Devo Farcela: un mixtape dal carcere di San Vittore
Illustrazione di Giulia Brachi.

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Musica

Devo Farcela: un mixtape dal carcere di San Vittore

D. è stato arrestato per spaccio negli anni Novanta, ma anche in cella non era disposto a rinunciare alla musica.

"Ho sentito il rumore delle sirene e in quel preciso istante ho capito che ero nella merda fino al collo". D. mi racconta la sua storia in un pub di Milano, da dietro i suoi occhiali che montano enormi lenti gialle stile Hunter S. Thompson. Oggi ha 63 anni: "Ora basta, mi sono ripulito e ho deciso di dare una sistemata alla mia vita. Lavoro come cassiere in un piccolo supermercato e una domenica su due torno allo stadio a tifare la mia squadra".

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D. è stato il migliore amico di mio padre per circa 30 anni. Cresciuti insieme alla periferia di Milano, ad accomunarli fin dalla tenera età sono state due passioni: la musica e il calcio. La loro amicizia subì però una prima crepa quando sul finire degli anni Settanta D., dopo essere stato arrestato per il furto di un'auto, venne incarcerato per alcuni mesi. Tornato in libertà si presentò a mio padre con al polso un orologio con il volto di Mussolini. Mio padre, all'epoca simpatizzante comunista, storse il naso.

D. avrebbe passato gran parte degli anni a seguire continuando ad andare dietro alla squadra della sua città. Per lui però, oltre che di passione, si trattava di una questione di business. "Riuscivo a tirar su una montagna di soldi grazie allo smercio di biglietti e alla mia attività di venditore ambulante fuori dallo stadio". In quegli stessi anni venne risucchiato in giri ancora più sbagliati: "Più soldi facevo, più ne volevo; così cominciai a spacciare". Almeno fino a quando quella fatidica sera (siamo sul finire degli anni Novanta) non sentì arrivare la polizia. "Non feci altro che aspettare seduto inerme sul divano, senza opporre la minima resistenza. Il giorno dopo ero confinato in gattabuia con l'accusa di spaccio".

Tre anni di prigione che sembravano non passare mai. "All'inizio dover fare i conti con il silenzio della cella mi distruggeva, il tempo dava l'impressione di essere paralizzato. Inoltre non poter sfogliare la mia collezione di dischi per me era un dramma, così chiesi al direttore del carcere se fosse possibile avere una radio". Quest'ultimo acconsentì e D. cominciò a passare i suoi pomeriggi ad ascoltare musica. "Non era facile. Spesso mi beccavo con i miei compagni. Non sempre i miei coinquilini la prendevano bene. C'era chi amava stare in silenzio e leggere, chi invece non sopportava semplicemente la musica che ascoltavo. Spesso dovevo trovare il giusto compromesso, arrivando anche a barattare sigarette per un'ora di ascolto".

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Da quei pomeriggi prese forma un mixtape a cui D. diede l'emblematico nome Devo Farcela. "Non mi sono mai lasciato andare là dentro e il titolo che ho dato alla cassetta è il mantra che mi ha accompagnato per tutti i tre anni". Domando a D. come riuscì a procurarsi una cassetta vuota. "Riuscii ad averla grazie ad una guardia che mi ero allisciato per benino, la stessa dalla quale riuscii ad ottenere altri favori, a volte non proprio leciti".

Un giorno quella compilation arrivò nella cassetta postale di casa mia, accompagnata da un biglietto con scritto "Per mio fratello P.". Avevo dieci anni e la curiosità di sentire cosa si nascondesse in quel rettangolo di plastica trasparente contenente un nastro nero mi divorava. Prima di ascoltarla aspettai che mio padre tornasse dal lavoro.

Mentre gli occhi di mio padre si facevano lucidi io in estasi ascoltavo le note di un'arrogante, per quanto sconosciuta, "Go Let It Out". Oasis, cui seguirono in ordine i Led Zeppelin con "Communication Breakdown" e poi ancora "Child In Time" dei Deep Purple, "Anarchy in the UK" dei Sex Pistols, "Welcome to the Jungle" dei Guns n' Roses e "Should I Stay or Should I Go" dei Clash. Musica che all'epoca mi suonava di una violenza brutale e che, per quanto probabilmente allora non fossi in grado di comprenderlo, rappresentava un disperato grido di libertà.

Solo anni dopo, tornando a maneggiare quel nastro, tutto ha cominciato ad assumere contorni più definiti. Al secondo giro di birre chiedo a D. se fosse un caso che la compilation iniziasse proprio sulle note di "Go Let It Out". "Ovviamente sì, non potendo scegliere l'ordine delle canzoni. Gli Oasis capitarono per caso ma posso dirti che all'epoca erano una delle poche band in grado di riaccendere in me la 'fiamma'. Li ascoltavo e istintivamente mi veniva da allargare le spalle ed alzare la testa. A prescindere da quello che dicevano i testi si capiva che i fratelli Gallagher fossero genuini, che venivano dal nulla e suonavano per quegli ultimi che riversavano poche speranze nel futuro. Ecco, loro e la loro musica erano in grado di scatenare quel moto d'orgoglio che appartiene solo ed esclusivamente a coloro che si sono ritrovati a toccare il fondo".

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Una delle cose che più mi incuriosisce sapere è se durante gli ascolti D. fosse alla ricerca di particolari messaggi che gli dessero la forza di reagire. "Non proprio" mi risponde lui. "Avrei potuto passare due giorni ad ascoltare solo gli Spandau Ballet – uno dei gruppi che più ho odiato in vita mia – pur di rompere quella monotonia. Poi, certo, ogni volta che sentivo i testi di Joe Strummer mi si scatenava dentro una scarica d'adrenalina pazzesca".

La voce rauca di D. mi mette soggezione. L'idea che mi ero fatto di lui in base ai racconti di mio padre era esattamente questa: un uomo rude che nella vita ha perso tutto, ma che non prova rancore alcuno né tantomeno rinnega il suo passato.

Continuiamo a parlare della cassetta e di quei giorni passati a premere i tasti play, record, stop. Mi racconta che le sue frequenze preferite erano Radio Capital ("a parte quando passavano quelle robe alla Neil Diamond che mi facevano veramente cagare") e Radio Onda d'Urto ("nonostante fosse un po' troppo politicizzata per i miei gusti. Ma quello passava la casa e non potevo certo lamentarmi"). Facendosi serio, D. mi dice che durante gli ascolti "capitava spesso che le guardie picchiassero alla porta della cella per intimarmi di farla finita, di spegnere quell'aggeggio. Ogni colpo era per me una sfida. Spegnere quel fottuto stereo significava perdere quel barlume di libertà che mi rimaneva. Non ricordo una volta che gliela diedi vinta".

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Chiedo a D. se ha un ricordo particolare legato a qualche brano presente nella compila. Ride. "Ricordo quando uscì il disco degli Zeppelin, mi pare fosse Physical Graffiti, e con tuo padre il giorno dell'uscita andammo in un negozio di dischi da cui uscimmo con quattro o cinque copie imboscate sotto gli impermeabili". O ancora "quando in autostrada venni inseguito da una volante della polizia con "Welcome to the Jungle" in sottofondo. Il volume della radio era talmente alto che copriva il gridare delle sirene. L'inseguimento andò avanti per alcuni chilometri, finì solo perché dovetti fermarmi in un autogrill a mettere benzina".

Dopo quasi due ore di chiacchierata D. comincia a guardare l'orologio e mi dice: "Scusami, tra mezz'ora attacco il turno al supermercato. Te l'ho detto, tutto è cambiato!". Ci stringiamo la mano da veri uomini, lui che mi ha visto gattonare e che ora mi scruta incuriosito da dietro quegli occhiali con quelle gonze lenti gialle. Prima di lasciarci gli domando quale canzone metterebbe come sottofondo alla lettura di questa storia. D. ci pensa su qualche secondo, si gratta la testa e con ghigno beffardo mi fa: "Potrà sembrare banale, ma mi viene in mente 'I Fought the Law'…" "Ma la legge ha vinto!" rispondo io. "Sì, ma siamo ancora qua, bello!".

Marco Frattaruolo è un blogger e critico musicale. Puoi trovarlo su Twitter: @frattweet.

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