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‘Untrue’ di Burial è un mistero irrisolto

Untrue è qualcosa di unico. È un’affermazione (o un cliché, potremmo dire) che va affrontato quando si tratta di canonizzare classici come il secondo album di Burial. Ma storcere il naso parlando di esagerazione sarebbe sbagliato, dato che sono passati dieci anni da quando è uscito, e nessuno—nemmeno lui stesso—è riuscito a creare qualcosa di simile. Burial ha resistito a qualsiasi categorizzazione, così come i suoi ammiratori e imitatori spesso isolano un singolo elemento a renderlo il significante della bellezza notturna di Untrue—ritmi 2-step squadrati, sample R&B infagottati che vanno e vengono come fari di macchine che passano per la strada. Probabilmente non potremo ascoltare mai più qualcosa di simile a quell’album, e non è né una cosa bella né brutta. Semplicemente, è così.

Nel novembre del 2007 il pubblico era tutto tranne che preparato per Untrue, ma il suo suono era in realtà in gestazione da qualche anno prima della sua pubblicazione. Nel 2006, la Hyperdub—l’etichetta UK fondata da un poliedro della bass music, Kode9, di cui Burial fu il primo artista—aveva pubblicato il suo album d’esordio autointitolato, un’intrigante (e, in retrospettiva, variegata) introduzione al sound di Burial, quella cosa simile al ricordo di un rave che era stata suggerita dai suoi primi singoli ed EP.

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Anche se Burial non aveva la coesione e la chiarezza di Untrue, i suoi momenti migliori—la fremente “Gutted”, i synth in decomposizione di “Distant Lights” e “U Hurt Me”, gli allenamenti ambient sparsi per la tracklist—erano il segnale dell’arrivo di un nuovo talento della dubstep, un sottogenere che fino a quel punto poteva essere considerato un fenomeno prettamente inglese. A supportare Burial furono infatti soprattutto pubblicazioni inglesi: The Wire lo avrebbe inserito nella sua lista dei migliori album dell’anno.

Ma poi arrivò Untrue, ed è quasi impossibile enfatizzare troppo l’impatto che ebbe. Venne annunciato solo un mese in anticipo, e appena uscì venne immediatamente ed entusiasticamente celebrato da critici di qualsiasi estrazione. Molti lo paragonarono ad altre pietre miliari dell’elettronica, tra cui Endtroducing… di DJ Shadow, come a segnalarne un ruolo di rottura. Il che portò Untrue anche in America, verso la fine di un anno in cui la dance music e l’elettronica avevano cominciato a sviluppare un pubblico fatto non solo di puristi e clubber.

La blog house—il sottogenere social definito da un senso della melodia semplificato, manifestazione sonora degli scleri dissoluti che erano le feste di cui costituiva la colonna sonora—era al suo picco di popolarità e qualità. Quell’anno uscirono album di Klaxons, Chromeo, Justice, e Kanye West, che con Graduation contribuì a far diventare globale l’ossessione della blog house per qualsiasi cosa uscisse dalla Francia.

Sempre quell’anno il produttore svedese Axel Willner, in arte The Field, pubblicò il suo incredibile ed emotivo album di debutto From Here We Go Sublime, andando a fare una respirazione bocca a bocca alla minimal techno. Kala, il capolavoro di M.I.A., anticipò quello che sarebbe stato il suono del futuro approcciandosi all’idea di “genere” senza preconcetti. Kevin Barnes degli Of Montreal anticipò le sonorità synthpop che avrebbero preso possesso del pop alternativo con il suo capolavoro Hissing Fauna, Are You the Destroyer?. Ricordi del passato convivevano con visioni del futuro: Sound of Silver degli LCD Soundsystem, momento più alto dell aloro carriera, introdusse malinconia e rimpianti su un suono costruito da influenze nerd da prima elettronica, mentre Panda Bear degli Animal Collective fuse il suo amore per la minimal techno alla Villalobos con un senso di nostalgia luminosa in Person Pitch. Insomma, il 2007 fu un anno in cui l’elettronica cominciò a influenzare tutto e tutti. Ma Untrue ebbe comunque un impatto maggiore di qualsiasi altro album.

Nonostante Untrue avrebbe dettato diversi trend futuri, la sua anima è radicata nei suoni del passato. Così come la nostalgia analogica dei Boards of Canada per la psichedelia e per lo sfarfallio luminoso dei televisori degli anni Settanta, Untrue—e, per definirlo con una caratteristica, l’intero catalogo di Burial—trae ispirazione dai suoi finti ricordi della scena rave degli anni Novanta, creando un suono a partire dalla fretta euforica della jungle e dal procedere preciso della 2-step e del garage.

Negli anni è stato versato molto inchiostro sull’atmosfera omborsa e malinconica di Untrue, ma è importante notare il modo in cui quell’album immortala il sovraccarico sensoriale dei giorni di gloria dei rave. I sample vocali di “Etched Headplate”, quasi come dei belati, radiano su dei bassi barcollanti e un’andatura stizzosa; e la titletrack tira via il tappeto da sotto i piedi dell’ascoltatore con i suoi synth senza peso, ricreando il senso di sorpresa ed estasi tipico di quei dancefloor. Anche i momenti ambient di Untrue—l’albeggiare di “Endrophin”, i lenti accordi polverosi di “UK”—hanno una certa positività, un calore che smentisce la supposta rigidità dell’album che li contiene.

Andare a scavare tra i suoni del passato per costruirsi un’identità sonora è una pratica comune per qualsiasi musicista che abbia la dance in testa quando si mette davanti agli strumenti. C’è però una certa paura, condivisa da chiunque fa elettronica anche minimamente nostalgica, di cadere in un cliché. Burial, invece, non aveva alcun conflitto dentro di sé.

“Non sono mai stato a un festival”, disse a Mark Fisher di The Wire in un’ampia intervista pubblicata poco dopo l’uscita di Untrue. “Non sono mai stato a un rave in un campo. O in un capannone, a una festa illegale. Sono stato solo in qualche club e ho messo su pezzi in ambienti chiusi, roba così. Ho sentito parlare di tutto quest’altro, ho sognato quella roba. Mio fratello portava a casa questi dischi che mi sembravano davvero adulti, e non riuscivo a credere di essermeli trovati tra le mani. Era come quando, da piccolo, vedevi per la prima volta Terminator o Alien. Era eccitante per me scoprire quest’altro mondo. Mio fratello tornava tardi, e io mi addormentavo ascoltando i pezzi che metteva su.”

Chi si è affezionato al lavoro di Burial a tal punto da seguire ossessivamente la sua carriera negli ultimi dieci anni, l’intervista di Fisher è diventata quasi un testo sacro, e non solo perché fornisce una mappa essenziale per orientarsi tra i livelli di intenzioni e influenze che definiscono il suo catalogo. Assieme a un paio di altre, quell’intervista testimonia l’ultimo periodo in cui Burial ebbe qualcosa a che fare con il mondo della stampa. Per un po’, godette di un’anonimato quasi totale.

L’identità e la propria persona sono come un parco giochi per gli artisti che lavorano con l’elettronica e la dance music. Molti hanno scelto di nascondersi diverso a numerosi alias, o comunque condividono con Burial un certo rigetto della comunicazione mediata dalla stampa: avanguardisti come i Boards of Canada, Aphex Twin e Drexciya. Per Burial, però, il velo dell’anonimato era una lettera d’amore ai giorni d’oro dei rave, oltre che un’estensione naturale della sua personalità.

“È come l’arte perduta del mantenere un segreto, ma permette ai miei pezzi di restare più vicini a me e agli altri”, disse al Guardian nel 2007. “Ci sono certi vecchi pezzi jungle e garage di cui non sapevi niente, e quindi non c’era nulla a dividerti da loro. Mi piaceva quel mistero, era più spaventoso e sexy”. La visione rifratta del passato di Untrue segue questo approccio, andando a sommergere la pratica del campionamento sotto strati di vapore illuminato dalla luna. In quegli anni l’identificazione delle tracce era una pratica propria solo di alcuni angoli della dance culture internettiana. Non c’erano i commenti su SoundCloud, ma non c’era proprio nemmeno SoundCloud—e il modo in cui Burial coltivava un certo mistero, sia attorno alla sua musica che alla sua persona, trovò nella online culture dei tardi anni Duemila un terreno fertile per fiorire.

Poi, però, il mistero cessò di esistere. Dopo che Untrue venne nominato per il Mercury Prize 2008, un giornalista del tabloid The Sun tentò di “smascherare” Burial, essenzialmente forzando la mano per rivelare il suo vero nome—William Bevan—e un proto-selfie presente sul suo Myspace assieme a un messaggio per gli ascoltatori: “Volevo essere sconosciuto perché volevo che il focus fossero solo le mie canzoni. Nell’ultimo anno questa cosa dell’anonimato è diventata un problema, quindi non mi prende più molto bene. Sono una persona riservata e voglio solo fare un po’ di pezzi, e nient’altro”.

Tutto questo avrebbe dovuto saziare anche il complottista più sospettoso, ma nel 2013 una teoria semi-stupida per cui Burial era in realtà Kieran Hebden, cioè Four Tet, girò ampiamente su internet. A tenerla assieme erano le collaborazioni di Hebden con Burial, oltre che il fatto che entrambi frequentarono la prestigiosa Elliott School di Londra sud da ragazzini.

Verso la fine di quell’anno, Burial pubblicò un nuovo EP, Rival Dealer. Oltre a essere potenzialmente la sua uscita più forte dai tempi di Untrue, alimentò congetture che andavano oltre la sua identità. Tom Lea di FACT interpretò i temi dell’EP—l’accettazione di sé, l’identità sessuale—come una possibile dichiarazione di Bevan riguardo a sé stesso.

“Non c’è niente di così esplicito da suggerire che Rival Dealer è per Burial quello che la lettera di coming out è stata per Frank Ocean”, scrisse Lea. “Ma l’ultimo sample dell’EP—un discorso della regista transgender Lana Wachowski—unito a frasi come ‘a volte provi a trovare te stesso’, ‘fai un passo verso ciò che non conosci,’ ‘si tratta di sessualità, di mostrare a qualcuno chi sei veramente’, e ‘non sei solo’, fa pensare.” Tutto questo portò Burial a condividere non uno, ma due messaggi ai suoi fan, coerenti con il suo post su MySpace del 2008. Il primo, a dicembre 2013, in cui chiariva quale fosse il tema di Rival Dealer: un rifiuto di qualsiasi forma di bullismo. Poi, a inizio 2014, un altro messaggio unito a un selfie diventato immediatamente iconico.

Questi fatti recenti potrebbero sembrare scollegati da Untrue, ma non sarebbero mai successi se non fosse stato per quell’album. Le immagini evocative—strade, cieli nuvolosi, passeggeri di bus notturni—suggerita dalla musica di Untrue hanno ispirato artisti di qualsiasi estrazione negli ultimi dieci anni. Ma più che la sua impronta sonora, forse l’eredità di Untrue si esplicita in qualcosa di più curioso e duraturo: lo stratagemma dell’anonimato, usato da una miriade di artisti. Che si tratti di sottogeneri nati su piattaforme virtuali come chillwave e vaporwave o di grandi produzioni da studio, il modo in cui Burial ha scelto di presentare la sua persona ha influenzato una generazione di musicisti che ha conosciuto l’elettronica in larga parte grazie al suo capolavoro.

Ma tutti gli artisti più o meno anonimi che hanno intasato i blog dal 2010 a oggi, non sono mai riusciti a immortalare un momento musicale che giustifichi l’esistenza di un mistero come Untrue fece. In questo senso, come in molti altri, è irreplicabile—un fatto basilare riconosciuto anche da Burial stesso, che ha passato gli ultimi dieci anni a inseguire la sua musa per percorsi imprevedibili, da poesie inquietanti a rumori caotici, passando per beat ai limiti dell’house e applicazioni esplicite dell’ipervelocità dei rave. Non possiamo sapere se avremo mai un effettivo seguito di Untrue, ma forse—data la sua storia, la sua influenza, e la traiettoria imprevedibile che ha preso la carriera di Burial da allora—forse è meglio così.

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