Non ho mai capito se i Vampire Weekend non sono più venuti a suonare in Italia dopo il 2008 perché qua non hanno mai davvero sfondato o se, semplicemente, costavano troppo per i nostri promoter. Fatto sta che in tutto il mondo, una decina d’anni fa, “A-Punk” folgorò una buona fetta degli allora ventenni sulla via del neo-indie rock tutto libribelli, occhistrizzati e coloripastello di Ezra Koenig e compagni. Il loro album d’esordio segnò la fine di un’era della musica newyorkese, appena ripresa dalla sbornia degli Strokes, che per ultimi avevano potuto fare le rockstar. Le birre e la bamba di Julian Casablancas erano roba del passato; Ezra Koenig sorseggiava kefir sull’erba verde del prato dell’università e scriveva canzoni sulla punteggiatura.
Da allora sono successe un sacco di cose, tipo che i Vampire Weekend sono diventati una band che ha definito un’era della musica statunitense. Ezra, Rostam, Tomson e Baio hanno preso l’anulare dell’indie rock e ci hanno messo attorno un anello di pop barocco. Sono stati tra i primi a giocare al grande gioco del frullatore culturale e hanno ficcato nell’insieme del loro immaginario i balli del congo, il dub giamaicano, il calypso dei Caraibi. Hanno fatto scrivere le parole “Paul Simon” e “Graceland” a un sacco di giornalisti. Hanno scritto tre classici americani contemporanei, insomma. E poi sono stati zitti per sei anni.
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Dopo Modern Vampires of the City, uscito nel 2013, i Vampire Weekend hanno fatto un sacco di cose. Ma non un un nuovo album. Rostam è uscito dal gruppo, ma continua a scrivere insieme a Ezra, che intanto ha prodotto un podcast e un anime e ha contribuito a LEMONADE di Beyoncé con un tweet. E poi, ieri, due nuove tracce, primi assaggi di un nuovo album che si chiamerà Father of the Bride.
La prima si chiama “Harmony Hall” ed è aperta dalla chitarra di un’altra persona che, insieme a Ezra e compagni, ha definito il suono dell’indie newyorkese della sua epoca. Cioè Dave Longstreth, cioè i Dirty Projectors, cioè una garanzia di intricate melodie cristalline. Sopra, Ezra usa la cara vecchia immagine dei mesi dell’anno per raccontare una relazione che si spegne e, forse, riaccende. Un pianoforte da honky tonk bar lo accompagna per un po’. E poi un segno di continuità, uno squarcio temporale che torna al fiato corto col sorriso di “Finger Back“, che stava in Modern Vampires: “Non voglio vivere così, ma non voglio morire”.
La seconda dura poco. Si chiama “2021” e comincia con un suono che YouTube ha messo nelle orecchie di centinaia di migliaia di persone negli ultimi anni. Un pirulino trillante firmato dal compositore giapponese Haruomi Hosono, commissionato dalla catena di negozi di cose Muji per la filodiffusione nei suoi primi negozi. Uno di quei dischi dimenticati diventati culto grazie all’algoritmo di YouTube, che genera riscoperte e chicche a forza di profilazione. Un tocco splendidamente contemporaneo, un’operazione di archeologia musicale, definitiva ri-affermazione di un’opera d’arte persa tra i fili del tempo.
Usciranno altri pezzi nei prossimi mesi, da Father of the Bride. Questi due indicano la via e sembrano confermare che i Vampire Weekend non si accontentano ancora di fare canzoni. Lavorano invece materia, sia quella che loro stessi hanno generato che quella trovata grazie a operazioni matematiche che l’hanno messa sugli schermi dei loro Macbook. Capiremo tra un po’ come questo quarto tassello si incastrerà nel puzzle della loro discografia; intanto al suo interno si comincia a percepire, con gioia, un’immagine coerente, cristallina, anticipatrice. La possibilità di un indie che non si fa le pernacchie da solo copiandosi a oltranza ma si apre e sboccia, fragile e pieno di pieghe come un fiore.
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