro, sui giornali, manco abbiamo. Non è la stessa cosa, non è un momento di fuga dal fatto che il barista non ti sta cagando perché vuole provarci con una tipa: in italiano, è solo un altro pezzo di un testo che rimane lì a metà tra un significato e quello che sarebbe potuto essere. Unica critica: il cliché tristezza = pioggia nun se po’ più sentì. Lo usava persino l’indimenticata Valeria Rossi.

C’è poi da affrontare la categoria “cantautori che scrivono un pezzo che funziona e vengono presi da una major che li pompa tantissimo e quindi fanno i semi-headliner ai festival ma tutti sanno solo una canzone e quelli che vanno a vederli sono spesso gente per cui il concetto di andare a un concerto equivale ai Mumford & Sons all’Arena di Verona o a Jovanotti a San Siro”. In questi casi, il testo è spesso o una serie di banalità o roba che parla d’amore standard. Ma ci sono anche quelli che ci provano davvero, a fare i cantautori. E quindi si mettono a fare pezzi pieni di metafore ed enigmi che neanche il Dylan di “Sad Eyed Lady of the Lowlands”, ma peggio. Parliamo qua di Hozier, che con la sua “Take Me to Church” ha fatto un sacco di successo con un testo di cui non si capisce una sega.

A prima vista “Take Me to Church” rientra nella categoria “canzone d’amore standard”—la “chiesa” è la camera da letto in cui Hozier fa quello che deve fare. Ma dopo una traduzione vengono fuori un sacco di frasi scollegate con una sorta di filo conduttore in cui la voce narrante si dichiara schiavo di questa persona-Dio, pronto a tutto per venerarla. Se la prima strofa ha anche qualche frase carina (“She’s the giggle at a funeral” ci sta, suvvia), man mano che il pezzo procede Hozier tenta di costruire qualcosa di più – solo, non si capisce bene dove voglia andare a parare.

Se fossi un pagano dei bei tempi andati
La mia amante sarebbe la luce del sole.
La mia dea richiede un sacrificio
Per poter restare al mio fianco.
Prosciugherò il mare,
Prenderò qualcosa di scintillante.
Serve qualcosa di sostanzioso per la portata principale.
Come sei arrogante, in sella al tuo cavallo!
Che cos’hai nella stalla?
Abbiamo un sacco di fedeli affamati.
Sembra gustoso! Sembra tanto!
È roba da affamati, questo lavoro.

Ora, l’inizio è ancora coerente—e volendo il discorso del cavallo ha senso in inglese perché “high horse” è un modo di dire per indicare quello che noi chiamiamo “il piedistallo”. Ma la portata principale? “Sembra gustoso! Sembra tanto!”? E i fedeli chi sono? E perché li avete in due? Poi Hozier continua con frasi come “Non c’è innocenza più dolce del nostro gentile peccato” (qualcuno ha letto 50 Sfumature di Grigio, qua) e “Nella pazzia e nel suolo di quella triste scena terrena” (ok).

POP

Il pop odierno resta per la maggior parte, a livello testuale, un genere in cui è basilare che l’ascoltatore medio (leggi: troglodita) possa riuscire a identificarsi pienamente in quello che ascolta. Restando nel contesto italiano, di solito, per far successo servono o una narrazione banale e sommaria su un argomento standard (l’amore, la gioventù, l’Italia, la famiglia, eccetera), o una serie di riferimenti talmente generici che tutti possano dire “Ah sì, LA SO!”.

È più o meno la stessa cosa per il mercato mondiale, chiaramente con un po’ di spazio in più per le popstar di fare quel che cazzo gli pare essendo i modelli a cui il resto del mondo guarda per produrre materiale proprio. Appunto, se Rihanna vuole fare la grossa e bullizzare la gente dicendo “Troia, vedi di avere i miei soldi” può farlo benissimo. Così come ha potuto, in passato, cantare una (gran bella) canzone su un omicidio senza alcun problema. A volte, però, traducendo pezzi pop ti rendi conto come dietro a certi testi si nascondano solo frasi e concetti apparentemente casuali. Analizziamo “Life” di Des’ree, mega-hit dei tardi anni Novanta. Quando la sentii la prima volta mi presi subito bene, ancora ai tempi di MTV di cui sopra. Il ritornello era abbastanza semplice da essere capito da chiunque: “Vita / Oh, vita / Oh, vita / Doo-doo-doo-doo”. E questo bastava a un orecchio non-madrelingua, bene così. Ma se volessimo sapere cos’è che rende così bella la vita di Des’ree? Ce lo spiegherà sicuramente nelle strofe, vero?

Ho paura del buio
Specialmente quando sono in un parco
E non c’è nessuno attorno a me.
Oh, tremo. Non voglio vedere fantasmi.
È la visione di cui ho più paura.
Preferirei mangiare un toast
E guardare il telegiornale della sera

Ok. Sicuramente la seconda strofa spiegherà meglio questa rob-

Sono una ragazza superstiziosa
Sono la peggiore del mondo
Non passo mai sotto le scale
Tengo con me una coda di coniglio
Se vuoi fare una scommessa con me
Ci sto, ovunque, in qualsiasi momento
Dimmi dove farmi trovare
Bungee jumping, non m’importa.

Ora, a meno che Des’ree sia membro dell’OuLiPo e ci sia un complesso gioco di riferimenti e/o una sistematicità dietro alle sue parole, sembra proprio sia un’ammucchiata di concetti a caso. Il pop, in generale, è inoltre perfettamente inscrivibile nella categoria banalità-su-banalità, ma non arrivo certo a dirvi niente di nuovo. Chessò, un conto è fare i pirla cantando, in inglese, “So la-da-di-da-di / We like to party / Dancing with molly / Doing whatever we want”. Un altro sarebbe doversi trovare a dire:

E allora la-da-di-da-di
Ci piace fare festa
Ballare sotto MD
E fare quello che ci pare
Questa è casa nostra
Queste le nostre regole
E non possiamo fermarci
E non ci fermeremo.

Un testo del genere potrebbero averlo i Power Francers. E nessuno vuole essere, nel 2015, quello-che-canta-i-Power-Francers-ad-alta-voce. Non che gli anni scorsi fosse meno imbarazzante, eh.

Che poi, tornando a Des’ree, anche i testi scritti a caso possono avere motivo di esistere: prendete “Loser” di Beck (“Vernicio a spruzzo le verdure / Teschi di cibo per cani con i collant da bel manzo”), che nacque come estensione dei suoi tentativi di farsi cagare da pubblici impegnati a parlare o fare altro. Beck si inventava testi senza senso per mettere i suoi ascoltatori alla prova, per testare la loro reazione. Il problema è che, nel caso di Des’ree, la totale assenza di impegno nella scrittura del testo non è qualcosa di pensato o voluto. È un vuoto pneumatico concettuale che passa totalmente sotto silenzio senza una traduzione in italiano, almeno per orecchie non allenate.

Chiaramente ci sono miriadi di pezzi che hanno testi di tutto rispetto, in inglese e in italiano, tradotti o in lingua originale. Il discorso potrebbe anche essere invertito: un conto è leggere i testi dei La Quiete in italiano, un altro le loro traduzioni. Qualche significato si smarrisce, ed è come se certe frasi perdessero efficacia. Il punto è che nonostante tutto tradurre testi resta una pratica fondamentale, per due motivi, penso: condividere con il maggior numero di persone possibili narrazioni che altrimenti si schianterebbero contro barriere linguistiche e quindi permettere a chiunque di decidere se un pezzo può davvero dirgli qualcosa o meno. Ma è anche un processo potenzialmente deprimente nella sua capacità di farti accorgere che certe canzoni siano solo accozzaglie di parole. Canzoni che, se fossero cantate nella tua lingua, non cagheresti di striscio.

Elia, non a caso, gestisce il sito Traduco Canzoni. Non usa mai Twitter, ciononostante eccolo qua: @elia_alovisi