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L’italiano che ha girato tutti i tre stelle Michelin d’Europa e li racconta in un libro

restaurante cu trei stele michelin

Quando ho iniziato questo hobby, i tristellati erano 23. Oggi sono molti, ma molti di più. E davvero pochi valgono il viaggio

Per chi come me è appassionato di alta gastronomia, i tristellati della Guida Michelin sono luoghi quasi mitologici. Luoghi che, per definizione, si raggiungono apposta per godersi le cene migliori della propria vita: menu visionari, servizio leggendario e tanti piccoli, ma incredibili dettagli che non troveresti da altre parti (tipo queste).

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Tutte le foto di Lido Vannucchi per gentile concessione di Maretti Editore

Oggi c’è un libro, “Tre Stelle Michelin” (Maretti Editore, 720 pp.), che racchiude come un’enciclopedia aneddoti, schede, riflessioni e curiosità sulle Tre Stelle, da quando sono apparse per la prima volta nel 1933 fino ad oggi. Il tutto dal punto di vista di Maurizio Campiverdi, 79enne bolognese che se li è girati quasi tutti, in Europa e una buona parte nel resto del mondo.

Che il signor Maurizio sia non solo uno dei pochi a poter dire di essere stato 25 volte al “L’Auberge du Pont-de-Collonges”, ristorante leggendario del compianto Paul Bocuse, ma pure un personaggio frizzantino, lo si vede già dal nome in copertina: Maurice von Greenfields. Capito? Maurizio Campiverdi. Persone così lo senti nell’aria che hanno un sacco di roba buona da raccontare e quindi, come sospettavo, siamo stati attaccati al telefono per oltre un’ora.

Se tutti i tristellati fossero di questo livello, scrive a proposito de El Celler de Can Roca, il loro numero si ridurrebbe all’incirca di metà.

La prima domanda naturalmente è stata: “Che razza di lavoro faceva per permettersi di visitare tutti quei tristellati ogni anno?”. Con questo libro ho voluto riassumere 60 anni di viaggi gastronomici,” mi racconta il signor Campiverdi. “Avendo lavorato per l’azienda di famiglia che faceva import-export di riso nel mondo, ho potuto sia viaggiare sia permettermi quelle cene nei momenti liberi.” Ora, io non lo sapevo, ma il commercio di riso è qualcosa di molto difficile e perfino illegale in molti paesi.

Quindi lui faceva da tramite per aziende e governi. “La passione per le Tre Stelle Michelin è arrivata a 12 anni, quando mio padre mi portò per la prima volta a La Pyramide a Vienna, vicino Lione,” mi racconta il signor Campiverdi.

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Maurizio Campiverdi alias Maurice Greenfields

Per dare giusto un accenno storico, la Guida Michelin è nata nel 1889 per mano dei fratelli Michelin, che producevano pneumatici. La loro idea era quella di fare una guida per dare ai pochissimi possessori di automobili (inventate nemmeno dieci anni prima) un motivo di usarle. E quindi di consumare le gomme. Così è nata l’idea di una guida che proponesse luoghi di ristoro e d’alloggio. Una prima curiosità, o meglio, un particolare che sfugge sempre: la guida non consiglia solo ristoranti, ma anche alberghi. Che, al posto delle stelle, hanno il simbolo di casette rosse.

“Un tempo nelle pagine della Guida gli alberghi precedevano i ristoranti […]. Occorre ricordare che per molti anni, sino al 1923, i ristoranti non apparivano sulla guida perché, con l’eccezione di Parigi e Lione, praticamente non esistevano locali degni di questo nome,” si legge in una delle tante curiosità nel libro.

Ma torniamo alla parte che ci interessa di più: i Tre Stelle e il signore che se li è girati tutti. O quasi. “In Europa me ne mancano solo tre,” mi dice Campiverdi. “Frantzen a Stoccolma, The Araki a Londra (a conferma del fatto che la cucina asiatica sta spingendo sempre di più) e Cenador de Amós in Spagna.” Nel libro scrive che andrà appena possibile nei primi due e che “quanto al Cenador, lontanissimo e scomodo, si vedrà!”.

Come avrete già intuito, non è il solito libro scritto in maniera pomposa da un signore anziano, ma un libro divertente, a tratti simpaticamente snob. E che esce fuori tema parecchie volte con paragrafi come quello sulle mele come cibo del futuro. In quasi 700 pagine si trova davvero di tutto: dalla timeline di tutte le tre stelle mai esistite ai menu passando per delle schede fatte personalmente dal signor Campiverdi/Greenfield in maniera decisamente soggettiva e trasparente. Se tutti i tristellati fossero di questo livello, scrive a proposito de El Celler De Can Roca, il loro numero si ridurrebbe all’incirca di metà.

“Una volta ci hanno messo in conto dei Calvados offerti. Per ripicca gli abbiamo chiesto di darci quello che volevamo dalla cantina. Ora ho una bottiglia di Cognac del 1907”

“Quando ho iniziato questo hobby,” continua Maurizio Campiverdi, “i tristellati erano 23. Oggi sono molti, ma molti di più. E davvero pochi valgono il viaggio.” Perché il signor Campiverdi lo intende proprio come una volta: prendere la macchina e farsi migliaia di chilometri (quando possibile) unicamente per mangiare nel tale ristorante. “Oggi ormai non mi capita quasi più di stupirmi per un piatto. Questo perché sono tanti e si è visto quasi tutto. Ma ultimamente c’è stato un risotto di Enrico Bartolini al Mudec che mi ha emozionato.”

Quello che mi sono immaginato, essendo alcuni di questi ristoranti pieni di prenotazioni per anni, è che un tipo come lui abbia una corsia preferenziale. E infatti più o meno è così. “Non mi piace come questo nuovo ruolo degli ‘chef star’ intasi i sistemi di prenotazione, non permettendo al comune mortale di andarci a mangiare. Però, nonostante mi senta un illustre sconosciuto, se capito da Modena e chiamo Massimo Bottura è probabile che, se può, mi tenga un tavolo.”

Con 60 anni di carriera da avventore vorace di cene a tre stelle, nella mia testa continuava a comparire la domanda: “hanno mai fatto figuracce questi mostri sacri?” Ovviamente sì. “Con il mio compagno di scorribande Tonino Bianchi, alla fine degli anni ‘60 andammo da Michel Guérard.” Uno dei fondatori della Nouvelle Cuisine, per intenderci. “Dopo una bella mangiata condita da bottiglie di vino di un certo spessore, lo chef è uscito e ci ha offerto quattro bicchieri di Calvados. Uno da 40, uno da 60, uno da 80 e uno da 100 anni di invecchiamento. La mattina dopo scopriamo che ce li ha addebitati.” E un italiano questa cosa la prende come un affronto: l’amaro a fine pasto è offerto, non scherziamo. “Lo chef si indigna con chi ha fatto il conto e gli dice di restituirci i soldi. Ma non si paga così un affronto. Quindi gli abbiamo detto che ci saremmo presi una bottiglia a testa dalla cantina. Sono tornato a casa con una bottiglia di Cognac del 1907 amato dal re Edoardo VII.”

La guida è famosa per il suo essere anonima e misteriosa e per le sue scelte spiazzanti (come l’aver tolto le tre stelle al ristorante di Paul Bocuse dopo un sacco di anni). Gli ispettori sono teoricamente sconosciuti, anche tra di loro, e i criteri spesso risultano inintelligibili – da sempre però la Guida mostra una spiccata, nazionalista preferenza per i ristoranti francesi, o comunque di stampo francese, e criteri nettamente diversi tra Occidente e Oriente, dove ad esempio prendono la stella locali di street food. Sembra difficile che nella Rossa si ritroveranno posti come le moderne trattorie che stanno sorgendo negli ultimi anni, o addirittura la pizza: “A volte il comportamento della Michelin non si spiega. Anche per me che frequento quei posti da 60 anni certe cose rimangono oscure,” mi dice Campiverdi. “Secondo me dovrebbero esserci molti più due stelle e meno tre, perché davvero non tutti valgono il viaggio.”

Il mito delle Tre Stelle Michelin è sicuramente ancora molto vivo, ma ha perso un po’ di fascino. Anche perché i prezzi, a quanto si legge, si sono alzati parecchio negli anni e diciamocelo, la maggior parte di noi non può permettersi di tirare fuori 400 euro per una cena. La creazione della stella verde, che premierà d’ora in poi chi fa una cucina sostenibile, sembra dimostrare una volontà di “stare al passo con i tempi”, ma la maggior parte dei ristoranti pluristellati rimangono ancora, come prezzi, inaccessibile a una clientela giovane e appassionata, ad esempio.

“Appena si potrà viaggiare andrò da Enoteca Pinchiorri,” chiude Maurizio Campiverdi. “La Feolde (patron del tristellato fiorentino, ndr) si è offesa perché non ci vado da tanto.”

Ecco, la fine è l’augurio a tutti noi, un giorno, di poter alzare il telefono un giorno e dire: “Aó, Massimo, che mi tieni un tavolino che tra mezz’ora sto da te?”

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